12 aprile 2012

Letture: Dula di Marte, di Joe Haldeman


Foto di Giorgio Raffaelli

Chi segue questo blog sa che ho un debole per Joe Haldeman. Il suo nome sarà sempre legato al romanzo d'esordio, ma anche se non è più riuscito a rivivere i tempi gloriosi di Guerra eterna, Haldeman ha continuato a sfornare, regolare come un metronomo (e sono ormai 40 anni!), romanzi e racconti sempre abbondantemente sopra la media.

La fantascienza di Joe Haldeman ha tutta l'apparenza del prodotto standard. I contenuti delle sue storie sono tra i più classici del genere. Personaggi e situazioni non paiono discostarsi mai troppo dai cliché e dagli stereotipi che hanno fatto la fortuna della letteratura popolare. Ma ci sono due qualità che soprattutto distinguono la produzione dell'autore americano da quella dei tanti che nel corso del tempo hanno battuto e battono le stesse piste.
La leggerezza della scrittura è il motivo principale che mi fa apprezzare Haldeman. Non esiste tema troppo serio che non riesca ad affrontare con una parvenza di sorriso, senza che per questo le sue storie perdano drammaticità di sviluppo e contenuti. L'altro grosso merito che riconosco ad Haldeman è la costante tensione sovversiva che percorre appena sottotesto tutta la sua produzione. Niente di rivoluzionario o scandaloso, ma il semplice accostamento di temi fantascientifici ormai usurati, l'approccio estremamente serio e preparato alla componente scientifica delle sue storie, la brusca sterzata dal già letto al nuovo che avviene immancabile nel corso della lettura, condito con il tono scanzonato della narrazione, sono elementi che contribuiscono a sottolineare una visione non del tutto omologata e decisamente consapevole della fantascienza di Joe Haldeman.

Dula di Marte (Marsbound in originale) è l'ultimo esempio in ordine di tempo (ma il mese prossimo Urania pubblicherà Starbound, seconda parte di quello che dovrebbe essere un trittico), del talento di Joe Haldeman nel giocare con i topoi del genere. Costruito come una scatola cinese, Dula di Marte parte come un romanzo di formazione, con la giovane protagonista in rotta verso Marte con la famiglia, impegnata a prendere le misure di una nuova vita lontano da casa, si trasfoma di colpo in una storia di primo contatto, per poi rivelare nel finale la portata cosmica del disegno narrativo dell'autore.
Dula di Marte appartiene a quella schiera di romanzi che non hanno particolari ambizioni di innovazione. È una storia dal passo divertito ed efficiente caratteristico dei migliori esempi della produzione di genere ed è un ottimo esempio di fantascienza tradizionalmente intesa, capace di regalare qualche ora di piacevole lettura anche al lettore più scafato.

10 aprile 2012

Letture: Il canone occidentale, di Harold Bloom

Il canone occidentale è forse il libro più conosciuto di Harold Bloom. In questo volume Bloom, da molti considerato il critico letterario più influente al mondo, traccia una storia della letteratura occidentale analizzando le opere e gli autori che hanno creato quel canone con cui ogni scrittore si deve confrontare. Partendo da Shakespeare e Dante, Bloom riconosce come canonici altri 24 scrittori (Chaucer, Cervantes, Montaigne, Molière, Milton, Dr. Samuel Johnson, Goethe, Wordsworth, Jane Austen, Walt Whitman, Emily Dickinson, Charles Dickens, George Eliot, Tolstoi, Henrik Ibsen, Freud, Proust, James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda, Fernando Pessoa, Samuel Beckett). Nel volume illustra con competenza e passione i meriti e i limiti di ognuno di loro.

Foto di Giorgio Raffaelli

Avete presente il classico vecchio zio brontolone?
Quello a cui non va bene nulla che non abbia sperimentato personalmente?
Quello che per quanto si guardi in giro quello che vede è solo quello che ha già visto?

Dopo la lettura de Il canone occidentale posso dire che Harold Bloom m'è parso la versione critico letterario di quel vecchio zio.
Fortunatamente il cliché del vecchio zio brontolone ha anche qualche lato positivo, che la competenza, la cultura, la passione di Harold Bloom sono fuori discussione. Grazie ai suoi scritti ho scoperto autori di cui conoscevo a malapena il nome e ho potuto ammirare e approfondire le particolarità di quelli che invece conoscevo solo superficialmente.


Non ne so abbastanza per cogliere tutta la messe di informazioni e suggestioni che Bloom dedica al corpus di titoli e agli autori che ritiene degni di far parte del canone letterario occidentale, ma ci sono due aspetti più volte ribaditi nel volume che mi paiono quantomeno curiosi: l'idea di letteratura come competizione, per cui secondo Bloom gli autori farebbero a gara per superarsi vicendevolmente e la polemica nei confronti dei critici di scuola diversa (quelli devoti al politically correct, ma anche quei critici che - semplifico - vedono legami vicendevoli tra letteratura e società), che Bloom non perde occasione per sbeffeggiare, riducendo a battuta qualsiasi possibile occasione di confronto. E senza la possibilità di confrontare in modo serio e pacato le relative posizioni, l'unico che ci rimette è il lettore comune, che si trova spiazzato di fronte alla stentoreità di certe affermazioni. Anche perché quei criteri estetici che secondo Bloom sono l'unico metro per giudicare un'opera d'arte, assomigliano molto a un voler attribuire valori oggettivi a giudizi che in definitiva (e per quanto condivisibili) sono del tutto soggettivi. Ma mi fermo qua, che dal basso del mio blog non posso certo mettermi a discutere con un nume tutelare della critica letteraria come Harold Bloom.
(Annoto comunque che se mai leggerò Proust sarà per merito di questo volume).

02 aprile 2012

Letture: Perdido Street Station, di China Miéville

È inutile, non riesco proprio a trovare il tempo per proporvi quattro chiacchiere a proposito delle ultime letture (che nel frattempo si vanno accumulando: ho ormai largamente superato la dozzina di volumi di cui vorrei parlare, toccherà trovare un modo per spendere almeno due righe due per molti dei libri degli ultimi mesi… vedremo). Cerco di porre parziale rimedio riproponendo quel che scrivevo nel lontano 2004 a proposito di Perdido Street Station, primo romanzo di China Miéville tradotto in italiano.
Queste note erano disponibili nel mio vecchio sito, in una versione leggermente diversa. Le ripropongo qui e ora un po' perché il nome di Mieville è saltato fuori nei commenti agli ultimi post, un po' perché ho finito di leggere da poco La città & la città, e beh… i due romanzi hanno qualche caratteristica comune.

Foto di Giorgio Raffaelli


Perdido Street Station è un buon romanzo, con idee notevoli e immagini memorabili, penalizzato da qualche passaggio troppo interlocutorio e da un protagonista non sempre convincente.

Ma andiamo con ordine.

Tra gli aspetti memorabili nel romanzo al primo posto va citata la città di New Crobuzon, vera protagonista di Perdido Street Station: un mix tra una Londra vittoriana ancor più decadente, un'invenzione di Jeronimus Bosch e la Gotham City di qualche Batman ben riuscito. L'incrocio tra magia, tecnologia al vapore e il grottesco melting pot che caratterizza il mondo del romanzo è un altro dei motivi d'interesse del libro. Mentre la scrittura di China Miéville, per quanto a volte rischi il didascalico e lo stucchevole, riesce sempre a salvare capra e cavoli (ma non il formaggio...).

Anche la vicenda, una volta decollata, diventa interessante e sufficientemente appassionante. Dal mio punto di vista, il problema del romanzo sta forse nell'eccessivo stacco tra la parte introduttiva e quella in cui si sviluppa (finalmente!) l'azione. Il secondo quarto del romanzo è infatti eccessivamente e inutilmente pesante: crea un continuo senso di aspettativa nel lettore ribadendo più e più volte situazioni di tensione senza mai farle esplodere nelle loro conseguenze, tanto che, quando infine la situazione precipita, lo fa in maniera quasi scontata e liberatoria (penso per esempio a tutta la storia del bruco, dopo un po' non se ne poteva più...).

L'altro difetto del romanzo sta tutto nel protagonista (in uno dei protagonisti): Isaac Dan der Grimnebulin. Per certi aspetti Isaac è gestito benissimo dall'autore, ma mi ha dato la sensazione (che non saprei spiegare meglio) di essere leggermente fuori sincrono con la realtà che lo circonda. Isaac è un personaggio troppo facilmente riconducibile al nostro continuum spazio-temporale e la sua maniera di pensare e di agire è troppo da occidente-fine-XX-secolo per non risultare fuori posto nell'universo assai diverso del romanzo.

Perdido Street Station è comunque una romanzo consigliabile, un originale incrocio tra i generi, un grandioso affresco sociale a metà strada tra il grottesco e l'antropologico e (soprattutto?) un'avventura divertente, commovente e appassionante. Tutti ingredienti indispensabili per un'ottima lettura.

29 marzo 2012

Fantascienza in arrivo: Gene Wolfe


No, nessuna novità in arrivo da Gene Wolfe - magari! - che sono anni che dell'autore americano arriva da noi solo qualche racconto sparso. 
Ma la nuova edizione a marchio Fanucci de Il Libro del Nuovo Sole da oggi in libreria merita comunque una menzione.
Uscita negli Stati Uniti tra il 1980 nel 1982, la tetralogia del Nuovo Sole ha goduto di ottima visibilità anche qui in Italia. L'editrice Nord l'ha pubblicata una prima volta nel 1983/84, per riproporla poi nel 1997/98 in un nuovo formato (e con nuove traduzioni). Quest'edizione è stata quindi riproposta in tascabile da Sperling Paperback nel biennio successivo.

A distanza di 15 anni tocca a Fanucci riportare Gene Wolfe in libreria con un'edizione che si fa immediatamente notare per il prezzo: il primo volume, L'ombra del Torturatore costa 6,90 euro, i successivi L'artiglio del Concigliatore, La Spada del Littore e La Cittadella dell'Autarca 9,90 euro l'uno. In un momento in cui i libri costano mediamente il doppio va sottolineato lo sforzo economico dell'editore romano.
L'edizione Fanucci aggiunge ai quattro volumi originali anche il quinto Urth del Nuovo Sole scritto da Wolfe parecchi anni più tardi. In questo seguito si scopre il destino finale di Severian, oltre a qualche altro aspetto dell'opera originale rimasto piuttosto misterioso.
Trattandosi di Gene Wolfe la qualità del romanzo è comunque buona, ma non raggiunge mai le vette dei primi quattro libri.

Per chi là fuori non lo conoscesse, il romanzo di Gene Wolfe (che nonostante i quattro volumi cui è stato diviso Il Libro del Nuovo Sole va inteso come opera unica) narra l'epopea di Severian, apprendista torturatore, in esilio dalla sua terra natale per non aver compiuto il proprio dovere e del suo viaggio tra le genti e i luoghi di Urth.
Narrato in prima persona dal suo protagonista, che ripercorre le tracce della sua vita grazia alla prodigiosa memoria di cui è dotato, Il Libro del Nuovo Sole è insieme la cronaca di un percorso iniziatico, un'esperimento metanarrativo, un meraviglioso viaggio ai confini del tempo.
Nonostante tutte le apparenze portino a catalogare il romanzo come fantasy, Il Libro del Nuovo Sole è fantascienza, straordinaria e piena d'inventiva.
Leggetelo, che al momento in libreria è difficile trovare libri migliori di questo.

26 marzo 2012

Hypernext

Foto di Giorgio Raffaelli
Ultima segnalazione fantascientifica del mese.
In colpevole ritardo segnalo la (ri)nascita di Hypernext, blog di riferimento del movimento connettivista che ha ricominciato a trasmettere con continuità,  proponendo un sacco di contenuti interessanti su fantascienza e dintorni.
Da Philip K. Dick a Anne McCaffrey, dall'arte alla politica, dalla rete al sociale, non c'è ambito che gli amici di Hypernext non affrontino con occhio fantascientifico ma piedi ben piantati nel nostro tempo, in questa realtà.

Leggete e condividetene tutti!


20 marzo 2012

Il futuro è tornato

Foto di Giorgio Raffaelli
Per continuare questo marzo all'insegna della fantascienza vi segnalo Il futuro è tornato, un nuovo progetto che si prefigge di diventare un punto di riferimento per la fantascienza in Italia.
 Qui di seguito copio/incollo il programma di massima della blogzine.
Non fa venire l'acquolina in bocca anche a voi?

Lunedì, la presentazione della settimana e una sorta di editoriale per suggerire dei temi su cui ragionare tutti insieme, sempre a sfondo SF;

Martedì, viene recensito un libro  e questa settimana avremo due diversi punti di vista su un romanzo di Glen Cook, “Passage at arms”, molto interessante;
 

Mercoledì, un’intervista e questa settimana riproponiamo la conversazione che il nostro Nocturniano ha avuto con Dunyach, autore francese di spicco;
 

Giovedì, viene recensito un film, questa volta tocca a “Moon” ovvero al lungometraggio di esordio di Duncan Jones con un Sam Rockwell in grande forma;
 

Venerdì, si torna a parlare di libri ma per tenere d’occhio i titoli in arrivo sul nostro mercato;
 

Sabato, si parla di generi e sottegeneri della SF. Questa settimana parliamo di “planetary romance” grazie al nostro Davide;
 

Domenica, proponiamo una ricognizione sulla SF in televisione sui canali nazionali e proponiamo alla vostra attenzione dei link ad altri progetti in Rete.

Il futuro è tornato è partito questa settimana. In cabina di regia c'è una posse di appassionati cultori del nostro genere preferito.
Gli auguro la migliore delle fortune.

16 marzo 2012

Cyberpunk Redux

foto di Giorgio Raffaelli
Come un reduce da infinite discussioni ritorno, ancora una volta, a parlare di cyberpunk. L'occasione è data da un improvviso ritorno di fiamma di quella critica che tende a ridimensionare una delle pietre angolari su cui si fonda il sottogenere.

Ha cominciato Gianluca Santini con un post di apprezzamento su Neuromante di William Gibson, subito rintuzzato da Davide Mana, da sempre critico nei confronti dell'autore canadese, che ha proposto una lista di letture alternative ai soliti nomi tirati in ballo quando si parla di cyberpunk.

Su Strategie evolutive ho espresso qualche dubbio sulla bontà di alcuni dei titoli elencati e ho rimarcato i meriti di Gibson, ma per mancanza di tempo non sono riuscito ad articolare meglio il mio punto di vista. Ci riprovo ora.

Davide rimprovera due cose a Neuromante: l'essere il discendente brutto e noioso di un sacco di bella letteratura precedente, l'essere stato di moda.
Non posso contestare nessuna delle due affermazioni, la prima, per quando possa non condividerla, è del tutto legittima; la seconda, per quando io gli dia un segno positivo, non posso che riconoscerla come vera.

Quel che posso fare è cercare di riaffermare come mai, a me, Neuromante ha cambiato la vita (si fa per dire) e perché il cyberpunk, lungi dall'essere stato devastante, ha invece salvato la fantascienza.



Si era nella seconda metà degli anni '80. Dopo la scorpacciata adolescenziale avevo praticamente smesso di leggere fantascienza. In quelle storie piene di meraviglie, divertenti e magari pure intellettualmente stimolanti non mi ci trovavo più, o meglio, nelle pagine di quei volumi non riconoscevo il mondo che iniziavo ad esplorare in quegli anni. In Neuromante ho ritrovato, per la prima volta in un romanzo di  genere, le stesse suggestioni che mi regalavano romanzi che con la fantascienza avevano poco a che fare. Il romanzo di Gibson è stato forse il primo libro in cui sono riuscito a scorgere uno sprazzo di futuro che non pareva del tutto ipotetico o letterario, uno dei pochi testi in sintonia con la realtà extraletteraria di quegli anni (per come la percepivo io perlomeno).

Davide ha un bel da citarmi il nugolo di precursori che con tutti i loro meriti hanno spianato la strada al cyberpunk. Nel 1984 nessuno di quegli autori era ancora riuscito a creare quel mix perfetto di atmosfera, scrittura, visione e prospettiva che William Gibson ha messo in piedi nel suo primo romanzo. Prendiamo due nomi su tutti, due autori che ho apprezzato anch'io, uno più, uno meno, nel corso del tempo: Raymond Chandler e John Brunner.

Raymond Chandler è solitamente il primo nome a venir citato parlando di cyberpunk. Atmosfere e personaggi del noir hard-boiled rieccheggiano ripetutamente nelle pagine di Neuromante: il cavaliere con più di una macchia a sporcargli il soprabito ma col cuore immacolato, la fanciulla bella e letale, il potere corrotto e il male diffuso, la strada e la città al centro dell'azione. Appropriarsi di certi stilemi e riproporli in un contesto altro non è certo un crimine, soprattutto se all'adattamento logistico si somma una scrittura che oltre a far risuonare il cuore pulp del romanzo, non disdegna incursioni in territori parecchio diverso, tanto che all'epoca azzardai addirittura accostare la scrittura visionaria di William Gibson alla prosa beat di Jack Kerouac. Con il suo testo sfuggevole e obliquo, con il privilegiare atmosfera e invenzione e sensibilità, anche a dispetto della linearità della trama Neuromante ha dato una bella scossa a una fantascienza che, dal mio angolo di mondo, sembrava attraversare una decisa crisi creativa.

Se William Gibson si deve confrontare con il creatore di Marlowe sul piano stilistico, con John Brunner il confronto avviene sui contenuti.
Un decennio prima di Neuromante l'autore inglese aveva pubblicato The Shockwave Rider (intitolato in italiano Codice 4GH nell'edizione del 1979, Rete globale nel 1996), conquistandosi di diritto un posto nella storia per aver anticipato l'avvento di internet con tutti gli annessi e connessi del caso (connessioni, hacker, virus, etc etc). A prescindere da ogni considerazione sul valore predittivo della letteratura (ma davvero credete che sia compito della fantascienza quello di prevedere il futuro?), a me pare che sia a livello empatico che si notano tutte le differenze tra i due romanzi. Il mondo tratteggiato da Gibson mi appariva vero, vivo e vitale sia dalle prime battute, mentre il panorama di Brunner non riesce mai a sganciarsi dalla pagina scritta e intergrarsi con la realtà che mi circondava. Le problematiche personali e sociali che si agitano tra le righe di Neuromante non hanno un corrispettivo altrettanto credibile e profondo in Rete globale e per quanto l'approccio politico di Brunner sia apprezzabile, non regge in alcun modo il confronto con l'overload sensoriale cui Gibson costringe il lettore.  Neuromante riesce a reinventare il presente narrandone un futuro prossimo possibile, The Shockwave Rider, pur con tutta la buona volontà del suo autore non riesce a esser altro che un buon romanzo di fantascienza.

I motivi per cui Neuromante è diventato una sorta di spartiacque per la fantascienza dello scorso secolo non si limitano alle sue qualità letterarie. Neuromante è diventata la bandiera per tutta una nuova generazione di autori, che ne han fatto il simbolo di un approccio al genere più proletario e tecno-artistico (in teoria!), cercando di ottenere, sotto l'etichetta "cyberpunk", una visibilità che andasse oltre gli angusti corridoi della fantascienza tradizionalmente intesa. Se da un lato è innegabile che un pugno di autori sia riuscito nell'intento e abbia poi continuato a sfornare opere più o meno ricollegabili alle caratteristiche programmatiche del genere, è anche vero che la qualità delle stesse non sia stata, nella maggior parte dei casi, altrettanto memorabile, e che molti autori, nati come cyberpunker, si siano poi progressivamente distaccati da quello che è diventato una sorta di canone per rientrare in un ambito indistinguibile dalla fantascienza più tradizionale. Tanto che, se dovessi nominare oggi qualche titolo imprescindibile per tornare a immergersi nelle atmosfere cyberpunk, quelli che mi paiono tuttora tra i più significativi - penso in particolare a titoli come Snow Crash di Neal Stephenson o Necroville di Ian McDonald - appartengono alla decade successiva al fiorire del sottogenere e affrontano i temi e le situazioni care a Gibson e soci con una consapevolezza e una maturità che non apparteneva agli originali fautori del movimento.

A quasi trent'anni  di distanza da Neuromante non sono molti gli autori cyberpunk rimasti impressi nella memoria. Oltre a William Gibson e Bruce Sterling (di cui ho comunque apprezzato molto più i racconti dei romanzi), rimangono i nomi di Rudy Rucker e Pat Cadigan (anche se di quest'ultima non sono ancora riuscito a leggere alcun romanzo, i racconti letti mi son sembrati tutti decisamente sopra la media), mentre altri autori arrivati alla fama in quegli anni hanno abbandonato - se mai ne hanno fatto davvero parte - quel genere di fantascienza (penso a Lewis Shiner o a Lucius Shepard), hanno perso nel tempo parecchio del loro fascino (un nome su tutti penso possa essere quello di John Shirley) o hanno fatto perdere le loro tracce letterarie (Marc Laidlaw scrive per i giochi, Tom Maddox inegna).
Dalle ceneri del cyberpunk non sono emersi solo autori di genere, Ci sono due grandissimi scrittori, ormai del tutto avulsi da ogni connotazione di genere, che partendo da un substrato cyberpunk sono riusciti a produrre grande letteratura andando oltre ogni etichetta. Mi riferisco a Jonathan Lethem e Murakami Haruki: il cyberpunk non poteva lasciare eredità migliore.

13 marzo 2012

Anarres

Esco dal letargo (ma il pezzo promesso sul cyberpunk sta arrivando…) per segnalare la nascita di Anarres, rivista di studi critici sulla fantascienza.

Della mancanza in Italia di una critica al contempo approfondita e fruibile al pubblico della rete se n'era parlato anche qui dentro qualche tempo fa. Credo che la nascita di questo nuovo soggetto  non possa che far bene alla fantascienza tutta.
L'approccio di Anarres è quello scientifico-accademico, con lo sguardo, almeno in questi primo numero,  rivolto alla storia del genere piuttosto che ai suoi sviluppi più recenti.
Ma non manca - lo segnalo soprattutto a Davide Mana, che so esserne un grande estimatore - un corposo contributo sulla trilogia marziana di Kim Stanley Robinson.

Allo staff di Anarres vanno i miei migliori auguri di lunga vita e prosperità.



06 marzo 2012

Space Opera a confronto: Il tempo del vuoto, di Peter Hamilton / Matter, di Iain M. Banks

foto di Giorgio Raffaelli
Ho letto Il tempo del vuoto e Matter a poca distanza uno dall'altro, e no, non è stato un caso. Dopo aver concluso il romanzo di Peter Hamilton, che è poi il secondo della trilogia del vuoto (del primo avevo parlato qui), sentivo il bisogno di leggere qualcosa che riportasse la Space Opera a un livello più consono alle sue potenzialità di riflessione e speculazione sulla vita, l'universo e tutto quanto. Detto in altre parole, avevo bisogno della Cultura.

Prima che arrivi marco con un "te l'avevo detto io!", che è da parecchio che si prende gioco di me per le buone parole spese su Hamilton nel tempo, sarà forse il caso di giustificare in qualche modo la preferenza accordatagli (ad Hamilton, non a marco).
Ho scoperto Peter Hamilton grazie ai commenti entusiasti di più di una conoscenza on-line, ai tempi di it.cultura.fantascienza e della Fantascienza Mailing List. Quando Urania ha proposto in una dozzina di volumi la sua trilogia de L'Alba della Notte ne sono diventato un appassionato lettore. Sono tuttora convinto che  quel ciclo rappresenti uno dei migliori esempi recenti di fantascienza popolare: le dimensioni cosmiche della narrazione, la storia avvincente, la messe di meraviglie, i personaggi ben tratteggiati, le sorprese e le emozioni. In quei romanzi c'è tutto quel che serve per intrattenere il lettore, e poco importa se l'intrattenimento è l'unico risultato, mica sempre si ha voglia di  profondità e riflessione.
Viste le premesse, la notizia della pubblicazione di un nuovo libro di Hamilton mi ha trovato in prima fila, pronto ad immergermi nuovamente nell'universo dell'autore inglese. In effetti con Il sogno del vuoto, primo volume di questa nuova trilogia, la lettura non è filata proprio liscia, ma l'esperienza non è stata nemmeno così negativa da esaurire la linea di credito di cui Hamilton godeva. Ne Il tempo del vuoto le qualità e i difetti riscontrati nel volume precedente rimangono grosso modo gli stessi. Il plot principale in cui confluiscono le storie e le situazioni che costituiscono il cuore della vicenda assume (finalmente!) una sua forma, ma la lettura non riesce mai ad essere così avvincente da non lasciar scorgere ridondanze e difetti strutturali, che riguardano soprattutto la scarsa personalizzazione dei personaggi, e l'impressione di una bulimia creativa (tutto è sempre più grande, più potente, più incredibile) che appiattisce il potenziale meraviglioso delle invenzioni dell'autore in una massa narrativa informe  (e anche piuttosto ingombrante). Il libro si lascia comunque leggere e non escludo a priori l'acquisto della parte finale della storia, che stanti i difetti menzionati, Hamilton è comunque in grado di intrattenere il lettore. Se rimane l'incertezza sulle effettive capacità dell'autore di condurre in porto una vicenda di siffatte dimensioni, sono però curioso di leggere come andrà a finire il tutto.

Iain M. Banks invece… beh… Iain M. Banks è tutta un'altra cosa. Certo, in apparenza Matter ha più di un aspetto in comune con Il tempo del vuoto. Oltre a essere catalogabili come Space Opera, in entrambi i romanzi aspetti caratteristici della fantascienza più classica (scenari galattici, tecnologia postumana, intelligenze artificiali etc etc) spartiscono la scena con società arretrate e con una profonda immersione in quelli che a prima vista appaiono essere aspetti caratteristici dei più tradizionali romanzi fantasy.
Detto questo i due romanzi non potrebbero essere più diversi per costruzione, svolgimento, profondità.

Quel che Hamilton cerca di ottenere per continua addizione e moltiplicazione (di scenari, personaggi, invenzioni ed esplosioni) Banks lo ottiene catalizzando l'attenzione del lettore su una manciata di personaggi e sulla meravigliosa e progressiva rivelazione dei legami tra i mondi e i protagonisti, rivelazioni che costituiscono l'asse portante della narrazione. Matter si svolge per la maggior parte su un enorme pianeta artificiale stratificato, con livelli che si sovrappongono concentrici uno sull'altro, alcuni abitati, altri deserti, altri con funzioni sconosciute o dimenticate. Su uno di questi livelli vivono e properano i Sarl, una razza umanoide strutturata in una società a mezza via tra un passato di stampo tardo medievale e i primi passi di un'era industriale, società che nonostante l'evidente gap tecnologico è ben conscia dell'esistenza, al di fuori del proprio mondo, di un universo frequentato da razze e culture infinitamente più potenti se non altrettanto progredite. Per una serie di eventi che pescano dalla tradizione più classica degli scenari letterari (tradimento, usurpazione, guerra) i Sarl, nello specifico alcuni appartenenti della famiglia reale al governo, si trovano coinvolti in uno scenario galattico che sfugge alla loro piena comprensione ma che non di meno influisce attivamente sulla loro esistenza.

Matter è l'ottavo romanzo di Iain M. Banks in cui compare la Cultura. Come sempre accade con l'autore scozzese, il fulcro della vicenda sta nel confronto tra la visione Culturale dell'esistenza e quella del resto dell'universo, che si esplicita nell'incontro tra individui cresciuti in contesti differenti, costretti a confrontare visioni etico/morali spesso antitetiche o comunque problematiche (per il lettore, se non per i personaggi stessi).
Sulla Cultura stessa ci sarebbero parecchie cose da dire. In un estremo tentativo di sintesi direi che la società distribuita inventata da Banks è uno dei rari casi di utopia funzionante che non si risolve in una semplice stasi sociale, ma che rimane dinamica e vitale grazie alla molteplicità di voci diverse che la animano e al confronto, spesso tutt'altro che pacifico, con il resto dell'universo. La Cultura è un'anarchia ricca, fondata sull'assunto dell'abbondanza di risorse e sull'amministrazione delle stesse da parte di intelligenze superiori (le Menti) che convivono con una molteplicità di esseri viventi (soprattutto umanoidi) che si adattano al codice morale della Cultura stessa.
(Oltre alla lettura dei romanzi, un punto di partenza consigliato per esplorare la Cultura potrebbero essere queste "note sulla Cultura" scritte da Iain Banks qualche anno fa).

Da quando ho iniziato a leggere fantascienza la Space Opera non è mai stata in cima alle mie preferenze. Le meraviglie con cui preferivo confrontarmi erano quelle che riguardavano tecnologia e società, piuttosto che quelle cosmiche e impalpabili dello spazio profondo, rese magari concrete e appetibili a suon di battaglie spaziali, astronavi e alieni assortiti. Iain M. Banks è riuscito a convincermi delle potenzialità che anche la Space Opera possiede di approfondire temi e situazioni decisamente più vicine alla vita quotidiana di questo spicchio di esistente. Il merito principale che riconosco all'autore scozzese è quello di essere riuscito a portare al centro della narrazione un dilemma etico, piuttosto che uno scontro tra visioni politiche contrapposte o le conseguenze che qualsiasi scelta morale porta con sè, miscelandolo senza soluzioni di continuità con i più incredibili, meravigliosi, colossali scenari cosmici, riuscendo a rendere appassionanti, divertenti e coinvolgenti le più complesse tra le interazioni sociali, creando, romanzo dopo romanzo, una serie di personaggi indimenticabili, da Bora Horza Gobuchol, fino a Djan Seriy Anaplian, passando per tizi del calibro di Jernau Morat Gurgeh o dell'uomo conosciuto come Cheradenine Zakalwe.
Non fossero sufficienti i mirabolanti contenuti dei suoi romanzi, ai pregi di Iain Banks vanno aggiunti una sapiente costruzione delle vicende narrate e una ricchezza stilistica che è riscontrabile in pochissimi altri autori di genere (Gene Wolfe e Ian McDonald sono gli unici che mi vengono in mente). La produzione fantascientifica di Iain M. Banks (che ha all'attivo anche tredici romanzi mainstream, a firma Iain Banks) è stata abbondantemente tradotta in italiano fino alla fine del secolo scorso, mancano purtroppo all'appello i tre romanzi usciti dopo il 2000.






01 marzo 2012

Una Ritmo, tanti anni fa

Questo post è dedicato a Lady Simmons, che mi ha fatto ricordare un viaggio, un secolo fa. 

Io, Paolo e Claudio, in versione selvatica scozzese.
Non ho mai avuto particolare passione per alcun modello di automobile, ma ricordo bene come la Ritmo fosse brutta in maniera specifica e particolare. Era la macchina del mio migliore amico, e noi lo pigliavamo in giro per i coprisedili pelosi e il volante ricoperto. La Ritmo era dei suoi genitori e all'epoca una delle  poche automobili a disposizione nel gruppo dei miei amici modenesi.
Era la seconda metà degli anni '80, io ero a Modena da poco. Non avevo la macchina, per spostarmi usavo autobus, bicicletta (quando i coinquilini non se la facevano fregare) e i passaggi degli amici.
Non ricordo com'è nata l'idea, ma nell'estate dell'89 abbiamo deciso di andare in Scozia. La macchina scelta per l'avventura era, ovviamente, la Ritmo di Claudio (non è che ci fosse poi molta scelta).
Il viaggio è stato fantastico, una di quelle esperienze che poi ti ricordi finché campi. Non vi sto ad annoiare con le tappe specifiche, gli aneddoti, gli scazzi e i ricordi, ma visto che si parla di Ritmo, ecco un piccolo siparietto comico nato da un incontro casuale lungo la strada.



Eravamo sull'isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne, in una stradina fuori dal mondo, persi tra pecore, torbiere e spiagge deserte. La visione di una Ritmo rossa, identica a quella di Claudio (quante probabilità c'erano di incontrare una Fiat dello stesso modello e colore a quelle latitudini?) abbandonata in uno spiazzo nel bel mezzo del nulla ci ha costretti a fermarci, mettere mano a cacciavite e macchina fotografica per immortalare l'evento.
Poi siamo ripartiti, ma se mi capita di pensare a quei tempi, al tempo trascorso con gli amici in giro con quella macchina, beh… è a quella Ritmo rossa abbandonata in Scozia che penso, non a quella pelosa, accogliente e ordinaria del mio amico.

23 febbraio 2012

Non voglio più amici (voglio solo nemici)

Foto di Giorgio Raffaelli
Il blog langue, ma questo non è il solito post riempitivo, giusto per farvi sapere che non sono morto.
In questo periodo non ho molto tempo libero: si lavora, si gioca, si cerca di gestire la famiglia (e i figli in tempesta ormonale pre-adolescenziale non aiutano!) e il blog, appunto, langue.
Ma non credo sia solo questione di poco tempo libero. Ho passato periodi peggiori e qualche post qua e là riuscivo a infilarlo. Stavolta credo invece che sia la voglia di mettersi a scrivere per un pubblico invisibile a essere in forte calo. Lo so, ho sempre detto e ribadito che quel che scrivo ha senso soprattutto per me, che il confronto è sempre benvenuto, ma non è per il riconoscimento esterno che posto i miei contributi in rete.
Mi sono però accorto che uno degli stimoli maggiori che contribuisce a farmi buttar giù qualche nota e pubblicarla è la sensazione che là fuori ci sia una manciata di persone con cui condividere un certo modo di pensare, di veder le cose, che va oltre l'avere in comune gli stessi interessi e/o gli stessi gusti.
Queste persone non sono improvvisamente scomparse, ma nell'ultimo periodo m'è parso di notare, in molti dei luoghi che frequento in rete, una volontà di isolamento e di contrapposizione che va insieme a una ricerca del consenso (ma sempre e solo all'interno della propria tribù), che si è progressivamente sempre più consolidata nel corpo di post e spazio commenti. Questo atteggiamento mi ha fatto sentire in più di un'occasione fuori posto e mi spinge a isolarmi, almeno per quel che riguarda la mia vita on-line.
Non so se è cresciuta la paranoia o se ci siano motivi reali per la discesa di molti blogger e affini in questa condizione da mentalità dell'assedio che sembra caratterizzarne attitudine e scrittura. Dal mio parzialissimo punto di vista non ho notato particolari esacerbazioni del clima esterno, né attacchi personali, né messe al bando generalizzate o altri sintomi che giustifichino questa urgenza di ricompattamento e chiusura che avverto tutto intorno. Sono sicuro che un pizzico di paranoia sia indispensabile e aiuti perfino a vivere meglio, ma quando la paranoia esce dalla sfera privata per diffondersi come un virus nel sistema, beh… preferisco fare un passo indietro e interrogarmi sui motivi e cercare qualche spiegazione.

Chiamatemi ingenuo, ma io sono sembra stato convinto che senza confronto con l'esterno, senza discussione, anche dura e faticosa, non ci sia crescita, e quando ogni possibilità di discutere viene silenziata da una coltre di accomodante bambagia o rifiutata a priori per presunte incompatibilità esistenziali (non saprei come altro definire il marcare il pensiero diverso dal nostro come frutto di pregiudizio, di malafede, di ignoranza o di saccenza), allora è forse il caso di cambiare aria, o almeno di prendersi una pausa.

E no, non mi sto riferendo a nessun episodio particolare, non ce l'ho con nessuno degli amici e conoscenti tra le cui pagine trascorro molto del mio tempo on-line. Ma volevo comunque rimarcare questa sensazione, che negli ultimi tempi il tasso di lamentazioni e paletti fissati a segnare il proprio territorio ha superato il mio personalissimo livello di guardia.
(che poi oh… ditemi voi, se è solo un mio sentire distorto o se condividete questa impressione).

03 febbraio 2012

Il giorno dopo

Foto di Giorgio Raffaelli

A quanto pare la foto di ieri è piaciuta. Quindi faccio il bis.
Questa che vedete qui sopra è stata scattata stamattina, più o meno nello stesso punto di quella di ieri, lungo la strada che percorro andando al lavoro.
Certo, la prospettiva è diversa, ma oh… per una volta che spunta il sole - era da un po' che da 'ste parti non si vedeva - mica stiamo a sottilizzare, no?

Fa freddo, ma non tanto quanto si temeva. Ho già smontato le catene dalla macchina, c'è il sole, domani inizia il sei nazioni.
E oggi si festeggia il compleanno di Annalisa.
Cosa chiedere di più?

02 febbraio 2012

Fuori è bellissimo


Foto di Giorgio Raffaelli

Lo so: la viabilità, il ghiaccio, il freddo (anzi, la morsa del gelo), eccetera eccetera eccetera. Dite pure quello che volete, ma lo spettacolo la fuori è bellissimo.
Stamattina a Marzaglia abbiamo raggiunto i 45 centimetri, e continua a nevicare. Ieri mattina le strade erano intransitabili e ce ne siamo stati a casina. Ho spalato neve per qualche ora, e non è stato niente male (a sera la strada davanti casa era di nuovo ricoperta, ma ok, non l'ho fatto per fare pulizia).
Oggi però sono al lavoro, le strade sono sporche ma lungo il tragitto non c'è stato nemmeno un intoppo.

Sempre ieri, dopo 46 inverni, ho montato il mio primo paio di catene da neve. Due volte.
Abbiamo fatto un giretto nella neve (in macchina, e a piedi) ma soprattutto ci siamo goduti il silenzio, il bianco, la neve.
È bellissimo.

26 gennaio 2012

Shoot Up!

"Chi ha detto che le immagini non possono fare casino? In Shoot Up il frastuono del Rock si fonde tra pittura e fotografia. La bellissima cornice dei sotterranei del Palazzo Ducale di Pavullo nel Frignano, ospiterà una mostra di pittura e di fotografia; performance live acustica e reading di racconti sul tema del rock e del silenzio senza il quale non sarebbe possibile apprezzare il suono."

Questa è la presentazione di Shoot Up, la mostra evento che avrà luogo a Pavullo nel Frignano dal 12 al 25 febbraio prossimi.

La notizia mi interessa particolarmente perché, tra i fotografi e gli altri artisti coinvolti, i ragazzi che organizzano l'esposizione hanno pensato bene di invitarmi a mostrare alcune delle cose che ho fatto negli ultimi anni.
Per cui, ecco, se siete curiosi di vedere un sacco di fotografie e qualche dipinto, accompagnati da sano rock'n'roll, fate un salto a Pavullo.
Io ci sarò domenica 12 febbraio e, rugby permettendo, sabato 25.

Vi lascio con un paio delle mie immagini preferite, almeno tra quelle che prevedo di esporre.


(Uno speciale ringraziamento a Marco e Serena. Loro sanno perché.)

23 gennaio 2012

Fantascienza in arrivo: John Scalzi

Una segnalazione fantascientifica per cominciare bene la settimana.
Esce questa settimana per Gargoyle Books Morire per vivere, traduzione italiana dell'acclamato Old Man's War.

Old Man's War è il romanzo d'esordio di John Scalzi. Uscito nel 2005 negli Stati Uniti, racconta la storia di John Perry, terrestre settantacinquenne arruolato nelle Forze di Difesa Coloniale.
Il romanzo, dicono, deve parecchio alla fantascienza di Robert Heinlein, oltre a ricordare per atmosfere e situazioni il celebre Guerra Eterna di Joe Haldeman.

Io non l'ho ancora letto, ma se vale anche solo la metà  di The Android's Dream - e tutti mi dicono sia migliore! - beh… allora toccherà davvero dargli una possibilità.

Per dare un asssaggio alla versione italiana, Gargoyle Books ha messo a disposizione il pdf del primo capitolo.
Lo trovate qui.

20 gennaio 2012

Letture: A Dance with Dragons (Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, Vol. 5)

Avevo in programma di spendere qualche parola sull'ultimo capitolo de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ma prima avrei voluto parlare di Banks, di Hamilton e di un altro paio di faccende che mi interessano da vicino. La discussione nata in coda a questo post di Strategie evolutive mi ha convinto ad anticipare i tempi: quando mi ricapita l'occasione di sottolineare quel paio di motivi per cui ritengo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco una delle letture più soddisfacenti degli ultimi anni?

Foto di Iguana Jo

Le critiche più comuni che m'è capitato di leggere a proposito delle Cronache riguardavano la prolissità delle descrizioni o la dispersività e l'eccessiva frammentazione del racconto. Essendo circondato da martiniani convinti, non avevo ancora incontrato lettori capaci di avanzare critiche più spietate e/o profonde (e ben argomentate!) alla saga di George RR Martin.
Nello spazio commenti del post citato mi sono invece imbattuto in una critica che colpisce la sostanza stessa della narrazione e che ribalta completamente quelli che per me erano i pregi più notevoli dell'intero progetto: lo sviluppo delle linee narrative e l'evoluzione dei personaggi, con particolare riguardo ai personaggi femminili.

"Martin quando arriva al dunque si impappina e ammazza il personaggio piuttosto che trovare un modo di svilupparne la vicenda. E la prima volta, e la seconda va bene, ma quando te ne ha montati 10, 8 li ha uccisi e 2 li manda in esilio per un paio di migliaia di pagine, e ti comincia un nuovo giro di personaggi tutti nuovi…"

Questo punto di vista mi ha sorpreso perché mai, nel corso della lettura dei cinque volumi della saga, m'era sorto il dubbio che Martin avesse ucciso un personaggio gratuitamente, magari proprio perché non in grado di proseguirne la storia. Penso che per arrivare a formulare una critica così drastica delle Cronache ci debba essere un qualche fraintendimento di fondo.

La caratteristica comune ai personaggi delle Cronache è il loro nascere come stereotipo: non appena lo vede in azione, il lettore identifica immediatamente in che casella narrativa collocare il dato atteggiamento. Un approccio simile è molto efficace per proiettare il lettore all'interno di un mondo che appare da subito piuttosto complesso, ma rischia di annoiare e quindi allontanare il lettore un filo più esperto.
È qui che entra in gioco il talento dell'autore. George RR Martin impone a ogni personaggio il confronto continuo, costante, cruento, con il cliché che rappresenta, portando in superficie le contraddizioni e i limiti che ogni stereotipo incontra non appena sbatte il muso contro la realtà. Per ottenere questo risultato l'autore adotta un tipo di narrazione che obbliga il lettore a immedesimarsi con punti di vista che, seppur contraddittori, risultano coerenti e credibili, a prescindere dall'orientamento morale, dalle conoscenze o dagli obiettivi dei singoli personaggi, mantenendolo in costante tensione tra due livelli: quello soggettivo, parziale, articolato nella sequenza dei diversi capitoli, ognuno a rappresentare la particolare esperienza di un personaggio, e quello più ampio, con qualche parvenza di oggettività, percepibile solo esternamente alla narrazione, in cui si incrociano relazioni / informazioni / emozioni / divergenze tra punti di vista diversi.
Il dramma di ogni singolo personaggio martiniano nasce da una medesima biforcazione di significati: dal confronto col proprio ruolo, dalla necessità di superarlo, dall'impossibilità di farlo oltre un certo grado per i limiti che la realtà fittizia della narrativa di genere impone alla sua personalità. Quando un personaggio oltrepassa un certo grado di verosimiglianza, va incontro necessariamente a una qualche evoluzione. Che questa trasformazione significhi spesso morte o esilio è inevitabile, specie quando ogni altro esito suonerebbe falso, incoerente, consolatorio.



"Non so cosa gli abbiano fatto, le donne, a Martin, ma non solo non sa scriverne, ma quando lo fa non fa che inondare quello che chiaramente percepisce come sesso debole di veleno e…"

Non sarò un gran lettore di fantasy, e forse è per questo motivo che la saga di Martin mi ha colpito tanto, ma se c'era un elemento che ho apprezzato, tra i tanti che elevano le Cronache ben al di sopra del livello medio dell'intrattenimento letterario, è proprio la caratterizzazione dei personaggi femminili.
Tutte le donne di Martin, che siano giovani o mature, buone o cattive, decise o incerte, hanno una personalità autonoma e riconoscibile. Pur con la loro varietà di caratteri, nessun personaggio femminile delle Cronache vive in funzione dei maschi che la circondano (e se lo fa, il lettore non ha dubbi su come giudicarle, Sansa docet), né vive in funzione della componente sessuale della propria esistenza (importante, certo, ma non più di quella degli uomini con cui spartisce la scena), e neppure si trasforma nel tipico maschiaccio, a imitazione dei figuri con cui solitamente ha a che fare (anche in questo caso, se vi è costretta dagli avvenimenti, non ne gode mai, in nessun momento, né il ruolo, né gli eventuali privilegi ad esso legati, vedi Brienne). Le donne di Martin mostrano in tutta le possibili declinazioni, come i rapporti sociali, politici, sessuali siano costantemente virati al maschile, e quali sforzi e strategie debbano adottare per essere riconosciute e diventare soggetti attivi nelle relazioni e negli accadimenti che le circondano. E non importa che facciano la cosa giusta o quella sbagliata, che tramino nell'ombra o agiscano per interposta persona, che utilizzino il sesso, le convenzioni o i pregiudizi sociali a loro vantaggio, che usino e/o abusino del tanto o poco potere in loro possesso. Quel che importa è che le donne di Martin sono persone, prima di essere femmine.



Sottolineati questi aspetti che riguardano l'insieme delle Cronache mi rimane da spendere qualche riga sull'ultimo romanzo. Dopo l'interludio di A Feast for Crows, A Dance with Dragons riporta finalmente l'attenzione del lettore sui personaggi più importanti della saga. Lo scenario si allarga ancora, ci sono  sorprese e rivelazioni, nuovi personaggi e vecchie conoscenze che ritornano, c'è tutto il freddo del nord condito all'atmosfere calde delle Città libere, ci sono draghi e lupi e sangue, c'è il passato e qualche sprazzo di futuro.
In questo romanzo si avverte netta la sensazione di una storia aperta, della vastità di un mondo in cui le gesta dei singoli hanno invero poca importanza, in cui a precisa decisione segue sempre l'inevitabile conseguenza. Con la certezza che quello creato da Martin sia un universo dove nessuna azione resterà impunita.
L'inverno ormai è arrivato.

11 gennaio 2012

Letture: Non vogliamo male a nessuno / Una passeggiata nei boschi / Toxic

Nel post precedente si parlava di letture, di come mi fosse dispiaciuto non aver saputo buttar giù a tempo debito dei post adeguati a ricordare i libri letti nel corso dell'anno.
È tempo di rimediare. O almeno di fare un tentativo.

Foto di Iguana Jo


Non vogliamo male a nessunoa cura di Dave Eggers
Nel 2004 Minimum fax aveva già pubblicato una raccolta del meglio dei racconti usciti su McSweeney's, la creatura letteraria di Dave Eggers. Quell'antologia non era particolarmente memorabile, ed è passata pressoché dimenticata nella mia coda di lettura (certo, c'era Vollmann che non era affatto male, ma nel complesso era troppo programmaticamente provocatoria per essere anche bella). Questo secondo volume risulta invece decisamente più articolato, piacevole e interessante.

I racconti contenuto in Non vogliamo male a nessuno si possono dividere in due tipi (facciamo tre, dai): quelli che raccontano il malessere di qualche trentenne americano più o meno in carriera e quelli che tirano troppo la corda dell'improbabilità stilistica. E poi ci sono tutti gli altri. I racconti che rientrano nelle prime due categorie - per fortuna sono pochi - sono per lo più dimenticabili, concentrati come sono nell'ispezione accurata dell'ombelico dei rispettivi autori. Negli altri ci sono invece storie sorprendenti, curiose, importanti.
Tra tutti segnalo Appunti da un bunker lungo la Highway 8, di Gabe Hudson, un racconto in diretta dalla prima guerra del golfo; Una corda a tre capi, di Nathaniel Minton, una storia di disavventure familiari nel deserto, con trigonometria; Santa Chola , di Kerrie Kvashay-Boyle che narra come meglio non si potrebbe del crescere diversi, in Occidente.
La scelta di un racconto migliore è davvero difficile, vista la qualità letteraria dell'antologia che nel complesso s'è rivelata un'ottima lettura.



Una passeggiata nei boschi, di Bill Bryson
Tra le cose che prima o poi mi piacerebbe riuscire a fare, c'è quest'idea di partire a piedi e provare ad attraversare le Alpi (o i Pirenei, o anche solo un bel pezzo di Appennino), con lo zaino, perdendomi per almeno una settimana tra boschi, sentieri e montagne. Ma questo è solo uno dei motivi che mi ha spinto a prendere in mano il libro di Bill Bryson. L'altro è stato un post di qualche tempo fa che ha stimolato la mia curiosità e mi ha dato la spinta a leggere un altro libro di viaggi dopo l'esperienza non troppo positiva avuta con Bruce Chatwin.

Una passeggiata nei boschi racconta il tentativo di Bill Bryson di percorrere, zaino in spalla, un tratto dell'Appalachian Trail, la pista che si sviluppa per migliaia di chilometri attraverso le montagne degli Stati Uniti orientali. Bill Bryson non è un montanaro, non è nemmeno un escursionista esperto, e in questa avventura si fa accompagnare da un amico che è l'opposto di quella che, nell'immaginario comune, parrebbe essere la persona adatta a un'impresa simile. Ma Una passeggiata nei boschi è tutt'altro che un allegro libro di disavventure nei boschi. Dopotutto Bill Bryson è un professionista, sa come si racconta un viaggio ed è capace di gestire molto bene quel mix di informazione e opinioni personali che sono il cuore di un libro simile.

A parte il tono brillante e scanzonato dell'autore, la cosa migliore che mi ha lasciato la lettura di Una passeggiata nei boschi, è stata la riscoperta di un aspetto degli Stati Uniti che tendo troppo spesso a dare per scontato: l'America è ancora un posto selvaggio, un luogo in cui ci si può perdere nella foresta, uno spazio per certi versi ancora vergine, dove si può essere ancora convinti di essere il primo essere umano a calpestare quel particolare pezzo di pianeta. Non è un dato da poco, soprattutto se visto da qui, vecchia Europa. Anche solo per questo motivo val la pena di ricordare il libro, che quella sensazione di rapporto caratteristico, insieme timoroso e arrogante, incosciente e fiducioso, nei confronti di una natura maestosa e indifferente, è forse la cosa che più ci separa dai cugini americani.


Toxic, di Hallgrimur Helgason
Era un po' che giravo intorno a questo volume. La grafica dei volumi ISBN è accattivante, la presentazione sembrava essere fatta apposta - pure troppo - per immaginare un contenuto pulp sofisticato, divertente ma non stupido, con in più la possibilità di dare un'occhiata da una prospettiva personale a una realtà aliena e periferica come quella islandese.

Viste le premesse Toxic funziona. Ma funziona solo a patto di non crederci: rimanendo in superficie il romanzo è divertente (a tratti molto divertente), ma non appena ci si spinge un po' più in là delle gesta goffe e terribili del protagonista c'è il rischio di precipitare nel vuoto che si crea tra costruzione narrativa e realtà fattuale, tra racconto e percezione, e scorgere quindi la furbizia dell'autore (o l'abilità, dipende dai punti di vista), che infila tutte le emozioni al posto giusto, tutto lo sdegno al posto giusto, tutta l'ironia al posto giusto. In un modo che sì, effettivamente, più islandese di così è difficile pensarlo.

29 dicembre 2011

Auguri. rimpianti (seee…) e letture

Down on Earth (growing tiny peaceful thoughts) by Iguana Jo

Bene! Ora che il Natale è passato posso finalmente farvi gli auguri che il periodo richiede.
(Io non faccio gli auguri di Natale. Lo so, è un atteggiamento puerile, ma lasciatemi almeno questo piccolo gesto. Non che poi mi chiuda in una caverna per uscire col nuovo anno: mi piace la tradizione dello scambio dei regali, come mi piace che ci sia un'occasione per incontrare il resto della famiglia, che quando li vedi, altrimenti? È tutto il contorno catto-comsumista (grazie Marco per l'imbeccata!) che non reggo proprio.)
Non sentirò particolarmente vicino il Natale, ma gli auguri per un nuovo anno sono invece un rito a cui non mi sottraggo e che anzi, mi sta molto più a cuore.

Quindi, per finire in bellezza questo 2011, iniziamo questo post con l'augurio, per me, per voi, per tutti, che l'anno nuovo sia felice, prospero e godurioso come nessun altro prima.



Fine anno è tempo di bilancio, che per me si riassume poi in un'unica considerazione: sono soddisfatto di me, della mia vita? Sono almeno un po' felice per come sono andate le cose a me e a chi mi è vicino? Se la risposta è positiva, allora c'è poco altro da valutare.
Tutto considerato, se il maggior rimpianto per il mio 2011 è stato veder fallire il proposito di commentare volume per volume tutte le letture dell'anno, posso ben dire che questi dodici mesi non sono stati affatto male, no?

In effetti, questa cosa delle note post-lettura mancanti mi brucia un po'. Sono ormai parecchi anni che arrivo alla fine di dicembre con tutte le mie letture regolarmente annotate a futura memoria. Questa volta non ci sono riuscito, e l'elenco che segue vale un po' come nota di demerito, un po' come appunto per il futuro, che spero di riuscire a spendere qualche parola (in qualche caso ben più di qualche parola) sui libri letti negli ultimi mesi.
Ecco dunque i titoli. Se poi ne avete voglia se ne può parlare: Non vogliamo male a nessuno, a cura di Dave Eggers; Il tempo del vuoto, di Peter Hamilton; Matter, di Iain M. Banks; Una passeggiata nei boschi, di Bill Bryson; Toxic, di Hallgrimur Helgason; Il canone occidentale, di Harold Bloom; Dula di Marte, di Joe Haldeman; Nove gradi di libertà, di David Mitchell; A Dance with Dragons, di George R.R. Martin; Anathem, di Neal Stephenson; Alia Anglosfera, a cura di Davide Mana; Robot 61; Magic for Beginners, di Kelly Link; Il ritorno delle furie, di Richard K. Morgan; IASFM 7.



Arrivati a questo punto rimane solo da stilare la consueta classifica delle migliori letture del 2011. Dando un'occhiata ai libri letti negli ultimi 12 mesi, noto che mai come quest'anno la fantascienza l'ha fatta da padrona. Lo so, sembra quasi paradossale evidenziare questo dato, che da queste parti la letteratura di genere ha sempre goduto di particolare attenzione, ma negli ultimi anni le mie letture si dividevano tra genere e mainstream in maniera piuttosto equilibrata. Quest'anno no. Forse per la qualità dei volumi letti, forse per i nomi degli autori che si sono accumulati sugli scaffali in attesa di lettura, forse per gli stimoli ricevuti dall'esterno, ma la fantascienza ha dominato i miei spazi letterari, sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello qualitativo, tanto che tra i volumi da ricordare per il 2011 solo uno non appartiene al genere.
Ma bando agli indugi, ecco la lista:

The Dervish House, di Ian McDonald
Magic Kingdom, di Stanley Elkin
A Dance with Dragons, di George R.R. Martin
Matter, di Iain M. Banks
Anathem, di Neal Stephenson  
Angeli spezzati, di Richard K. Morgan
The Android's Dream, di John Scalzi
Gomorra e dintorni, di Thomas Disch

Menzione speciale fuori classifica per Mentre morivo, di William Faulkner e Female Man, di Joanna Russ. La qualità e l'importanza di questi due volumi vanno oltre il mero piacere che la loro lettura mi ha regalato. Nel corso dell'anno ci sono stati libri più appassionanti, più stimolanti, più emozionanti di quelli di Faulkner e Russ, però nessuno si è ancora ritagliato l'importanza che questi due titoli hanno nei relativi settori di influenza. E questo è già un motivo più che valido per ricordarli.

Volete sapere anche quali film voglio ricordare per questo 2011? Tra i pochi, pochissimi, che ho avuto la fortuna di vedere, quelli memorabili sono Tree of Life e Un gelido inverno, Source Code e Il Grinta. Magari sono un po' pochini, ma di quell'altra manciata di film visti non me ne vengono in mente altri da segnalare ai posteri.

Bene, direi che è tutto. Finite bene questo 2011 e iniziate al meglio il 2012. Fate a modo e divertitevi. Ci si sente presto!



(Per i curiosi, queste erano le classifiche degli anni scorsi: 2010, 2009, 2008, 2007, 2006, 2005, 2004, 2003.)



(Questo post è dedicato a Massimo, lì sopra, in ricordo del bel tempo passato insieme.)

21 dicembre 2011

Sette link

A photo by Iguana Jo
Sono passate un paio di settimane da quando il giochino ha impazzato nei blog del vicinato. In quei giorni non ho avuto proprio modo di partecipare, ma ora, visto anche il periodo festivo che si avvicina, con conseguente scarsa propensione per approfondimenti e conseguenti discussioni, mi pare un buon momento per un post autoreferenziale come questo. L'elenco che segue è poi un buon modo per dare un'occhiata retrospettiva al percorso del blog, al mio percorso, di questi ultimi anni. Ringrazio quindi Nick e Angelo che mi hanno tirato in ballo. Questi sono i link che ho scelto, e visto che in molti casi non riuscivo a decidermi, ho deciso per una doppia menzione. La prima si riferisce ai post dell'anno che sta per concludersi, la seconda a tutto lo s5torico del blog.

Il post il cui successo mi ha stupito.
Io mi stupisco facilmente, nel senso che già avere qualche commento in calce ai miei post per me è un buon successo. Ma ci son post e post ed è vero che in qualche caso anche poche visite sono una buona soddisfazione. Nel 2011 il post il cui successo mi ha stupito è stato  quello dedicato a Tschai. È curioso, e in qualche modo sintomatico della fase che la fantascienza sta vivendo da 'set parti, che una delle discussioni più partecipate del blog riguardi una serie di romanzi usciti più di 40 anni fa.
Per quanto riguarda la menzione del post il cui successo mi ha stupito in tutta la storia del blog, beh… sicuramente quello dedicato a Non è un paese per vecchi, che per qualche mistero della rete è costantemente visitato nonostante risalga a quasi quattro anni fa.

Il post più popolare.
Il post più popolare dell'anno è stato senza dubbio quello dedicato all'orrore, ma era facile, collegato com'era a un peso massimo della blogosfera come Malpertuis. Ma il Il post più popolare in assoluto, almeno considerando quelli con il maggior numero di visite/commenti, rimane la lista dei migliori romanzi di fantascienza degli ultimi 20 anni.

Il post più controverso.
Questo è facile. Sicuramente la serie di post dedicati a Urania e la fantascienza. La discussione è partita da qui per poi proseguire, proseguire, proseguire…
Quest'anno non mi pare di aver prodotto post particolarmente controversi. Forse l'unico è questo.

Il post più utile.
Credo che il post più utile dell'anno sia stato Scintille e incomprensioni. Certo, l'utilità pubblica del post è discutibile, ma quelle note mi sono state molto utili, perché mi hanno permesso di chiarirmi le idee e di ragionare in maniera stimolante sul mio approccio alla lettura.
Il post più utile in assoluto credo rimanga quello in cui parlo della mia città natale. Magari è un po' invecchiato, ma credo che Bolzano/Bozen: apartheid provinciale rimanga un buon post per chi conosca la realtà altoatesina solo per sentito dire.

Il post che non ha ricevuto l’attenzione che meritava.
Non saprei, che se un post non ha ricevuto l'attenzione che meritava forse è stato giusto così. Se devo citarne un paio, uno per il 2011, l'altro per tutta la storia del blog, forse sono Tree of Life, che raccoglie qualche nota sul film di Malick e Vibrazioni diverse, dedicato all'esplorazione fotografica dell'abbandono.

Il post più bello.
Ogni scarrafone è bello a mamma sua. Detto questo io sono particolarmente affezionato al post che a suo tempo dedicai a  La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem e, per quest'anno, a quello in cui parlo di Un gelido inverno.

Il post di cui vado più fiero.
Credo di essere molto fiero de L'espertitudine mi uccide, un post dedicato al mio approccio alla critica letteraria.
Quest'anno la produzione di post di qualità è andata in calando, però sono abbastanza contento delle parole spese riguardo a quello che manca nella fantascienza in Italia e della discussione che ne è seguita.


Arrivati alla fine del giochino, dovrei elencare i sette malcapitati che dovrebbero proseguirlo. Ma credo di essere (fortunatamente!) fuori tempo massimo per quanto riguarda la sopravvivenza del meme in rete, e poi son sempre stato molto critico rispetto a 'ste catene di blog. Per stavolta dovrete accontentarvi del mio elenco, che tanto i blog che frequento li conoscete tutti, no?

19 dicembre 2011

Letture: The Dervish House, di Ian McDonald

© Hakki Ucar
Riprendiamo le trasmissioni con qualche nota su uno dei romanzi migliori mi siano capitati in mano negli ultimi mesi: The Dervish House, di Ian McDonald.

Tra gli scrittori di fantascienza che preferisco, Ian McDonald è quello a cui sono più affezionato. Sarà per la vicinanza che ho sempre avvertito con i temi portanti delle sue storie e il suo particolare approccio alla narrazione fantascientifica, ma nei romanzi e nei racconti dell'autore nord-irlandese mi sembra di ritrovare sapori e atmosfere che riescono a parlarmi come nessun altro, dentro o fuori il genere.

La fantascienza di Ian McDonald è straordinaria per la capacità di coniugare una scrittura brillante, che è al contempo complessa per ricchezza espressiva e tonale ed estremamente comunicativa per ritmo, leggerezza e profondità, a scenari, personaggi e trame unici per tridimensionalità e senso del meraviglioso.
The Dervish House non fa eccezione, m'è parso anzi, tra i suoi romanzi recenti, quello dove Ian McDonald si prende i rischi maggiori e ottieni i migliori risultati, sia nella creazione dei personaggi che, soprattutto, nell'immersione totale in una realtà complicata e aliena come quella rappresentata dalla città di Istanbul, mai come in questo caso crocevia di storie e Storia.
Nella Istanbul di McDonald si incrociano nanotecnologie e attentatori suicidi, Islam e modernità, economia e leggende medievali, start-up di belle speranze e psicogeografia urbana, football e rivoluzione. Tutti elementi potenzialmente in grado di far esplodere o deragliare qualsiasi trama, di schiacciare personaggi e situazioni sotto il peso di infodump e retorica.
Ma McDonald è un maestro nel gestire situazioni complesse, nel far confluire gli elementi più disparati in una trama coerente, nell'esaltare la personalità di protagonisti e comprimari mettendola a confronto con la complessità del reale.
Siamo intorno al 2030. Gli sviluppi più fantascientificamente creativi dell'uso della nanotecnologia fanno da sfondo alle vicende di sei personaggi la cui esistenza ruota. per i motivi più diversi, intorno alla vecchia casa dei Dervisci, nell'attesa dei quarti di Champions League tra Galatasaray e Arsenal, in una progressione narrativa che nell'arco di cinque giorni avvicinerà progressivamente tutti i personaggi al climax finale: c'è il mistero di un'improvvisa rivelazione religiosa; un piano per sovvertire il mercato dell'energia; un vecchio greco che fa i conti col proprio passato e un ragazzino che regola quelli con i limiti fisici del suo stato; c'è una mercante d'arte che esplora i confini dei sogni che circondano la città mentre una giovane provinciale mette alla prova le proprie ambizioni con la grande città e una famiglia piuttosto ingombrante.
E poi, naturalmente, c'è Istanbul.
Non sono mai stato nella città turca, fino a qualche anno fa il mio riferimento più forte a quella realtà era, purtroppo per lei, Fuga di mezzanotte. Poi ho conosciuto la vecchia gloriosa Istanbul del passato grazie a Orhan Pamuk, quella derelitta delle perfierie di Latife Tekin, ma è curioso che ci sia voluto un autore di Belfast per farmela sentire così vicina. Ian McDonald non è nuovo a certi exploit, basti ricordare la Varanasi di River of Gods, o il Brasile pulsante del suo penultimo romanzo. E per quanto mi rimanga il dubbio della reazione che le sue pagine possano provocare in un cittadino di quelle realtà, è altrettanto certo che nessun altro autore di fantascienza sia mai riuscito a rendere con tale forza, entusiasmo e vitalità la sostanza stessa di cui son fatte questi luoghi, così lontani, così vicini.

© Erdem Erciyas
Se sul talento espressivo di Ian McDonald siamo (spero!) tutti concordi, vale forse la pena spendere qualche parola su quelle che sono le caratteristiche specifiche che rendono unica la sua fantascienza.
A me non vengono in mente altri nomi, almeno non all'interno dei confini del genere, capaci di tanta consapevolezza storica nello sviluppo di scenari e trame quanto Ian McDonald ha dimostrato di possedere nel corso di tutta la sua carriera. Partendo da Desolation Road, passando per King of Morning, Queen of Day fino a The Dervish House, la Storia è sempre presenza viva nel corpo della narrazione.
Nella fantascienza di Ian McDonald l'esistenza di un passato storico, per quanto implicita e sotterranea, è fondamentale per infondere profondità alle vicende narrate. La Storia influisce con il suo peso su società e individui. La sua ingombrante presenza è un elemento imprescindibile nell'evoluzione di una comunità. L'inerzia dei conflitti passati che si riverbera costantemente nel presente, riecheggiando nella memoria e nelle trasformazioni del futuro immaginato dall'autore, è un elemento costante delle storie di Ian McDonald.

Conseguenza coerente di tale approccio (che va sottolineato, non è mai didascalico o esplicito, quanto piuttosto interiorizzato e quindi invisibile) è la costruzione dei personaggi che si muovono all'interno dei suoi romanzi.  
Leggendo parecchia fantascienza si è quasi obbligati ad avere a che fare con personaggi che spiccano per la loro eccezionalità rispetto al contesto che li circonda. L'eroe o l'eroina, anche nelle versioni che più si distaccano dalla tradizione popolare del termine, sono la regola nella narrazione di genere. I personaggi di McDonald sono una felice eccezione. Non sono mai il meglio (o il peggio)  di un dato gruppo / comunità, sono semmai rappresentativi di certa modalità di relazione, di una certa espressione culturale.
Sebbene sempre funzionali alla storia narrata dal loro creatore, i personaggi dei romanzi di McDonald spiccano per l'apparente libertà di movimento che posseggono, per l'autonomia che godono rispetto al contesto, per la credibilità del loro rapportarsi con l'ambiente circostante. E soprattutto per la loro perenne ricerca di una qualche forma di controllo sulla propria esistenza, che nel racconto è sempre sull'orlo di una crisi che ben poco ha a che fare con le scelte individuali, ma che è piuttosto in balia della fortuna e della Storia, nel tentativo di non rimanere stritolati dai meccanismi in cui volenti o nolenti sono intrappolati (e anche qui niente di trascendentale: gli ingranaggi contro cui i personaggi lottano possono essere la famiglia piuttosto che la tradizione, il disagio sociale piuttosto che l'ambizione politica).

Per l'attenzione che dedica alle complessità dei rapporti sociali, la fantascienza di Ian McDonald mi pare facilmente accostabile a quanto di meglio proviene dalle isole britanniche. Penso a Iain Banks, a Charlie Stross, a Jon Courtenay Grimwood, a Richard K. Morgan, a China Miéville, autori con cui condivide un certo interesse per etica e politica e un approccio narrativo leggero per tematiche che non rifuggono profondità di pensiero, mantenendo sempre alto il tasso di meraviglia.
A distinguere l'autore di Belfast ci sono la qualità della scrittura (solo Banks tra i nomi citati è altrettanto ricco), la scelta di non allontanarsi mai troppo dal contesto attuale, la subordinazione del cambiamento tecnologico/scientifico a quello umano/sociale, l'attenzione a realtà e situazioni inconsuete trattate con un rispetto e una profondità sempre più sorprendente, la visione di una Storia ancora viva e vitale (la scelta di ambientare i romanzi in India, Brasile, Turchia - ma anche nell'Africa di Chaga - non è solo estetica ma profondamente politica).

Ian McDonald non ha goduto di particolare fortuna in Italia. Della sua produzione lunga sono stati editi tre soli romanzi, mentre alcuni racconti son presenza fissa delle raccolte del meglio dell'anno pubblicate da Urania, oltre ad essere comparsi qua e là in varie antologie. Negli ultimi tempi Delos ha pubblicato il racconto lungo Il circo dei gatti di Vishnu nella collana Odissea e un racconto su Robot (entrambi estratti da Cyberabad Days, antologia di racconti ambientati nell'India futura di River of Gods).
Non ho molte speranze che questa situazione editoriale possa cambiare a breve, ma spero vivamente di essere smentito dai fatti. Nel frattempo vi segnalo che tutti i suoi romanzi sono disponibili in lingua originale.

25 novembre 2011

In movimento

A photo by Iguana Jo on Flickr.

Il blog è ancora fermo, ma fuori le cose continuano a muoversi. Sabato per esempio sarà una giornata piuttosto impegnativa: in mattinata ci incontriamo con una coppia di sposi per decidere quali foto andranno nel loro album, nel pomeriggio l'ormai tradizionale derby con il Bologna per l'ultima partita di rugby dell'anno e poi via, veloce veloce, che alle 17 ci si incontra, a Piacenza, per ricordare Vittorio Curtoni.

Non credo di arrivare puntuale all'appuntamente piacentino, ma visto che l'incontro si protrarrà per tutta la serata ci sarà tutto il tempo per rivedere qualche vecchio amico, per discuter chiacchierare di varia fantascienza e, soprattutto, per gozzovigliare in allegra compagnia come si era soliti fare con il Vic.

Se passate da quelle parti ci si vede a Piacenza, altrimenti rimanere sintonizzati, prima o poi (spero prima!) il blog tornerà a pieno regime.

04 novembre 2011

Storia e storie

Nell'attesa di trovare un po' di tempo libero per organizzare qualche post come si deve, ecco un brano di Neal Stepehenson che trovo stimolante per più di un motivo.
Buona lettura:

"[…] Migliaia di anni prima il lavoro era stato parcellizzato in compiti sempre uguali, in organizzazioni in cui le persone erano parti intercambiabili. Doveva essere così: era la base di un'economia produttiva. Ma era facile individuare una volontà all'opera dietro tutto questo: non esattamente una volontà maligna, ma di certo egoista. Chi aveva creato il sistema era geloso, non dei soldi e non del potere, ma delle storie. Se i dipendenti rientravano a casa alla fine della giornata con storie interessanti da raccontare, significava che qualcosa non aveva funzionato: un blackout, uno sciopero, una strage. Le Autorità Costituite non tolleravano che altri comparissero in storie personali, a meno che non si trattasse di storie false inventate per motivarli. Chi non riusciva a vivere senza storie era finito nei concenti o faceva lavori come quello di Yul. Tutti gli altri dovevano cercare qualcosa al di fuori del lavoro per sentirsi parte di una storia, e immaginai che fosse quello il motivo per cui i secolari erano così assorbiti dallo sport e dalla religione. Altrimenti come avrebbero potuto sentirsi parte di un'avventura? Qualcosa con un inizio, uno svolgimento e una fine, in cui giocare un ruolo importante? Noi avout avevamo l'avventura già pronta per noi, perché nei concenti si fa parte del progetto di imparare cose nuove. […]"
(Neal Stepehenson, Anathem - Il Pellegrino, pag. 437)

26 ottobre 2011

Letture. Fantascienza che fu: Gomorra e dintorni, di Thomas Disch.

Villa a Carpi 06/20 by Iguana Jo
a photo by Iguana Jo on Flickr.
Benvenuti nel lato oscuro. Non provate nemmeno a mettervi comodi. Coltivate disillusione e rinunciate a ogni speranza di salvezza.
Qui si va nel mondo degli uomini, per umiliarli distruggerli e sterminarli, in totale indifferenza e abbandono.

A metà degli anni '60 del secolo scorso la fantascienza a stelle e strisce era ancora tesa all'esaltazione delle magnifiche sorti e progressive del secolo americano. Anche quando affrontava temi oscuri e apocalittici - la bomba, soprattutto - non rinunciava mai a inserire qualche labile speranza o a salvare almeno pochi, ma meritevoli, rappresentanti della razza umana.
C'era qualche eccezione, ma nessuna con l'amara cinica potenza di un Thomas Disch.

Gomorra e dintorni (The Genocides in originale), romanzo d'esordio di Thomas Disch edito negli Stati Uniti nel 1965, è l'anello di congiunzione tra la fantascienza apocalittica britannica a quella pragmatica e meravigliosa di stampo americano.
Gomorra e dintorni racconta dall'interno il disfacimento di una comunità fondata sui valori tradizionali di famiglia, religione, lavoro, che cercando di mantenere intatte le apparenze di una civiltà evoluta, discende progressivamente tutti i gradini dell'evoluzione umana fino a trovarsi ridotta a parassita in un mondo da cui è stata espropriata. Thomas Disch trasferisce in un contesto statunitense la visione dei maestri inglesi (penso a Ballard, soprattutto), spogliandola di ogni connotazione alta (non c'è alcun spazio interno a cui far riferimento, non ci sono memorie psichiche o sperimentazioni artistiche, intorno/dentro ai personaggi di Gomorra e dintorni non c'è proprio nulla, tranne l'anelito tutto americano alla speranza e al progresso) per poi distruggere metodicamente ogni illusione di salvezza il lettore possa nutrire.
Per ottenere questo risultato ricalca nella costruzione della storia quelli che erano i canoni dell'avventura fantascientifica dell'epoca, scardinando via via tutte le convenzioni del genere: la comunità rurale, classica culla del sogno americano che si rivela essere un covo di ipocrisie; la famiglia, in cui si ripropongono esacerbati tutti i meccanismi di competizione sociale esterni; l'uomo tecnologico cittadino, portatore di progresso, che si fa guidare dai più bassi istinti; gli alieni, che da nemico da combattere si trasformano in indifferenti motori di distruzione; il panorama naturale, sfondo magnifico e avventuroso, che diventa prima piatta uniformità, aggressiva e inesorabile, per poi evolvere in grembo e prigione, umiliante e definitiva.
La scrittura di Disch sottende una rabbia assoluta nei confronti del consesso civile, appena modulata da un'ironia nerissima e da una comprensione delle dinamiche di relazione tra esseri umani che non  permette all'autore di distogliere lo sguardo e che lo obbliga ad annotare spassionatamente come anche gli aspetti migliori dell'umanità vengano corrotti dalle consuetudini sociali e piegati alle priorità gerarchiche imposte dal Potere, per quanto misero e derelitto questo Potere si riduca ad essere.

La fantascienza di Thomas Disch è quanto di più nichilista possa capitare di incontrare, ma per quanto caratterizzata da una scrittura senza speranza, non è mai rassegnata, né morbosa o patetica. La fantascienza di Thomas Disch è un punto esclamativo che ti esplode in faccia mentre guardi l'ennesima replica di Star Trek. Sta a te decidere cosa farne.