25 marzo 2011

Magic Kingdom

Come mai non ho mai sentito nominare Stanley Elkin? Uno scrittore che sforna un romanzo come Magic Kingdom non può essere uno sconosciuto qualsiasi. E dire che questo volume edito nella collana che minimum fax dedica al recupero dei classici non è nemmeno troppo vecchio. Risale al 1985. Eppure ci son voluti venticinque anni per tradurre questo libro in italiano. Misteri dell'editoria, applausi all'editore.

Magic Kingdom è la storia di sette bambini malati terminali che Eddy Bale, reduce dalla tragica perdita del figlio, decide di accompagnare, con una ben assortita cerchia di collaboratori, in una vacanza da sogno, l'unica e l'ultima a cui potranno mai partecipare, nel regno magico di Disneyworld.
Magic Kingdom racconta una vicenda che credevo fosse impossibile da affrontare, ma Stanley Elkin non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo, né per il pudore né per la pena, e ne esce trionfante e con lui i protagonisti della storia e il lettore con loro.

Prima di leggere questo romanzo ero convinto che raccontare di bambini malati in gita premio fosse quanto di più rischioso si potesse mai decidere di infilare in un romanzo. Con un argomento simile c'è tutto il potenziale per scivolare nella narrativa del dolore o nel melodramma o per rifugiarsi nel cinismo e nella retorica.
Stanley Elkin travolge invece il lettore con la pura e semplice verità del suo racconto.
Tutto Magic Kingdom è percorso da una voce sotterranea che lega i personaggi, i luoghi, le situazioni e che sussurra al lettore morte morte morte. Ma lungi dal rassegnarvisi, gli uomini e le donne e i bambini di questo romanzo cercano in ogni modo di venire a patti con la loro mortalità: gli adulti con il loro bagaglio di esperienze di sopravvivenza e con le loro piccole strategie di sopportazione e resistenza; i bambini, tutti condannati, dimenticando la loro condizione, fuggendo nei loro sogno condivisi, concentrando negli ultimi momenti rimasti intere esistenze che mai vivranno.
Stanley Elkin supporta i loro sforzi con una scrittura funambolica, sfrenata, meravigliosamente ricca di sottigliezze e sfumature. Una scrittura così viva da rendere possibile la convivenza nello spazio della stessa pagina, addirittura della stesse riga, di tragico e comico, sensuale e grottesco, orrore e meraviglia. Scrittura resa magnificamente da Federica Aceto in lingua italiana, con un lavoro di traduzione che non deve essere stato semplice. (Se volete farvi un'idea, qui trovate il pdf del primo capitolo).
Stanley Elkin mostra tutto: dalla masturbazione compulsiva dell'infermiera Mary, al profluvio di liquidi organici prodotto dalla piccola Rena, dai pensieri segreti di Pluto, alle pene d'amore del buon Colin per il suo omonimo compagno lontano. In questo mostrare senza pudore anche i momenti più intimi, restituisce dignità e individualità ai suoi personaggi (che siano bambini malati o accompagnatori disfunzionali), scardina la gabbia che li relegherebbe al ruolo di anonimi vettori di disagio sociale e rivela al lettore la loro umanità, che si riflette esattamente nei loro limiti.

In un romanzo in cui non c'è nessuna esaltazione del vitalismo cui tanta letteratura americana ci ha abituati, in cui nessuno nemmeno immagina ci si possa salvare la vita, decidere di ambientare la vicenda a Disneyworld non fa che acuire le dinamiche di relazione tra sani e malati, tra bambini e adulti, tra lavoratori e vacanzieri, in una serie di corto circuiti che rendono universale la malattia personale e inguaribile la follia collettiva (vedi il momento insieme ridicolo, tragico ed epifanico della sfilata a cui assistono i bambini verso la fine della storia).

Ma il regno magico di Stanley Elkin è ancora più ricco di quel che può apparire da queste note.
Vedi per esempio il ritratto dei mondi privati in cui i sette giovani protagonisti - otto, considerando il ricordo del figlio moribondo di Bale - sono forzatamente rinchiusi dalla loro malattia, descritti con una pacatezza che esalta la normalità delle loro esistenze. Normalità che sfocia in un irrefrenabile divertimento non appena le vite di questi piccoli malati si incrociano, con un umorismo che non nega la malattia né indulge nei comodi territori della satira, ma che grazie alla sua trasparenza al dolore riesce a coinvolgere il lettore molto più di un qualsiasi paternalistico approccio strappacore.
O vedi l'attenzione dedicata al rapporto tra Eddy Bale e la progressione della malattia del figlio; il delicato, commovente, spietato racconto della conclusione del suo matrimonio o quello della sua esposizione mediatica nel ruolo di promotore della macchina raccogli-soldi per curare il figlio prima, per la vacanza da sogno poi.
Insomma, si sarà capito, per me questo Magic Kingdom è stata una scoperta straordinaria.
Spero lo sia anche per voi.
(Un grazie a Chiara che mi ha consigliato il romanzo: è passato un po' di tempo, ma non l'ho dimenticato)

23 marzo 2011

Things to come


Picture by Iguana Jo.

Prendo spunto dal'ultimo post del Ratto, che dice "lo scrivo qui, pubblicamente, così potrete insultarmi se non manterrò l'impegno preso.", per anticipare cosa arriverà prossimamente nel blog.

È un po' di tempo che non parlo di libri, e forse prendermi un impegno pubblico a farlo mi spingerà a muovere il culo e a buttar giù quelle note che mi girano per la testa dal termine delle varie letture.
Quindi, qui lo dico e lo confermo, a breve su queste pagine arriveranno acute osservazioni, pregnanti critiche e immortali annotazioni sui seguenti volumi:
Magic Kingdom, di Stanley Elkin
La breve estate dell'anarchia, di Hans Magnus Enzensberger
In Patagonia, di Bruce Chatwin
Tschai, di Jack Vance
Angeli spezzati, di Richard K. Morgan
Cantata Spaziale, di Raphael A. Lafferty
What I Didn't See, di Karen Joy Fowler
Il figlio del cimitero, di Neil Gaiman

Stay tuned!

22 marzo 2011

Faccia da Vet


Non so voi, ma da bambino ho passato un sacco di tempo a giocare con le figurine Panini. All'epoca mi chiedevo che effetto doveva fare finirci dentro, fotografato con la maglia della tua squadra insieme ai tuoi compagni.
Una mezza dozzina di lustri più tardi posso ben dire che anche se sulle figurine non ci sono mai finito, sono comunque orgoglioso della foto qui sopra: ehi! sembro un giocatore vero!

Ma non è solo l'autocompiacimento che mi fa postare 'sta fotazza, piuttosto il voler parlare ancora una volta della mia esperienza con i Veterans del Modena Rugby.
Quest'ultimo fine settimana è passato tutto all'insegna del rugby, di quello giocato, di quello guardato, soprattutto di quello vissuto.
Venerdì è arrivata a Modena la squadra spagnola dei Murcia XV Veteranos. Sono arrivati per una partita di rugby con i pari età (meglio: i fuori età) modenesi, ma come sempre accade quando si incontrano due gruppi di vecchi rugbisti, la partita è stata solo la ciliegina sulla torta di un evento che è iniziato con la cena - e il dopo cena - di venerdì sera, è proseguito sul campo nella giornata successiva ed è terminato solo al calar del sole.
Quel che rende memorabili questi incontri non sono il vino e la birra, non sono i cori, non sono i racconti e i ricordi, non sono nemmeno gli scontri e le mete. È piuttosto il senso di una comunità che nasce da un'esperienza sportiva e diventa di più e meglio delle singole persone che si scontrano su un campo con una palla ovale in mezzo. Nel rugby ci sono il rispetto e la competizione, c'è il gusto del gioco e quello per la buona compagnia.
Le stesse cose le ho ritrovate domenica, trascorsa da mattina a sera a veder giocare i bimbi a Reggio Emilia per il loro primo torneo della stagione. Se anche i risultati della squadra di Jacopo non sono stati memorabili, vedere giocare tutti 'sti piccoli rugbisti provenienti da ogni parte d'Italia è stato comunque uno spettacolo.

Tornando all'incontro di sabato, noi pensavamo di stenderli, 'sti spagnoli. Invece il Murcia si è dimostrato molto più tosto delle previsioni e la partita è finita con tre mete per parte. Dal mio punto di vista posso aggiungere che a parte qualche botta, sono felicemente sopravvissuto all'esperienza. Viste le mie doti tecnico-atletiche questo per me è già un ottimo risultato.
Qui ci sono le foto della partita.

21 marzo 2011

Nick ha aperto un blog

Nick è un appassionato frequentatore di queste pagine e ora - finalmente! - ha aperto un blog tutto suo.
Andatelo a trovare che merita una visita.

12 marzo 2011

Italia - Francia 22-21

foto da repubblica.it

Giochi futuri


Da qualche mese gioco a World of Warcraft, da qualche anno leggo fantascienza.
Questo forse spiega il mio interesse per quanto pubblicato da Charlie Stross sul suo blog.
Anche se dopotutto si tratta di retrofuturo (come altro definire un intervento sul futuro scritto nel passato) il suo tentativo di tracciare una mappa dei futuri scenari del gioco on-line mi pare degno d'interesse.
Ecco il link: Life's a game, and then you die

10 marzo 2011

Scintille e incomprensioni

Nell'ultima settimana si è discusso molto nei blog vicini di letteratura e politica, della legittimità di letture ideologiche di testi di genere, della priorità o meno, nella valutazione di un'opera, di un approccio etico/politico.

La discussione è partita dallo spazio commenti del post che Elvezio ha dedicato ad Harry Potter, è proseguita da Niccolò su Sei un'idiota ignorante per giungere infine sulla pagine di Strategie evolutive. Nello spazio commenti del post di Davide sono stato tirato in ballo da Marco per l'approccio pregiudiziale che avrei nelle mie recensioni nei confronti di romanzi che mal si coniugano con la mia particolare visione del mondo.

Non ho seguito come avrei voluto le varie discussioni. Da circa un anno è stato introdotto dall'azienda per cui lavoro un sistema di filtraggio dei contenuti web per cui faccio molta fatica ad accedere a determinati blog, a volte nel loro complesso (Sei un'idiota ignorante o il Grande Marziano, per esempio), a volte solo a singoli post (Malpertuis, Strategie evolutive ). Oltretutto queste ultime settimane sono state piuttosto impegnative anche al di fuori della rete. Il risultato è che sono fuori tempo rispetto alle discussioni di cui sopra, ma devo comunque una risposta alle sollecitazioni ricevute.

Ultima avvertenza: per comporre questo post ho trovato più comodo citare le parole di Marco, compresi alcuni estratti da un paio di mie vecchie cose portate come esempi significativi del mio modo di procedere: il primo era dedicato ad Arrivederci amore, ciao di Massimo Carlotto, il secondo a Sotto la pelle, di Michel Faber.


Picture by Iguana Jo.

Partiamo.

"Forse il mio mancato entusiasmo nei confronti del romanzo si può in effetti riassumere nel fatto che non riconosco il mondo che racconta l’autore come il mio mondo, che sento la mancanza di un riferimento altro rispetto all’immoralità di tutti i personaggi del romanzo."


Marco scrive: "Semplicemente trovo questo un approccio sbagliato, un giudicare le opere in base a quello che vorresti che fossero, e quindi rischiando di prestare meno attenzione a quello vogliono essere, e che intendono comunicare. Un autore non deve descrivere il tuo mondo, ma quello che interessa a lui raccontare."

No, aspetta. Non giudico i romanzi che leggo "in base a quello che vorrei che fossero", cerco piuttosto di capire se date certe premesse l'autore svolge la sua opera in modo coerente o se se invece svicola, per intortarmi magari con uno sviluppo che di quelle stesse premesse se ne frega.


O meglio. Proviamo a fare un passo indietro. Così forse usciamo dall'esempio specifico (ma ci torniamo, non vi preoccupate) per tornare al discorso generale che riguarda la valutazione etica/ideologica di quanto leggiamo.

Quando mi metto a pensare a quel che ho letto mi chiedo come prima cosa "perché?".
Perché il dato volume mi è piaciuto/non mi è piaciuto? È merito/demerito della scrittura? Del plot? Dei personaggi? Oppure è qualcosa che riguarda l'etica e la consapevolezza del contenuto?

Per rispondere a queste domande inizio a rimasticare il romanzo letto, faccio giocare le idee che ho colto dal testo con gli altri ingredienti che mi hanno colpito, metto a confronto la mia parzialissima visione del mondo con quella che traspare dalle parole dell'autore e cerco di prendere al volo - e quindi riportare sul blog - le scintille che si generano dall'incontro.

In altre parole, non si tratta di vedere quanto le idee che percepisco dal testo corrispondano alle mie, ma quanto queste siano integrate nella narrazione, quanto siano sottoposte a discussione, quanto siano coerenti con l'ambiente e i personaggi messi in scena dall'autore. Solo dopo, se è il caso o se colgo qualche aspetto interessante, mi metto a discutere l'ideologia che governa la narrazione.

Per tornare a Massimo Carlotto, quando scrivo: "Forse il mio mancato entusiasmo nei confronti del romanzo si può in effetti riassumere nel fatto che non riconosco il mondo che racconta l’autore come il mio mondo, che sento la mancanza di un riferimento altro rispetto all’immoralità di tutti i personaggi del romanzo." Lo faccio perché tutto nel romanzo urlava - fallendo - la perfetta sovrapponibilità della realtà romanzata con la mia di lettore.
Arrivederci amore, ciao a me è parso un romanzo a tesi, e come la maggior parte dei romanzi a tesi fallisce proprio nel volere estendere la visione parziale dell'autore fino a ricoprire tutta la realtà. Quel che mi premeva sottolineare è un problema che è insieme di umiltà e verità, ovvero il porsi l'autore al di là e al di sopra del lettore. (Lo stesso limite che ho ritrovato in Solaris, tanto per citare un altro romanzo che soffre degli stessi difetti e sul quale la mia opinione è in netta minoranza).

Marco: "Non riconosci come tuo il mondo di Arrivederci Amore Ciao mentre trovi realistico quello di Eureka Street?"

Vedi? È questo l'equivoco. Eureka Street non ha pretesa di verità. I personaggi che si muovono nella Belfast del romanzo sono tutti sopra le righe, hanno vite, reazioni e relazioni esagerate. Ciò che impedisce a Robert McLiam Wilson di deragliare completamente è l'aderenza di quei personaggi a un contesto reso invece con piglio quasi naturalistico. Belfast è lì, è vera, con tutta la sua storia drammatica, e non c'è un solo paragrafo dedicato alla realtà nord-irlandese che mi sia parso incoerente, irreale, sbagliato.

Marco: "Riguardo a Sotto la Pelle (così come a suo tempo Luce dall’Universo) ti fermi sugli elementi che non ti vanno a genio – i personaggi sono tutti cinici, perversi e sconfitti dalla vita, PER CUI l’autore sta cercando di èpater il borghese / Gli esseri umani sono senzienti, PER CUI il paragone con gli animali non regge – tutti gli altri livelli della satira, su televisione, sessualità, consumismo, (che secondo me contribuiscono a spostare il discorso dal piano del parallelismo diretto – con rapporto 1:1 a quello dell’esagerazione paradossale) magari li vedi anche ma non gli dai più peso, l’hai già bell’ e bollato come trattato vegetariano militante."


Ehm… in realtà seguo il percorso inverso.

Mi chiedo: perché non trovo credibile il parallelismo uomini/animali? Forse perché gli esseri umani che compaiono nel romanzo sono senzienti e il lettore empatizza con loro? O forse perché l'autore piega ogni aspetto del romanzo al fine di farmi cogliere questo parallelismo, collocando a fianco di ogni svolta del plot un sacco di punti esclamativi ed enormi cartelli indicatori?

Perché la data lettura non riesce ad appassionarmi/inquietarmi/affascinarmi ma invece mi irrita/annoia/disgusta? Forse per la caratterizzazione univoca di tutti i personaggi? Forse per le discrepanze nel plot? Forse perché sotto la narrazione si scorge il telaio e gli ingranaggi che l'autore ha utilizzato per sedurmi?

E no, non mi sento in colpa per non aver colto livelli ulteriori di lettura, o sottotesti per iniziati, o sfumature appena accennate (o esplicitamente raccontate, non è questo il punto). Tra l'altro se mi metto a discutere pubblicamente la mia esperienza di lettura è proprio perché do per scontato che altri lettori avranno colto dallo stesso testo cose diverse dalle mie. E cosa c'è di più interessante (e divertente!) del confronto tra percorsi diversi fatti sulle stesse pagine?

Marco: "Considerato che Faber vegetariano non è (la domanda naturalmente gli è stata fatta, dopo la pubblicazione del romanzo)- forse era più interessato a porre l’attenzione su certi eccessi dell’industria del carne
…snip…
…E visto che lui non lo intendeva come un trattato di vegeterarianesimo militante e molta gente non l’ha recepito come tale forse il fatto che non ci sia un equivalenza perfetta Isserley:Uomini=Uomini:Animali non è così significativo come è parso a te.
"

Per me, da lettore, le intenzioni dell'autore contano come il due di picche in una partita a scacchi. Dal momento che leggo un libro conta solo quel che riesce a comunicarmi con quel che ha scritto, che va al di là e oltre qualsiasi intenzione potesse aver avuto quando si è messo alla scrivania per iniziare il suo romanzo.
Una volta pubblicato quel testo non è più suo, ma del lettore, che ha tutti i diritti di farne quel che preferisce. Da parte mia l'unica regola che mi aspetto venga rispettata nella discussione di un testo è che le affermazioni che lo riguardano siano coerenti con quanto compare tra le pagine del testo stesso.

Per questo motivo non mi aspetto che chi passa dal mio blog possa condividere ogni affermazione fatta sul dato testo, mi aspetto però che la mia opinione venga rispettata o ridicolizzata non in base a presunti postulati iniziali ("l'autore intendeva dire che…"), ma solo sulla base della sua aderenza al testo in discussione.

08 marzo 2011

Un gelido inverno


Picture by Sam's Myth.

Ci sono film capaci da soli di riconciliarti con il cinema, la vita e tutto quanto. Forse perché gli ultimi film visti avevano un'apparenza eccessivamente patinata per colpire davvero, forse perché da troppo tempo vedo film in cui la realtà è sommersa dalla sua rappresentazione spettacolare, o forse, più semplicemente, perché mi sono ormai rassegnato alla funzione consolatoria della maggior parte del cinema popolare contemporaneo. Per tutti questi motivi vedere Winter's Bone (Un gelido inverno è il titolo con cui è stato malamente distribuito in Italia) mi ha fatto l'effetto di una salutare sferzata di vita, capace di colpire insieme occhi e stomaco, cuore e cervello.
Il film di Debra Granik non cerca compromessi o facili accomodamenti e conduce lo spettatore, senza cedere un passo a retorica e melodramma, nella vita di Ree Dolly, accompagnandola nella ricerca di un padre scomparso, con due fratelli e una madre a cui badare, nel deserto di relazioni che la circonda.

Occhi
Il Missouri fotografato da Michael McDonough riverbera la desolazione delle vite dei suoi abitanti. La miseria degli uomini fa da contraltare alla ricchezza documentaristica di dettagli, rovine e immondizia che riempiono i fotogrammi dedicati alla comunità rurale protagonista della vicenda, mentre quelli dedicati alla natura circostante spiccano per il rigore monocromatico dei toni e la rigidità di forme e movimenti. I colori sono gelidi: bianchi e azzurri e grigi, pronti a scaldarsi solo negli interni della famiglia di Ree, o durante il compleanno in Arkansas, a sottolineare i brevi momenti in cui il freddo delle relazioni si sbriciola nel calore di una vera casa.
E poi ci sono le facce. Miserabili. Perfette. Ognuna con tracciata sulla pelle la mappa delle privazioni di vite intere trascorse a sopravvivere al gelido inverno della loro stessa miseria.

Stomaco
Non c'è pudore nello sguardo di Debra Granik, ma c'è un'immensa compassione per tutte le donne che reggono le sorti del suo film. Donne che tagliano la legna e cucinano, donne che scuoiano cervi e sbudellano scoiattoli, donne che insegnano a sparare ai bambini e donne che picchiano altre donne, donne cani da guardia e donne malate, donne complici e donne ostinate. Gli uomini ci sono, la loro presenza è fondamentale: sono quelli che governano, sono la legge e l'ordine, il denaro e lo squallore. Concedono udienza, e qualche volta sono anche d'aiuto, per poi ammazzarsi di droga e violenza. Gli uomini passano e se ne vanno, sono le donne quelle che restano.

Cuore
Winter's Bone si regge tutto sugli sguardi e la testa dura di Jennifer Lawrence, che cede cuore e anima a Ree Dolly rendendola tanto vera, viva e disperatamente testarda da chiedersi se anche lei ha passato l'infanzia a caccia di scoiattoli, a combattere solo per farsi ascoltare, senza perdere per strada nemmeno un briciolo della tenerezza che il suo personaggio riserva a madre e fratelli.
A tener testa a Jennifer Lawrence c'è John Hawkes, l'attore che interpreta il ruolo di Teardrop, zio di Ree, che si dimostra abilissimo nel rendere insieme trasparente e tangibile l'evoluzione del suo personaggio. Teardrop è l'unico in tutta la vicenda ad accettare i rischi di un cambiamento, che si trasforma da topo di fogna, indistinguibile dalla massa dei suoi pari, in principe tossico e vendicatore, perfettamente conscio dell'inutilità di ogni azione, ma pronto ad esercitare comunque ogni oncia del suo potere di maschio.

Cervello
Abbiamo deciso di andare a vedere Winter's Bone dopo aver letto l'entusiastica recensione di Elvezio Sciallis. Ci siamo riusciti per un pelo, che il fine settimana appena trascorso è stato l'unico in cui il film veniva proiettato a Modena. Nel frattempo m'è capitato di leggere qualche commento nei blog qui vicino (quello di Giovanni De Matteo, per esempio, o quello di Anna Feruglio Dal Dan) tutti concordi nell'evidenziare l'eccezionalità di un film simile.
Io credo che Winter's Bone sia un film diverso dal solito per un particolare fondamentale: ci sono donne vere che fanno cose vere.
No. Winter's Bone non è un film femminista. Piuttosto Winter's Bone è un film che scopre - finalmente! - il ruolo femminile in un contesto da sempre dominato da figure maschili. Il contesto in questione non è né il western né il gotico (generi associati più volte al film della Granik, ma che si scorgono più nella resa dell'ambiente che non nello sviluppo della narrazione), quanto piuttosto il gangster movie più classico, virato questa volta nei già citati toni gelidi dell'inverno rurale.
In Winter's Bone ci sono i legami di sangue che si scontrano con l'economia illegale del clan, ci sono ruoli scolpiti nella roccia che solo la violenza è in grado di scalfire, ci sono spazi personali ridotti in funzione delle necessità del gruppo, ci sono rigorosi codici di appartenenza e punizioni esemplari se si sgarra. C'è la tribù indigena che protegge il confine dal nemico alle porte, c'è un senso di appartenenza irrinunciabile nonostante l'acuirsi dei contrasti personali.
In questo scenario Ree Dolly non è una rivoluzionaria, non rappresenta alcuna emancipazione, incarna semmai la forza disperata degli affetti che si scontra con l'insensibilità costruita su dollari e paura.
Non ci sono cattivi in questo film. Tutti i personaggi hanno ottime ragioni per fare quello che fanno.
C'è la miseria e la lotta per la sopravvivenza che uccide ogni sentimento e nessun futuro all'orizzonte. In effetti se l'esito della vicenda è un probabile punto di non ritorno per la vita di Teardrop, costituisce solo una parentesi nella vita di Ree, che non è difficile scorgere nei volti delle altre donne del film il suo stesso destino.
Speriamo che se la cavi.

01 marzo 2011

Imaginare

Tra lavoro, amici e famiglia, questi son giorni pieni di impegni e casini vari. La rete in generale e il blog in particolare sono i primi a rimetterci. Mi scuso quindi per i discorsi lasciati a mezzo e lo scarso aggiornamento dei contenuti del blog, arriveranno tempi migliori (…e in fretta, spero).

Cinque minuti per segnalare la partenza di Imaginare li dovevo però trovare, che non capita spesso di imbattersi in simili iniziative.
Se siete a Torino nei prossimi giorni e amate la letteratura fantastica non potete perdervi questo ciclo di incontri.
Per saperne di più potete fare un salto su Strategie evolutive, che Davide Mana è uno degli organizzatori dell'evento e saprà illustrarvi da par suo i contenuti e le suggestioni che Imaginare metterà in circolo.