26 gennaio 2012

Shoot Up!

"Chi ha detto che le immagini non possono fare casino? In Shoot Up il frastuono del Rock si fonde tra pittura e fotografia. La bellissima cornice dei sotterranei del Palazzo Ducale di Pavullo nel Frignano, ospiterà una mostra di pittura e di fotografia; performance live acustica e reading di racconti sul tema del rock e del silenzio senza il quale non sarebbe possibile apprezzare il suono."

Questa è la presentazione di Shoot Up, la mostra evento che avrà luogo a Pavullo nel Frignano dal 12 al 25 febbraio prossimi.

La notizia mi interessa particolarmente perché, tra i fotografi e gli altri artisti coinvolti, i ragazzi che organizzano l'esposizione hanno pensato bene di invitarmi a mostrare alcune delle cose che ho fatto negli ultimi anni.
Per cui, ecco, se siete curiosi di vedere un sacco di fotografie e qualche dipinto, accompagnati da sano rock'n'roll, fate un salto a Pavullo.
Io ci sarò domenica 12 febbraio e, rugby permettendo, sabato 25.

Vi lascio con un paio delle mie immagini preferite, almeno tra quelle che prevedo di esporre.


(Uno speciale ringraziamento a Marco e Serena. Loro sanno perché.)

23 gennaio 2012

Fantascienza in arrivo: John Scalzi

Una segnalazione fantascientifica per cominciare bene la settimana.
Esce questa settimana per Gargoyle Books Morire per vivere, traduzione italiana dell'acclamato Old Man's War.

Old Man's War è il romanzo d'esordio di John Scalzi. Uscito nel 2005 negli Stati Uniti, racconta la storia di John Perry, terrestre settantacinquenne arruolato nelle Forze di Difesa Coloniale.
Il romanzo, dicono, deve parecchio alla fantascienza di Robert Heinlein, oltre a ricordare per atmosfere e situazioni il celebre Guerra Eterna di Joe Haldeman.

Io non l'ho ancora letto, ma se vale anche solo la metà  di The Android's Dream - e tutti mi dicono sia migliore! - beh… allora toccherà davvero dargli una possibilità.

Per dare un asssaggio alla versione italiana, Gargoyle Books ha messo a disposizione il pdf del primo capitolo.
Lo trovate qui.

20 gennaio 2012

Letture: A Dance with Dragons (Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, Vol. 5)

Avevo in programma di spendere qualche parola sull'ultimo capitolo de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ma prima avrei voluto parlare di Banks, di Hamilton e di un altro paio di faccende che mi interessano da vicino. La discussione nata in coda a questo post di Strategie evolutive mi ha convinto ad anticipare i tempi: quando mi ricapita l'occasione di sottolineare quel paio di motivi per cui ritengo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco una delle letture più soddisfacenti degli ultimi anni?

Foto di Iguana Jo

Le critiche più comuni che m'è capitato di leggere a proposito delle Cronache riguardavano la prolissità delle descrizioni o la dispersività e l'eccessiva frammentazione del racconto. Essendo circondato da martiniani convinti, non avevo ancora incontrato lettori capaci di avanzare critiche più spietate e/o profonde (e ben argomentate!) alla saga di George RR Martin.
Nello spazio commenti del post citato mi sono invece imbattuto in una critica che colpisce la sostanza stessa della narrazione e che ribalta completamente quelli che per me erano i pregi più notevoli dell'intero progetto: lo sviluppo delle linee narrative e l'evoluzione dei personaggi, con particolare riguardo ai personaggi femminili.

"Martin quando arriva al dunque si impappina e ammazza il personaggio piuttosto che trovare un modo di svilupparne la vicenda. E la prima volta, e la seconda va bene, ma quando te ne ha montati 10, 8 li ha uccisi e 2 li manda in esilio per un paio di migliaia di pagine, e ti comincia un nuovo giro di personaggi tutti nuovi…"

Questo punto di vista mi ha sorpreso perché mai, nel corso della lettura dei cinque volumi della saga, m'era sorto il dubbio che Martin avesse ucciso un personaggio gratuitamente, magari proprio perché non in grado di proseguirne la storia. Penso che per arrivare a formulare una critica così drastica delle Cronache ci debba essere un qualche fraintendimento di fondo.

La caratteristica comune ai personaggi delle Cronache è il loro nascere come stereotipo: non appena lo vede in azione, il lettore identifica immediatamente in che casella narrativa collocare il dato atteggiamento. Un approccio simile è molto efficace per proiettare il lettore all'interno di un mondo che appare da subito piuttosto complesso, ma rischia di annoiare e quindi allontanare il lettore un filo più esperto.
È qui che entra in gioco il talento dell'autore. George RR Martin impone a ogni personaggio il confronto continuo, costante, cruento, con il cliché che rappresenta, portando in superficie le contraddizioni e i limiti che ogni stereotipo incontra non appena sbatte il muso contro la realtà. Per ottenere questo risultato l'autore adotta un tipo di narrazione che obbliga il lettore a immedesimarsi con punti di vista che, seppur contraddittori, risultano coerenti e credibili, a prescindere dall'orientamento morale, dalle conoscenze o dagli obiettivi dei singoli personaggi, mantenendolo in costante tensione tra due livelli: quello soggettivo, parziale, articolato nella sequenza dei diversi capitoli, ognuno a rappresentare la particolare esperienza di un personaggio, e quello più ampio, con qualche parvenza di oggettività, percepibile solo esternamente alla narrazione, in cui si incrociano relazioni / informazioni / emozioni / divergenze tra punti di vista diversi.
Il dramma di ogni singolo personaggio martiniano nasce da una medesima biforcazione di significati: dal confronto col proprio ruolo, dalla necessità di superarlo, dall'impossibilità di farlo oltre un certo grado per i limiti che la realtà fittizia della narrativa di genere impone alla sua personalità. Quando un personaggio oltrepassa un certo grado di verosimiglianza, va incontro necessariamente a una qualche evoluzione. Che questa trasformazione significhi spesso morte o esilio è inevitabile, specie quando ogni altro esito suonerebbe falso, incoerente, consolatorio.



"Non so cosa gli abbiano fatto, le donne, a Martin, ma non solo non sa scriverne, ma quando lo fa non fa che inondare quello che chiaramente percepisce come sesso debole di veleno e…"

Non sarò un gran lettore di fantasy, e forse è per questo motivo che la saga di Martin mi ha colpito tanto, ma se c'era un elemento che ho apprezzato, tra i tanti che elevano le Cronache ben al di sopra del livello medio dell'intrattenimento letterario, è proprio la caratterizzazione dei personaggi femminili.
Tutte le donne di Martin, che siano giovani o mature, buone o cattive, decise o incerte, hanno una personalità autonoma e riconoscibile. Pur con la loro varietà di caratteri, nessun personaggio femminile delle Cronache vive in funzione dei maschi che la circondano (e se lo fa, il lettore non ha dubbi su come giudicarle, Sansa docet), né vive in funzione della componente sessuale della propria esistenza (importante, certo, ma non più di quella degli uomini con cui spartisce la scena), e neppure si trasforma nel tipico maschiaccio, a imitazione dei figuri con cui solitamente ha a che fare (anche in questo caso, se vi è costretta dagli avvenimenti, non ne gode mai, in nessun momento, né il ruolo, né gli eventuali privilegi ad esso legati, vedi Brienne). Le donne di Martin mostrano in tutta le possibili declinazioni, come i rapporti sociali, politici, sessuali siano costantemente virati al maschile, e quali sforzi e strategie debbano adottare per essere riconosciute e diventare soggetti attivi nelle relazioni e negli accadimenti che le circondano. E non importa che facciano la cosa giusta o quella sbagliata, che tramino nell'ombra o agiscano per interposta persona, che utilizzino il sesso, le convenzioni o i pregiudizi sociali a loro vantaggio, che usino e/o abusino del tanto o poco potere in loro possesso. Quel che importa è che le donne di Martin sono persone, prima di essere femmine.



Sottolineati questi aspetti che riguardano l'insieme delle Cronache mi rimane da spendere qualche riga sull'ultimo romanzo. Dopo l'interludio di A Feast for Crows, A Dance with Dragons riporta finalmente l'attenzione del lettore sui personaggi più importanti della saga. Lo scenario si allarga ancora, ci sono  sorprese e rivelazioni, nuovi personaggi e vecchie conoscenze che ritornano, c'è tutto il freddo del nord condito all'atmosfere calde delle Città libere, ci sono draghi e lupi e sangue, c'è il passato e qualche sprazzo di futuro.
In questo romanzo si avverte netta la sensazione di una storia aperta, della vastità di un mondo in cui le gesta dei singoli hanno invero poca importanza, in cui a precisa decisione segue sempre l'inevitabile conseguenza. Con la certezza che quello creato da Martin sia un universo dove nessuna azione resterà impunita.
L'inverno ormai è arrivato.

11 gennaio 2012

Letture: Non vogliamo male a nessuno / Una passeggiata nei boschi / Toxic

Nel post precedente si parlava di letture, di come mi fosse dispiaciuto non aver saputo buttar giù a tempo debito dei post adeguati a ricordare i libri letti nel corso dell'anno.
È tempo di rimediare. O almeno di fare un tentativo.

Foto di Iguana Jo


Non vogliamo male a nessunoa cura di Dave Eggers
Nel 2004 Minimum fax aveva già pubblicato una raccolta del meglio dei racconti usciti su McSweeney's, la creatura letteraria di Dave Eggers. Quell'antologia non era particolarmente memorabile, ed è passata pressoché dimenticata nella mia coda di lettura (certo, c'era Vollmann che non era affatto male, ma nel complesso era troppo programmaticamente provocatoria per essere anche bella). Questo secondo volume risulta invece decisamente più articolato, piacevole e interessante.

I racconti contenuto in Non vogliamo male a nessuno si possono dividere in due tipi (facciamo tre, dai): quelli che raccontano il malessere di qualche trentenne americano più o meno in carriera e quelli che tirano troppo la corda dell'improbabilità stilistica. E poi ci sono tutti gli altri. I racconti che rientrano nelle prime due categorie - per fortuna sono pochi - sono per lo più dimenticabili, concentrati come sono nell'ispezione accurata dell'ombelico dei rispettivi autori. Negli altri ci sono invece storie sorprendenti, curiose, importanti.
Tra tutti segnalo Appunti da un bunker lungo la Highway 8, di Gabe Hudson, un racconto in diretta dalla prima guerra del golfo; Una corda a tre capi, di Nathaniel Minton, una storia di disavventure familiari nel deserto, con trigonometria; Santa Chola , di Kerrie Kvashay-Boyle che narra come meglio non si potrebbe del crescere diversi, in Occidente.
La scelta di un racconto migliore è davvero difficile, vista la qualità letteraria dell'antologia che nel complesso s'è rivelata un'ottima lettura.



Una passeggiata nei boschi, di Bill Bryson
Tra le cose che prima o poi mi piacerebbe riuscire a fare, c'è quest'idea di partire a piedi e provare ad attraversare le Alpi (o i Pirenei, o anche solo un bel pezzo di Appennino), con lo zaino, perdendomi per almeno una settimana tra boschi, sentieri e montagne. Ma questo è solo uno dei motivi che mi ha spinto a prendere in mano il libro di Bill Bryson. L'altro è stato un post di qualche tempo fa che ha stimolato la mia curiosità e mi ha dato la spinta a leggere un altro libro di viaggi dopo l'esperienza non troppo positiva avuta con Bruce Chatwin.

Una passeggiata nei boschi racconta il tentativo di Bill Bryson di percorrere, zaino in spalla, un tratto dell'Appalachian Trail, la pista che si sviluppa per migliaia di chilometri attraverso le montagne degli Stati Uniti orientali. Bill Bryson non è un montanaro, non è nemmeno un escursionista esperto, e in questa avventura si fa accompagnare da un amico che è l'opposto di quella che, nell'immaginario comune, parrebbe essere la persona adatta a un'impresa simile. Ma Una passeggiata nei boschi è tutt'altro che un allegro libro di disavventure nei boschi. Dopotutto Bill Bryson è un professionista, sa come si racconta un viaggio ed è capace di gestire molto bene quel mix di informazione e opinioni personali che sono il cuore di un libro simile.

A parte il tono brillante e scanzonato dell'autore, la cosa migliore che mi ha lasciato la lettura di Una passeggiata nei boschi, è stata la riscoperta di un aspetto degli Stati Uniti che tendo troppo spesso a dare per scontato: l'America è ancora un posto selvaggio, un luogo in cui ci si può perdere nella foresta, uno spazio per certi versi ancora vergine, dove si può essere ancora convinti di essere il primo essere umano a calpestare quel particolare pezzo di pianeta. Non è un dato da poco, soprattutto se visto da qui, vecchia Europa. Anche solo per questo motivo val la pena di ricordare il libro, che quella sensazione di rapporto caratteristico, insieme timoroso e arrogante, incosciente e fiducioso, nei confronti di una natura maestosa e indifferente, è forse la cosa che più ci separa dai cugini americani.


Toxic, di Hallgrimur Helgason
Era un po' che giravo intorno a questo volume. La grafica dei volumi ISBN è accattivante, la presentazione sembrava essere fatta apposta - pure troppo - per immaginare un contenuto pulp sofisticato, divertente ma non stupido, con in più la possibilità di dare un'occhiata da una prospettiva personale a una realtà aliena e periferica come quella islandese.

Viste le premesse Toxic funziona. Ma funziona solo a patto di non crederci: rimanendo in superficie il romanzo è divertente (a tratti molto divertente), ma non appena ci si spinge un po' più in là delle gesta goffe e terribili del protagonista c'è il rischio di precipitare nel vuoto che si crea tra costruzione narrativa e realtà fattuale, tra racconto e percezione, e scorgere quindi la furbizia dell'autore (o l'abilità, dipende dai punti di vista), che infila tutte le emozioni al posto giusto, tutto lo sdegno al posto giusto, tutta l'ironia al posto giusto. In un modo che sì, effettivamente, più islandese di così è difficile pensarlo.