25 marzo 2013

Letture: Jonathan Lethem, Michele Mari, Gianluca Morozzi

© giorgio raffaelli
In queste settimane lontane dal blog mi son reso conto di quanto fosse utile  - e piacevole! - avere una finestra aperta sul mondo reale da cui far uscire qualche pensierino sparso, per vederlo poi tornare modificato, elaborato, trasformato. Per non parlare poi della possibilità di affacciarsi a osservare un panorama in perenne mutamento, con qualche rassicurante costante e, ogni tanto, una variabile impazzita capace di sorprendere e stimolare la vita fuori e dentro la rete. Ritornare a postare qui dentro è una bella soddisfazione, ma non so se questo post costituirà un ritorno alle buone abitudini o se prima di leggere qualcosa di nuovo passeranno altre settimane. Io intanto ci provo, poi vedremo. Checché se ne dica viviamo in tempi interessanti e 'sta cosa è la nostra condanna e la nostra benedizione. Io mi limito a parlar di libri, ma voi, là fuori, non smettete di guardarvi attorno.

Jonathan Lethem - Non mi ami ancora
Rispetto agli ultimi romanzi di Jonathan Lethem Non mi ami ancora è un episodio minore, non fosse altro che per le sue dimensioni contenute, oltre che per il setting più limitato e un approccio che m'è parso più semplice e quotidiano alla narrazione rispetto alla densità metaletteraria di Chronic City o all'intensità emotiva raggiunta ne La fortezza della solitudine.
In Non mi ami ancora Lethem da spazio alla sua passione per rock e dintorni, oltre a ritornare sui temi fondanti la sua scrittura: arte e normalità, solitudine e meraviglia, disagio e integrazione.
Il percorso che compie Lucinda, bassista di un'anonima band alla ricerca dell'occasione giusta, tra l'arte che le dà da mangiare e la crisi sentimentale che la indirizza tra le braccia di uno sconosciuto interlocutore telefonico, sarà anche sintomatico del vuoto in cui si muovono gli under trenta più o meno attivi culturalmente negli States ma, banalità per banalità, a me è parso soprattutto esemplare della necessità di mantenere attive curiosità e passione per non essere divorati dall'omologazione circostante. Senza scomodare i massimi sistemi, gli aspetti migliori del romanzo sono lo sguardo credibile sul sottobosco in cui fermentano le pulsioni del rock indipendente americano e, dal punto di vista strettamente letterario, c'è l'immersione nell'immaginario erotico-sentimentale della protagonista che dimostra, come se ce ne fosse ancora bisogno, tutto il talento autoriale di Jonathan Lethem.
 Ho letto Non mi ami ancora a poco tempo di distanza dal Despero di Gianluca Morozzi (vedi sotto). Potrebbe essere esercizio interessante confrontare l'approccio opposto a temi simili dei due autori. Per l'americano l'anima rock che distingue la sua storia suona consapevole, fredda e consolidata, mentre invece per l'italiano ha il sapore inconfondibile della nostalgia, guidato com'è dalle emozioni primarie, da rabbia e consolazione, nel tentativo estremo di fermare il tempo. Del resto il primo  racconta il rock nella sua età matura (Stati Uniti, oggi) mentre il secondo è ancora fermo alla sua adolescenza, con tutti i vantaggi della passione e i difetti tipici dell'età.
Nel complesso non consiglierei Non mi ami ancora a chi già non conosce e apprezza Jonathan Lethem, ma io sono un fan, e come tale non ho potuto non gradire il romanzo.


Michele Mari - Tutto il ferro della torre Eiffel

Credo di non aver mai letto un libro italiano scritto altrettanto bene di Tutto il ferro della torre Eiffel di Michele Mari. Il romanzo di Mari è talmente perfetto che mi son chiesto più di una volta come ho fatto ad ignorare lo scrittore milanese fino ad oggi.
Ho scoperto Michele Mari grazie ai post appassionati del Grande Marziano, e non c'è nulla come le parole di un lettore felice per invogliare il passante curioso a infilarsi tra le pagine di un libro sconosciuto.
Tutto il ferro della torre Eiffel racconta le giornate parigine di Walter Benjamin alla vigilia della seconda guerra mondiale. Tra scrittori suicidi, nani malefici e inquietanti incontri all'ombra dei passages, Mari ricostruisce il mood di un'epoca alle soglie della catastrofe, dandone conto da erudito ma senza la supponenza del saccente, piuttosto con la passione dello studioso per la sua materia preferita.
Michele Mari infarcisce la narrazione di personaggi storici ed eventi reali, mescolandoli con l'invenzione fantastica e la supposizione logica, fissando il tutto con la forza della letteratura alta e ancorando il suo universo a una Parigi che per quanto fantasmatica e meravigliosa non perde mai, nemmeno per un attimo, la sua ferrosa solidità. La capacità di Mari di mantenere salda l'attenzione del lettore grazie a una scrittura funambolica e all'uso dei più vari registri narrativi, quella di sorprenderlo e commuoverlo con improvvisi squarci d'umanità e meraviglia e orrore, sono gli aspetti del romanzo più positivi, che bilanciano ampiamente il rischio che ho corso in più di un momento di ridurre tutta l'opera a uno straordinario esempio di bella scrittura ma in fondo piuttosto vacuo.
Alcune pagine del romanzo suonano in effetti quali meri esercizi di stile, perdonabili comunque per la qualità e l'onestà della scrittura. Ed è anche vero che se spesso tra le presenze evocate da Mari riecheggia lo spettro di Tyrone Slothrop, la densità della narrazione (intesa come complessità e quantità d'informazione per unità di testo) di Tutto il ferro della torre Eiffel non raggiunge mai quella di Thomas Pynchon, che mi pare in ogni caso il parente letterario più prossimo all'autore italiano, almeno tra gli scrittori che m'è capitato di incontrare.
Come si sarà forse intuito ho trovato la lettura del romanzo piuttosto impegnativa, ma anche se continuo a far fatica a cogliere il senso complessivo dell'opera (ogni suggerimento è benvenuto!) la lettura di Tutto il ferro della torre Eiffel è una di quelle che non si dimenticano facilmente.


Gianluca Morozzi - Despero

Sarà brutto da dire, che a me Despero è piaciuto, ma 'sto romanzo puzza di anni '90 da far quasi male, almeno per me, che condivido molte delle situazioni raccontate nel romanzo.
Non ho mai suonato in una band, e non sono nemmeno mai andato in tour, e nemmeno mi sono strutto anima e cuore per un amore impossibile, almeno non per tutta una vita. Ma lo sfondo su cui si muove Cristian Cabra detto Kabra è lo stesso delle mie giornate emiliane di quegli anni, con le settimane passate a perdere tempo con gli amici nell'attesa di una svolta, con le notti in giro per la provincia a inseguire il fantasma del rock'n'roll, con una realtà fuori con cui si fa fatica a entrare in sintonia.
Il maggior pregio di Despero è anche il suo unico limite: quel sapore nostalgico che suona così genuino e spontaneo, la freschezza del racconto che cavalca e supera i freni del cliché con cui per forza di cose è costretto a confrontarsi, che è poi il sogno di seconda mano di un'epopea rock romantica e disperata, trasferita di peso dagli spazi d'America alla provincia nostrana. Com'è già stato fatto notare, quel sogno c'ha colonizzato l'inconscio, col risultato che quando è reso in maniera così sfrontata e pura si è costretti ad amarlo, nonostante tutto.
Qualche anno fa Gianluca Morozzi ha dato un seguito a Despero smarcandosi dalla nostalgia che segnava il suo romanzo d'esordio per fondere la saga di Kabra con un universo fatto di supereroi e musica rock. Colui che gli dei vogliono distruggere chiude il cerchio cominciato con quella dedica che segna il suo esordio e ne determina la conclusione “A Peter Parker, amico d'infanzia, maestro di vita”.
Ho già parlato di Colui che gli dei vogliono distruggere qualche mese fa, qui non posso che rinnovare il consiglio: leggetelo, prima o dopo Despero, non fa differenza. Spero che entrambi vi piacciano quanto son piaciuti a me.