06 maggio 2013

Letture: Tom Waits. Il fantasma del sabato sera. A cura di di Paul Maher Jr.

© giorgio raffaelli
Il fantasma del sabato sera è un volume da fanboy, un libro la cui lettura non è consigliabile a chi già non conosca e apprezzi quello strano soggetto che è Tom Waits. D'altra parte, se non conoscete e apprezzate Tom Waits, cosa ci fate ancora qui? Andate piuttosto ad ascoltarvi un po' di buona musica

Ho conosciuto Tom Waits nel 1985, dopo l'uscita di Rain Dogs. All'epoca quel disco mi parve la cosa più nuova avessi mai ascoltato. Da allora non ho smesso di seguirlo, esplorando la sua produzione precedente, cercando poi di star dietro alla sua continua e sempre più stupefacente evoluzione sonora.

Il fantasma del sabato sera racconta la vicenda artistica di Tom Waits attraverso le interviste che il musicista ha rilasciato nel corso degli anni, interviste che segnano un percorso umano e artistico piuttosto peculiare, e che raccontano, tra le grinze e le smorfie e le storie che Waits riversa sull'ennesimo giornalista, il tentativo di nascondersi e inventarsi, la passione per la musica, la necessità di stare ai margini e perseguire un percorso personale che abbia come primo obiettivo la ricerca di un’espressione singolare, per quanto brutta sporca e cattiva questa possa apparire.
Chi frequenta la musica di Tom Waits conosce bene la svolta improvvisa che la sua carriera artistica ha preso tra la fine dei '70 e i primi '80, è però sorprendente il senso di continuità che emerge dalle interviste raccolte nel volume: Waits non smette mai, nemmeno per un attimo, di raccontare storie, di reinventarsi un passato sempre più nebuloso e al contempo di deviare costantemente la curiosità del pubblico riguardo la sua vita privata. Quel che cambia è il nucleo forte della sua passione, che dopo l'incontro con Kathleen Brennan si focalizza ed esplode in sonorità che si sganciano da qualunque debito avessero con la tradizione da cui derivano per avviarsi verso un'esplorazione sonora che continua album dopo album senza alcun compromesso o concessione al facile ascolto.

Le interviste seguono l'evoluzione di Tom Waits, dall'uscita del primo disco, Closing Time, del 1973, fino a Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards del 2006, ed è molto interessante osservare il percorso di maturazione dell’artista che, nonostante i cambiamenti nell'espressione musicale, mostra una coerenza non comune nell'approccio ai media da un lato e allo show business dall'altro. Tom Waits tiene sempre a distanza di sicurezza l'intervistatore (e il pubblico, più in generale), ma se può apparire scontroso, la sua riluttanza a parlare di sé non diventa mai scortesia, condita com'è di umiltà e consapevolezza, che fare musica non determina di per sé una condizione speciale o privilegiata, ma esprime solo un'innata curiosità. Ed è questo l'aspetto di Tom Waits che più forte emerge dalla lettura di questi incontri con la stampa: un uomo curioso, capace ancora, nonostante gli anni, di continuare a giocare con suoni e strumenti, alla ricerca di stimoli e illuminazioni.

Prima di concludere queste note mi pare cosa buona e giusta lasciarvi con un estratto dall'incontro di Tom Waits con Terry Gilliam, altro soggetto la cui produzione artistica appare esemplare per coerenza e visionarietà.


Tom Waits chiacchiera con il visionario regista Terry Gilliam. Fiere, corvi e fenomeni da baraccone a parte, sembrano due invasati che parlano lingue incomprensibili.

[…] 

È quello che mi frega sempre, della tua musica, fa vibrare il cervello e il corpo in modo diverso. Questo mi eccita e mi spaventa allo stesso tempo, e mi fa scattare tutta una serie di risonanze in testa.
Mi piacciono i dischi vecchi, e quel che mi piace dei dischi vecchi è il rumore di superficie che spesso è meglio della musica in sé, oppure i due combinati insieme che creano una sorta di fantasma. Quando ascolti una registrazione vecchia e gracchiante di Caruso sembra sempre che stia cercando di raggiungerti da lontano e ti fa venir voglia di aiutarlo. In un certo senso vorresti entrare nelle casse.

[La tua musica] è esotica, anche se parla di bifolchi che abitano nelle campagne del... Missouri. Continuano a venirmi in mente le favole ottocentesche dei fratelli Grimm.
Sono lusingato, Terry. Sono contento che ti siano entrate nelle orecchie; i tuoi film mi hanno trasportato in un altro mondo per molti anni. Ho visto [Le avventure del] Barone di Münchausen una cinquantina di volte... Credo sia un buon test per un’opera d’arte, il fatto che riesca a durare nel tempo e ad accompagnarti in modo che tu possa riscoprirla, e che lei possa riscoprire te.

Concordo. Che si tratti di un quadro, di un brano musicale o di una poesia: basta che continui a risuonare.
E poi, ovviamente, amo vedere una suora che galleggia – e il rapporto che ti lega ai nani. È meglio che andare al circo!

È proprio un argomento che ti ossessiona, vero? Le fiere, i circhi e i fenomeni da baraccone.
Credo di essere scappato per unirmi a un circo. Penso fosse proprio quello che volevo ricreare con la musica, e penso che a un certo punto dobbiamo esserci accorti di avere qualcosa di particolare che ci rendeva... diversi.

E poi nessuno al giorno d’oggi esalta l’unicità, il bizzarro, la stranezza o la meraviglia.
Sono d’accordo.

Non so come si potrebbe fare a riportare in auge tutto questo, a distinguerci dagli altri. Forse basta che continuiamo a fare il nostro mestiere.
È come se il mondo a questo punto fosse in mano a tre o quattro cartelli, e ognuno di noi finirà col lavorare per uno o due di loro.

Qual è la tua etichetta... La Anti-?
Si chiama Epitaph. La divisione di cui faccio parte è la Anti-. I suoi artisti sono Joe Strummer... Tricky... Merle Haggard.
È un posto insolito, una specie di ricovero per artisti traumatizzati, credo. È così corretto, sano, onesto. Sai, come quando porti il vestito in tintoria e poi te lo restituiscono per davvero.


[…]

Tutta la musica che hai scritto, per me, somiglia a un dipinto o a un corto cinematografico.
Le canzoni sono film e gioielli per le orecchie.

Quello che fai, e quello che spero di fare anche io, è continuare a dipingere questi quadri per il mondo, con la speranza che una o due persone si accorgano che si tratta proprio della realtà che le circonda. Mi sento come se stessimo lottando contro i poteri forti. Che siano la pubblicità, i media, il cinema – il cinema normale – sono tutti impegnati a fornire una rappresentazione fraudolenta del reale.
C’è una continua battaglia tra la luce e le tenebre. E io continuo a chiedermi se le tenebre non abbiano sempre un asso nella manica.

Perché le tenebre vengono rappresentate come luminose, allegre e divertenti.
È questo l’inganno.

Esatto, è proprio un inganno! Tutti dicono che il mio lavoro è cupo, lo dicono anche del tuo, ma non è vero. Credo invece che sia più vicino alla luce di quello che viene spacciato per tale.
Il cane si morde la coda da tanto tempo.

[…]

Mi fa incavolare l’idea che il surrealismo sia stato completamente svenduto; adesso viene usato nelle pubblicità e per vendere robaccia.
Lo so. Che fastidio.

Ormai è privo di contenuti. C’è un sacco di immaginario ma zero significato. Nei tuoi dischi compaiono spessissimo dei corvi.
I corvi, già: sono gli adolescenti del mondo ornitologico. Dicono che il problema dei corvi è che alle nove hanno già finito di lavorare e hanno troppo tempo libero a disposizione. Trascorrono il resto della giornata a giocare a una versione primitiva del rugby. O a nido libera tutti. Oppure si mettono a blaterare e a ciacolare. A quanto pare non c’è nessuna ragione biologica per questo comportamento... un corvo può starsene fermo, quasi in trance, su un formicaio fino a ritrovarsi totalmente coperto di formiche. Dicono che l’unica spiegazione plausibile è che questa sia una fonte di piacere, una specie di tossicodipendenza.

Scommetto che è così!
E poi rovesciano gli occhi nelle orbite e buttano indietro la testa per guardare il cielo. Dicono che faccia parte del destino di un corvo, perché rispetto agli altri uccelli ha il cervello più grande in proporzione al corpo e ha troppo tempo da sprecare. È inevitabile che inizi a farsi (ridono entrambi).

Meraviglioso.
Hai mai mangiato un corvo?

No, com’è?
Neanche io. O meglio, ne ho mangiati diversi, simbolicamente. È stata una dieta fissa per diversi anni.  

Sì, mi tiene in forma (ridono entrambi).
 (Tom Waits. Il fantasma del sabato sera. Interviste sulla vita e la musica. Estratto da BlackBook, 10 aprile 2002; data di pubblicazione: giugno 2002. Copyright minimum fax 2012, traduzione di Claudia Durastanti)


Bene. È tutto. Vi lascio con un Tom Waits in forma smagliante.
Ecco Hell Broke Luce, estratto da Bad as Me (2011).



15 aprile 2013

Letture: La camera chiara, di Roland Barthes

© giorgio raffaelli
È la prima volta che mi capita di leggere un testo teorico sulla fotografia. L'occasione mi è stata fornita dai genitori della squadra di rugby di mio figlio che mi hanno regalato La camera chiara. Nota sulla fotografia al termine della scorsa stagione sportiva. Leggere le note che un grande pensatore come Roland Barthes ha scritto su un'attività che mi ritrovo a praticare anch'io è stata un'esperienza interessante. La camera chiara offre punti di vista inconsueti e molte ragioni per meditare su quel che significa scattare, osservare e quindi condividere una fotografia con persone che non hanno esperienza diretta dell'istante immortalato. Nelle riflessioni che Roland Barthes offre al lettore ci sono un sacco di spunti interessanti, ma ci sono anche un paio di buchi, che se sono in parte comprensibili, per altri versi appaiono invece piuttosto curiosi.

L'assenza più evidente - il volumetto risale agli anni '80 dello scorso secolo - è la mancanza di qualsiasi considerazione sull'evoluzione digitale della fotografia, sul cambiamento nell'uso e nella distribuzione delle immagini, sull'accesso globale a strumenti di elaborazione che hanno eroso poco a poco la visione della fotografia come riproduzione oggettiva della realtà. Se quest'aspetto potrebbe aver fatto invecchiare anzitempo La camera chiara, ciò non avviene perché buona parte delle note sulla fotografia del pensatore francese si riferiscono alla modalità di percezione della foto, alla possibilità insita nel medium di veicolare messaggi personali e interpretazioni generali, al suo ruolo sociale e al riflesso individuale della sua fruizione, tutti aspetti del rapporto tra fotografia e individuo e società ancora attuali e stimolanti.

Quel che secondo me manca nelle note di Roland Barthes è il passaggio successivo nella riflessione sull'ìnterazione tra osservatore, fotografia, fotografo, che nel testo è sì fondamentale, ma che rimane ferma alla sua dimensione statica, istantanea. Ne La camera chiara non si fa alcun cenno a quel che a me pare uno dei fattori fondamentali nel rapporto tra osservatore e fotografia, ovvero le potenzialità narrative che caratterizza l'immagine fotografica, capace di evocare storie e stimolare l'immaginazione, proprio a causa del suo essere focalizzata su aspetti sempre parziali, e dunque inevitabilmente soggettivi, della realtà. Perché se è vero - come dice Barthes - che le immagini bloccate dallo scatto fotografico sono riflessi di morte, e i soggetti fotografati sono destinati a diventare fantasmi del passato, è anche vero che l'atto di osservare riporta in vita e rigenera quell'istante e offre a chi guarda la fotografia una possibilità di invenzione che nessun altro media è capace di offrire in modo così istantaneo. Non succede sempre, ma quando capita è un bel momento.

A me pare che in nessun altro tipo di rappresentazione del reale il potere catalizzatore dell'oggetto osservato sia così evidente come quando si osserva una fotografia (l'unico altro medium che si avvicina a ottenere gli stessi risultati è il cinema). Un'immagine fotografata è (quasi) incapace di comunicare all'osservatore altro da quel che quest'ultimo trasmette all'immagine stessa, in un circuito di feedback - positivo o negativo che sia - che è tanto potente quanto elementare. Non se se Roland Barthes sarebbe d'accordo con questo punto di vista, ma mi pare che nell'impossibilità di definire un canone estetico univoco che riguardi tutta l'arte fotografica ci sia più di un legame con la sua eccessiva immediatezza e popolarità, intesa come accessibilità generalizzata al mezzo e ai suoi risultati: oggi siamo tutti fotografi.
Ma se siamo tutti fotografi, allora la fotografia si riduce al riflesso morto di una realtà disfatta, che preferiamo osservare, condividere e ricordare con il filtro di una macchina fotografica davanti agli occhi, piuttosto che viverla e quindi modificarla in prima persona. Immagini forti per retorica spicciola, ma comode per concludere queste note su La camera chiara e tornare in maniera circolare a Roland Barthes che riflette, lui ormai anziano, sull'immagine della madre giovane, paradossalmente sconosciuta nella foto scattata prima della nascita dell'autore. Un momento commovente, in un testo peraltro piuttosto complesso, ma anche istante rivelatore, in cui si giunge a chiedersi quanto in quelle vecchie stampe sia davvero reale, quanto sia immaginazione, quanto ricordo. Con il Tempo, e la Storia, a separarci dal momento indimenticabile dello scatto.

09 aprile 2013

Letture: I senza-tempo, di Alessandro Forlani

© giorgio raffaelli
Probabilmente I senza-tempo è stato il romanzo di fantascienza italiana di cui s'è parlato di più l'anno scorso. Vincitore del Premio Urania, collocabile dunque in una tradizione che negli ultimi anni non è stata delle più fortunate, il romanzo di Alessandro Forlani ha superato brillantemente le forche caudine della critica nostrana.
Se le recensioni positive superano ampiamente quelle negative, c'è da notare come queste ultime si siano soffermate soprattutto su due aspetti marginali de I senza tempo: la sua lunghezza (che il romanzo è invero piuttosto breve) e la sua collocabilità o meno all'interno del genere fantascienza.
Critiche dunque piuttosto trascurabili rispetto al testo dato alle stampe da Forlani, ma critiche in fondo condivisibili, se per voi collocazione di genere e quantità di testo sono aspetti importanti.
Per me non lo sono e se devo esprimere qualche nota critica mi piacerebbe piuttosto sottolineare gli aspetti che a fine lettura mi hanno suscitato qualche dubbio.

Le qualità del romanzo sono note: ottima scrittura, buon ritmo, personaggi ben caratterizzati, azione e orrore quanto basta. Quelli che per me sono i punti deboli de I senza tempo non riguardano quindi lo sviluppo narrativo del romanzo, né la sua capacità d'intrattenere il lettore o il suo valore letterario. I difetti hanno piuttosto a che fare con quello che da più parti è stato indicato come il "messaggio politico" del romanzo. 
I senza-tempo indica esplicitamente qual è, secondo l'autore, il problema principale della società italiana: la gerontocrazia imperante, che succhia energie alle nuove generazioni, ne impedisce l'accesso ai centri di controllo, governa in moto autoreferenziale e arbitrario le sorti della nazione. Le mie perplessità  riguardano la modalità scelta da Alessandro Forlani per presentare la problematica al lettore e la strategia di risoluzione drammatica adottata. Perché se è vero che lo stato della nazione è presentato nel romanzo in maniera credibile e controllato, è anche vero che il personaggio scelto per esprimere narrativamente l'orrore della gerontocrazia al potere è anche l'unico in tutto I senza-tempo che abbia un briciolo di carisma. Certo, Monostatos ha il piccolo difetto di essere cattivo cattivo (diavolo! mangia i bambini!) ma al confronto della manica di giovani sfigati che lo contrastano o dei vecchi barbogi che lo temono beh… ti vien da tifare per lui: è l'unico che sogna un futuro diverso, l'unico che lavora per costruirlo, l'unico davvero appassionato a quello che fa e beh… credo che in fondo sia anche l'unico a divertirsi.
Se questo aspetto del romanzo rischia di deviarne la prospettiva, lo sviluppo risolutivo della trama rischia di minarne la consistenza narrativa: come inserire nel contesto politico del romanzo la scelta di conferire ai media il potere di cambiare le cose? Dove ha vissuto l'autore negli ultimi vent'anni? Fortunatamente quest'aspetto della trama rimane piuttosto laterale, e il lettore può continuare a divertirsi seguendo le vicissitudini del giovane carrista nazifolle o della procace guerriera in costume, anche se arrivati in fondo rimane il sapore di un romanzo che, per quanto buono, non mantiene fino in fondo quanto promesso.
A corredo de I senza tempo, per rimpolpare un volume altrimenti un po' scarno, una serie di racconti collegati per ambientazione e tematiche al romanzo. I racconti si lasciano leggere, ma appaiono nel complesso piuttosto prevedibili e scontati. Unica brillante eccezione All'inferno, Savoia! che chiude in maniera memorabile il lavoro di Alessandro Forlani, coniugando storia alternativa, sviluppo drammatico, omaggi agli amici e un inferno che più barocco di così non si può.

Ultima annotazione sull'edizione del volume che m'è capitato di leggere. Mondadori ha distribuito I senza-tempo in ebook senza DRM (e questo è lodevole) con qualche mese di ritardo rispetto all'edizione cartacea, senza fornire alcuna informazione preventiva sulla data di uscita dell'edizione digitale. Sono mesi che la questione "urania in ebook quando come dove e perché" è in attesa di una risoluzione, ad oggi tocca ancora navigare a vista, arrangiandosi per la ricerca degli ebook urania nei vari negozi on-line, senza alcuna informazione certa da parte dell'editore su date di uscita e disponibilità dei vari volumi. Ormai non mi auguro nemmeno più che la situazione possa cambiare, ma da lettore mi pare doveroso segnalare il disagio, che a causa di questa politica editoriale ho rinunciato a titoli che altrimenti avrei letto con curiosità.

25 marzo 2013

Letture: Jonathan Lethem, Michele Mari, Gianluca Morozzi

© giorgio raffaelli
In queste settimane lontane dal blog mi son reso conto di quanto fosse utile  - e piacevole! - avere una finestra aperta sul mondo reale da cui far uscire qualche pensierino sparso, per vederlo poi tornare modificato, elaborato, trasformato. Per non parlare poi della possibilità di affacciarsi a osservare un panorama in perenne mutamento, con qualche rassicurante costante e, ogni tanto, una variabile impazzita capace di sorprendere e stimolare la vita fuori e dentro la rete. Ritornare a postare qui dentro è una bella soddisfazione, ma non so se questo post costituirà un ritorno alle buone abitudini o se prima di leggere qualcosa di nuovo passeranno altre settimane. Io intanto ci provo, poi vedremo. Checché se ne dica viviamo in tempi interessanti e 'sta cosa è la nostra condanna e la nostra benedizione. Io mi limito a parlar di libri, ma voi, là fuori, non smettete di guardarvi attorno.

Jonathan Lethem - Non mi ami ancora
Rispetto agli ultimi romanzi di Jonathan Lethem Non mi ami ancora è un episodio minore, non fosse altro che per le sue dimensioni contenute, oltre che per il setting più limitato e un approccio che m'è parso più semplice e quotidiano alla narrazione rispetto alla densità metaletteraria di Chronic City o all'intensità emotiva raggiunta ne La fortezza della solitudine.
In Non mi ami ancora Lethem da spazio alla sua passione per rock e dintorni, oltre a ritornare sui temi fondanti la sua scrittura: arte e normalità, solitudine e meraviglia, disagio e integrazione.
Il percorso che compie Lucinda, bassista di un'anonima band alla ricerca dell'occasione giusta, tra l'arte che le dà da mangiare e la crisi sentimentale che la indirizza tra le braccia di uno sconosciuto interlocutore telefonico, sarà anche sintomatico del vuoto in cui si muovono gli under trenta più o meno attivi culturalmente negli States ma, banalità per banalità, a me è parso soprattutto esemplare della necessità di mantenere attive curiosità e passione per non essere divorati dall'omologazione circostante. Senza scomodare i massimi sistemi, gli aspetti migliori del romanzo sono lo sguardo credibile sul sottobosco in cui fermentano le pulsioni del rock indipendente americano e, dal punto di vista strettamente letterario, c'è l'immersione nell'immaginario erotico-sentimentale della protagonista che dimostra, come se ce ne fosse ancora bisogno, tutto il talento autoriale di Jonathan Lethem.
 Ho letto Non mi ami ancora a poco tempo di distanza dal Despero di Gianluca Morozzi (vedi sotto). Potrebbe essere esercizio interessante confrontare l'approccio opposto a temi simili dei due autori. Per l'americano l'anima rock che distingue la sua storia suona consapevole, fredda e consolidata, mentre invece per l'italiano ha il sapore inconfondibile della nostalgia, guidato com'è dalle emozioni primarie, da rabbia e consolazione, nel tentativo estremo di fermare il tempo. Del resto il primo  racconta il rock nella sua età matura (Stati Uniti, oggi) mentre il secondo è ancora fermo alla sua adolescenza, con tutti i vantaggi della passione e i difetti tipici dell'età.
Nel complesso non consiglierei Non mi ami ancora a chi già non conosce e apprezza Jonathan Lethem, ma io sono un fan, e come tale non ho potuto non gradire il romanzo.


Michele Mari - Tutto il ferro della torre Eiffel

Credo di non aver mai letto un libro italiano scritto altrettanto bene di Tutto il ferro della torre Eiffel di Michele Mari. Il romanzo di Mari è talmente perfetto che mi son chiesto più di una volta come ho fatto ad ignorare lo scrittore milanese fino ad oggi.
Ho scoperto Michele Mari grazie ai post appassionati del Grande Marziano, e non c'è nulla come le parole di un lettore felice per invogliare il passante curioso a infilarsi tra le pagine di un libro sconosciuto.
Tutto il ferro della torre Eiffel racconta le giornate parigine di Walter Benjamin alla vigilia della seconda guerra mondiale. Tra scrittori suicidi, nani malefici e inquietanti incontri all'ombra dei passages, Mari ricostruisce il mood di un'epoca alle soglie della catastrofe, dandone conto da erudito ma senza la supponenza del saccente, piuttosto con la passione dello studioso per la sua materia preferita.
Michele Mari infarcisce la narrazione di personaggi storici ed eventi reali, mescolandoli con l'invenzione fantastica e la supposizione logica, fissando il tutto con la forza della letteratura alta e ancorando il suo universo a una Parigi che per quanto fantasmatica e meravigliosa non perde mai, nemmeno per un attimo, la sua ferrosa solidità. La capacità di Mari di mantenere salda l'attenzione del lettore grazie a una scrittura funambolica e all'uso dei più vari registri narrativi, quella di sorprenderlo e commuoverlo con improvvisi squarci d'umanità e meraviglia e orrore, sono gli aspetti del romanzo più positivi, che bilanciano ampiamente il rischio che ho corso in più di un momento di ridurre tutta l'opera a uno straordinario esempio di bella scrittura ma in fondo piuttosto vacuo.
Alcune pagine del romanzo suonano in effetti quali meri esercizi di stile, perdonabili comunque per la qualità e l'onestà della scrittura. Ed è anche vero che se spesso tra le presenze evocate da Mari riecheggia lo spettro di Tyrone Slothrop, la densità della narrazione (intesa come complessità e quantità d'informazione per unità di testo) di Tutto il ferro della torre Eiffel non raggiunge mai quella di Thomas Pynchon, che mi pare in ogni caso il parente letterario più prossimo all'autore italiano, almeno tra gli scrittori che m'è capitato di incontrare.
Come si sarà forse intuito ho trovato la lettura del romanzo piuttosto impegnativa, ma anche se continuo a far fatica a cogliere il senso complessivo dell'opera (ogni suggerimento è benvenuto!) la lettura di Tutto il ferro della torre Eiffel è una di quelle che non si dimenticano facilmente.


Gianluca Morozzi - Despero

Sarà brutto da dire, che a me Despero è piaciuto, ma 'sto romanzo puzza di anni '90 da far quasi male, almeno per me, che condivido molte delle situazioni raccontate nel romanzo.
Non ho mai suonato in una band, e non sono nemmeno mai andato in tour, e nemmeno mi sono strutto anima e cuore per un amore impossibile, almeno non per tutta una vita. Ma lo sfondo su cui si muove Cristian Cabra detto Kabra è lo stesso delle mie giornate emiliane di quegli anni, con le settimane passate a perdere tempo con gli amici nell'attesa di una svolta, con le notti in giro per la provincia a inseguire il fantasma del rock'n'roll, con una realtà fuori con cui si fa fatica a entrare in sintonia.
Il maggior pregio di Despero è anche il suo unico limite: quel sapore nostalgico che suona così genuino e spontaneo, la freschezza del racconto che cavalca e supera i freni del cliché con cui per forza di cose è costretto a confrontarsi, che è poi il sogno di seconda mano di un'epopea rock romantica e disperata, trasferita di peso dagli spazi d'America alla provincia nostrana. Com'è già stato fatto notare, quel sogno c'ha colonizzato l'inconscio, col risultato che quando è reso in maniera così sfrontata e pura si è costretti ad amarlo, nonostante tutto.
Qualche anno fa Gianluca Morozzi ha dato un seguito a Despero smarcandosi dalla nostalgia che segnava il suo romanzo d'esordio per fondere la saga di Kabra con un universo fatto di supereroi e musica rock. Colui che gli dei vogliono distruggere chiude il cerchio cominciato con quella dedica che segna il suo esordio e ne determina la conclusione “A Peter Parker, amico d'infanzia, maestro di vita”.
Ho già parlato di Colui che gli dei vogliono distruggere qualche mese fa, qui non posso che rinnovare il consiglio: leggetelo, prima o dopo Despero, non fa differenza. Spero che entrambi vi piacciano quanto son piaciuti a me.

18 febbraio 2013

Come va

© giorgio raffaelli
Fine settimana senza rugby causa neve. Ne approfitto per scrivere due righe qui dentro, che è ormai un po' di tempo che non ci si sente. Non aspettatevi grandi cose, che questo post è come una pisciatina di cane, serve solo a marcare il territorio, a far sapere al mondo che sono ancora qua, che nonostante il silenzio delle ultime settimane tutto procede per il meglio.

Come va, dunque?
Va bene, molto bene. Come forse ricorderete ho cambiato lavoro, e con l'inizio di febbraio son partito con la nuova occupazione. Dopo un paio di settimane posso dire di esere soddisfatto, sia dal punto di vista umano, i nuovi colleghi son tutti bravi ragazzi, sia dal punto di vista professionale, che se erano anni che non mi mettevo in gioco i risultati mi paiono - almeno per ora - del tutto positivi.
L'unico aspetto negativo della nuova attività è che mi lascia davvero poco tempo per la rete. Credo sia inevitabile, almeno in questa fase iniziale, che le mie energie siano dedicate soprattutto alla scoperta di tutto quel che riguarda la mia nuova vita lavorativa. Spero solo di riuscire nel tempo a ricavare  qualche spazio anche per la mia vita on-line.

E a proposito di vita on-line, per non abbandonare del tutto questo spazio ho deciso di inaugurare su facebook una pagina dedicata al blog su cui compariranno, nel tempo, i vecchi post caricati a suo tempo qui dentro.
Nonostante sia convinto che facebook sia il male, non c'è niente di meglio di fb per il cazzeggio, la perdita di tempo a cervello spento (o quasi) e l'esposizione alla vita altrui. Facebook è un posto senza memoria, bloccato in un eterno presente, con un passato impraticabile e il futuro alle spalle, ma facebook è anche frequentato da un sacco di gente, e può sempre capitare il colpo di genio, il suggerimento inaspettato, la sorpresa inattesa.
E visto che al momento il mio tempo on-line si limita per lo più al cazzeggio serale, ho ben pensato di contribuirvi con quel che già avevo in sacchetta e ripercorrere la storia del blog dalle sue origini ad oggi. La pagina dell'Iguana Blog oggi si presenta così:


Rete e lavoro a parte, in queste settimane il mio tempo libero è trascorso tra incombenze familiari, il rugby dei ragazzi, che io per quest'anno credo salterò, qualche partita a ruzzle con l'ipad di Annalisa e - al solito - qualche lettura.
Visto che non so quando riuscirò a parlarne in maniera più approfondita, approfitto di 'sto post per ringraziare Elvezio per avermi consigliato la lettura di Limonov e Marco per quella di In Great Waters. Entrambi i volumi mi hanno tenuto ottima compagnia nelle prime settimane dell'anno. A queste letture ne son seguite altre. Ci son state delusioni e conferme, ma per ora nessun testo che mi abbia davvero entusiasmato. Ma spero di parlarne qui dentro, prima o poi.
Ci si sente presto!



03 febbraio 2013

Sì! Sì! Sì!

ITALIA - FRANCIA 23-18

Non ho mai visto l'Italia giocare così. È stato fantastico (durissimo, ma fantastico).



Bravi bravi bravi!

31 gennaio 2013

Antonio Caronia (1944-2013)

Dopo la morte di Riccardo Valla speravo davvero di non dover segnalare la scomparsa di un'altra di quelle persone che han significato davvero tanto nel mio percorso di lettore. Invece, improvvisa come sempre sono queste notizie, è arrivata oggi quella della morte di Antonio Caronia, spentosi ieri a Milano all'età di 69 anni.
Non ho mai conosciuto Caronia, ma i suoi testi hanno accompagnato molte mie letture. Oltre a JG Ballard, di cui era probabilmente il maggior esperto italiano (qui potete trovare un importante saggio dedicato a Ballard pubblicato da Carmilla in occasione della scomparsa dell'autore inglese), le sue parole hanno accompagnato molte delle mie esplorazioni cyberpunk (da Mirrorshades a Forbici Vince Carta Vince Pietra esordio italiano di Ian McDonald), senza considerare le innumerevoli traduzioni che ha firmato nel corso degli anni.
Credo che il lavoro di Antonio Caronia sia stato fondamentale per dare visibilità a molta della fantascienza più complessa e dirompente comparsa in Italia. Era uno dei pochi che se ne sia occupato in maniera seria e rigorosa. Speriamo non venga dimenticato.

28 gennaio 2013

Letture: La rabbia dentro, di Lui Tasini

Disclaimer: se i post dedicati alle mie letture non sono vere e proprie recensioni, beh… questo lo sarà ancora meno. Nelle righe che seguono tenterò di convincervi riguardo la bontà de La rabbia dentro e vi inviterò a leggerlo. 
La rabbia dentro è stato scritto da Lui Tasini ("la Lui" da qui in avanti). La Lui è un'amica e - lei lo sa bene - la situazione in cui m'ha cacciato è un pochino imbarazzante. Il motivo della presenza di questo disclaimer è semplice: pararmi il culo, che qua dentro non si fanno recensioni a richiesta e si cerca di mantenere uno standard il più alto possibile riguardo la qualità delle letture e delle annotazioni che le riguardano. 
Alla fine mi direte voi se ci sarò riuscito.

© giorgio raffaelli


Oh cazzo no, un altro libro sugli anni '70…
Questa è stata la prima reazione quando mi son trovato davanti La rabbia dentro.
Del resto quella reazione non è stato l'unico ostacolo a frapporsi tra il sottoscritto e il romanzo.

Era dicembre quando ho iniziato a veder su facebook, i post di un'amica che invitava i suoi contatti a leggere la sua ultima fatica letteraria.
Ho fatto finta di niente, che quando mi capita di incrociare un libro scritto da un amico le paranoie prendono il sopravvento sulla curiosità. Il fatto è che mi son ripromesso di annotare sul blog tutte le mie letture e dovessi incappare in un libro brutto, scritto da un amico, non saprei davvero che pesci pigliare.
(Intendiamoci: non è che credessi che La rabbia dentro fosse brutto a priori, che l'unico altro libro della Lui letto qualche anno fa mi piacque parecchio. È solo che da allora sono decisamente più consapevole dei danni che possono fare due righe scritte nel modo sbagliato.)
Ma ignorare la questione non è servito a molto (non serve mai…), che tempo qualche giorno la Lui mi ha scritto per chiedermi di leggere il suo libro (minacciandomi!) e, mannaggia a me, io alla Lui non so mica resistere (c'avete poco da sogghignare voi altri, che vi sareste arresi molto prima di me!).
Mi sono quindi rassegnato al mio destino di lettore a comando e una volta finito il libro che stavo leggendo (Zia Mame, piuttosto irritante, ma ne riparleremo), ho provveduto a caricare sul reader il file del romanzo e via.



La rabbia dentro è il racconto di un inverno di fine anni '70. La voce che accompagna il lettore è quella di Lidia, diciassettenne selvatica e introversa alle prese con la scuola, la politica, l'amore. Introversa ma tutt'altro che timida, solo un pochino insicura, semmai. Selvatica perché non saprei come meglio definire la necessità della protagonista di impuntarsi e cercare da sola il proprio sentiero, che quando c'hai una famiglia allo sbando, poche certezze e un nodo alla gola che fa fatica sciogliersi, non hai molto su cui contare, tranne quella rabbia che brucia e brucia e brucia.

Mettetevi nei miei panni, in un colpo solo abbiamo gli anni '70 con tutta la loro zavorra di politica e grigiori vari, una diciassettenne alla scoperta del mondo (l'amore, il sesso, i compiti in classe!) e l'umidità fredda e nebbiosa di una città di provincia. Dietro la copertina, piuttosto evocativa - la foto è sempre dell'autrice del romanzo -  c'è tutto quel che serve a farmi fuggire a gambe levate, che dai,  'sta roba non fa per me.
E invece no. Son partito per dovere, ma son bastate poche pagine per sentirmi a casa. Merito della scrittura della Lui, di com'è capace di chiamare le cose con una voce sua, personale, con quell'apparente ingenuità che è tutto tranne che innocente. Ma le qualità del testo vanno oltre il brio e lo stile della scrittura: all'indubbia personalità dell'autrice si aggiunge un ritmo che è, per quel che mi riguarda. la vera novità nella scrittura della Lui, e che conduce il lettore nelle varie anime del romanzo senza cali di tensione e curiosità; si passa dalle pene d'amore alla violenza familiare, dal calore della politica partecipata e discussa di quegli anni alle frustrazioni personali che segnano gli schieramenti.
In effetti se c'è un motivo per leggere questo romanzo sta nella sua capacità di coivolgerti nelle avventure sentimentali di una diciasettenne, per poi colpirti con una serie di istantanee e riflessioni che no, non te le aspetteresti proprio, visto il contesto.
Nella sua versione attuale (tra qualche tempo dovrebbe arrivare la versione 2.0 riveduta e corretta) il romanzo soffre ancora di qualche  imperfezione (non tutti i dettagli sono coerenti al periodo storico in cui è ambientato, anche se i problemi riguardano giusto tre nomi tre) e a volte qualche passaggio è piuttosto sbrigativo, ma nel complesso La rabbia dentro è un ottimo romanzo. E sono disposto a scommetterci una birra (o altro beveraggio a scelta) che potrebbe piacere al 90% dei frequentatori di 'sto blog.
La rabbia dentro è per ora disponibile solo su Amazon (questo il link), e io ci credo tanto da confermare che chiunque si presenti qui senza averlo apprezzato si becca una birra alla prima occasione. (Se invece doveste apprezzarlo forse la birra ve la offre la Lui!).
Buona lettura!

23 gennaio 2013

Visioni: Cloud Atlas


"Guarda mamma, senza mani!"
È assai probabile che le mamme dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer siano molto orgogliose dei rispettivi figliuoli. Noi invece, che non siamo parenti, abbiamo fatto parecchia fatica a sopportare l'approccio del trio alla realizzazione di quell'assemblaggio ipertrofico di parole e immagini che risponde al nome di Cloud Atlas.
Se è vero che non ci siamo annoiati, nonostante le tre ore e passa di permanenza in sala, è altrettanto vero che ci saremmo aspettati uno spettacolo decisamente più maturo e consapevole di quello che invece ci siamo ritrovati a vedere.

È difficile riassumere la quantità di dubbi e perplessità che si sono sommate procedendo nella visione. Il primo ostacolo al godimento del film son state le maschere, le smorfie e le boccacce cui tutti gli attori (tolti giusto un paio) son stati costretti a ricorrere in questo o quel ruolo. Vedere in un film con le ambizioni di Cloud Atlas attori ridotti a macchiette e personaggi che per come sono presentati hanno nel grottesco l'unica possibile chiave di lettura è stata la prima grossa delusione.

Ma forse l'esempio più evidente dell'insopportabile sboronaggine cinematografica che ha guidato la realizzazione di Cloud Atlas sta a monte, nel voler legare a forza di chiacchiere e metafisica d'accatto sei storie che da sole non avrebbero retto, non dico un film intero, ma nemmeno un cortometraggio decente.
L'elenco dei difetti e dei limiti delle singole vicende sarebbe troppo lungo e noioso, preferisco quindi segnalare quel poco di buono che val la pena di salvare. E qui c'è forse l'aspetto più interessante, visto almeno l'hype wachoskyano che circonda la pellicola: in un'ipotetico confronto tra gli autori del film, che si son divisi equamente la regia delle storie da raccontare, il buon Tom Tykwer batte tre a zero i Wachowski bros.
Li batte perché l'unica storia in grado di reggersi sulle proprie gambe, ad avere una coerenza e una profondità che le altre si sognano, è quella del musicista, che invece di svilupparsi, come succede alle altre, sul doppio binario della narrazione singola, lineare e consolatoria, con elementi che rieccheggiano nel resto della pellicola, è decisamente più ricca di spunti e suggestioni, oltre a legarsi in maniera solida e funzionale alla macrostoria che la comprende.
Tom Tykwer esce vincente dal confronto anche perché, quando gira una storia già vista e sentita un milione di volte (penso al thrillerino anni '70), la riesce a rendere sufficientemente appassionante e viva grazie alla quantità di dettagli e riferimenti che pescano dritti dritti dall'immaginario dell'epoca, sfruttando al meglio due facce come quella di Halle Berry e Keith David che in nessun altro episodio di Cloud Atlas risultano altrettanto credibili.
Come se la batosta non fosse già sufficiente, ci si mettono gli stessi Wachowski, con quello che a mio avviso è più clamoroso autogol del film, ovvero l'episodio fantascientifico ambientato a New Seul, che sembra un riassunto di Matrix girato da un dilettante orbo, ma con un sacco di soldi da buttar via.

Detto della schiacciante superiorità autoriale teutonica, rimane da affrontare il nodo della presunta complessità di Cloud Atlas. Raccontare sei diverse storie, sovrapporne lo sviluppo, farle interagire una con l'altra, è certo idea ambiziosa, capace di rendere la pellicola ben superiore alla somma delle sue singole parti. Benché nel film si riconosca un'unità narrativa coerente, la scelta di amalgamare le sei storie grazie sì al montaggio, ma soprattutto per mezzo dell'ammorbante ripetizione dei mantra tipici del Wachowski pensiero: siamo tutti connessi, il passato influenza il futuro che influenza il presente che influenza…, il karma e la reincarnazione, la cattiveria conservatrice del potere di turno e gli occhioni dolci dei rivoluzionari, ecc. ecc. ecc. rendono il risultato finale ben poco soddisfacente. C'è nel film questa sovrabbondanza di chiacchiere che nelle intenzioni degli autori dovrebbe forse guidare lo spettatore, ma che invece di dare profondità al progetto lo rendono piuttosto confuso, mescolando idee condivisibili (il refrain dello scontro con l'inalterabile "stato naturale" continuamente ribadito dalle elité dominanti di ogni epoca) con quel pateracchio di filosofie da supermercato, amore consolatorio e reincarnazione ideale (son stato l'unico che a forza di tatuaggi ritornanti a un certo punto ha pensato ai midiclorian?) che ormai il marchio di fabbrica del duo americano. Se non siamo usciti del tutto delusi dal cinema, lo si deve alla curiosità di vedere fin dove si sarebbero spinti gli autori, anche se poi, a mente fredda, c'è da considerare che probabilmente è il montaggio l'unico elemento che ci ha salvato dalla noia e dalla confusione.

Ultima nota su quello che è forse l'aspetto di Cloud Atlas che più mi ha lasciato perplesso. Conoscendo i precedenti dei fratelli Wachowski, qualche dubbio sulle capacità narrative o sulla pesantezza ideologia del film potevo anche aspettarmelo, ero però sicuro che sarei rimasto stupefatto almeno della gestione della messa in scena, soprattutto per quanto riguarda i momenti d'azione della pellicola.
Quello che invece mi ha colpito è la mancanza di ogni gradualità nel ritmo del film, che è dotato di due sole modalità: on-off. Le scene d'azione esplodono improvvise, quasi a sorpresa, per poi spegnersi subito dopo, con lunghi momenti dominati da panoramiche e chiacchiere, il cui ritmo è dettato unicamente dal montaggio incrociato delle sei storie che si sovrappongono. Le scene d'azione sembrano calibrate al secondo per mantenere desta l'attenzione dello spettatore e per distrarlo dall'eccesso di verbosità, più che per portare avanti una necessità narrativa. Soprattutto danno l'impressione, quasi tutte, di ovvio e già visto, nonché di piuttosto povero visivamente, il che è piuttosto singolare visti gli autori a capo del progetto. Il risultato finale è talmente scontato da far pensare che il budget programmato per la pellicola se ne sia andato per scenografie, costumi e panorami, e quando poi è arrivato il momento di girare e quindi post-produrre, si sia scelta la strada più sicura per evitare eccessi di spesa e minimizzare i rischi.

Anche se non ho alcuna informazione riguardo le vicissitudini produttive di Cloud Atlas, quel che è certo è che mi aspettavo un film diverso. Magari più complicato, ma anche più profondo e coinvolgente, Invece ci siamo ritrovati ad assistere a un enorme dispiegamento di mezzi, a una costruzione narrativa ottimamente congeniata, ma priva di qualsiasi spessore. Sono convinto che i fratelli Wachowski e Tom Tykwer c'abbiano messo quel che di meglio avevano da proporre, noi d'altra parte ci abbiamo investito qualche decina di euro e tre ore del nostro tempo. Visto com'è andata, credo di poter vantare qualche credito nei confronti degli autori.

21 gennaio 2013

Letture: Il castello di ghiaccio, di Tarjei Vesaas

© giorgio raffaelli
In fatto di libri credo ormai di aver capito cosa mi piace, ma cerco comunque di alimentare la curiosità, di battere nuovi territori, di provare sapori mai sentiti prima. Per fortuna ho qualche amico fidato capace di suggerire a ogni occasione valanghe di titoli, autori, letterature di cui non ho (quasi) mai sentito parlare prima.
In questo senso Tarjei Vesaas e il suo Il castello di ghiaccio sono un caso esemplare. Quando Marco mi ha suggerito la lettura del romanzo mi ero immaginato un'epopea fantastica ambientata nel grande nord, magari senza elfi e folletti e con qualche risvolto intimista, ma non certo la storia che ho poi effettivamente incontrato. Direte: informarsi prima, no? Certo, e poi, la sorpresa dove sta?
In effetti ho scoperto solo più tardi, a fine lettura, che lo scrittore norvegese è ritenuto uno dei più grandi autori scandinavi, e il suo romanzo una pietra miliare della letteratura di quelle latitudini. Ma al momento mai avrei pensato che Il castello di ghiaccio potesse rivelarsi una lettura tanto emozionante.

Le prime pagine del romanzo non fanno nulla per cancellare la mia prima impressione. In effetti ci sono tutti gli ingrediente base per sviluppare una storia pronta a battere le piste del fantastico (una bimba che cammina nella notte, al freddo, timorosa e risoluta, che si dirige solitaria verso una meta sconosciuta, senza nessun elemento per giudicare il quando, il dove, il perché). Ma poi tutto rientra nella normalità: la bimba va a casa di una compagna di classe, il buio è il normale inverno del grande nord, i timori sono quelli tipici dell'infanzia. È la scrittura di Tarjei Vesaas a rivelarsi tutto tranne che normale o, per meglio dire, è la modalità di gestione della vicenda ad essere piuttosto originale.

Il castello di ghiaccio è un romanzo di formazione, racconta il passaggio dall'infanzia all'età adulta di Siss, che dal confronto e dall'amicizia con la solitaria Unn uscirà trasformata in una persona diversa, più matura, certo, ma anche più pragmatica, senza il conforto (e la maledizione) dell'immaginazione a governarne scelte e atteggiamenti.
Al centro del romanzo ci sono un mistero e un dramma. Se il primo incombe irrisolto su tutta la vicenda, contribuendo non poco al clima cupo e angoscioso che sottende le vicissitudini della protagonista, il secondo splende della luce gelata del nord e illumina freddo e inesorabile il cammino che Siss si costringe a percorrere fino a una conclusione che risulta insieme catartica e inevitabile. Sullo sfondo la natura aliena dell'inverno norvegese, fatta di laghi ghiacciati e boschi tenebrosi, neve e oscurità, trasfigurata in uno spazio libero, luminoso di meraviglie e possibilità, dallo sguardo magico delle bambine che vi si perdono, e vi ritornano e ne vengono rapite, in un continuo riflesso del mondo che le circonda.
Il procedere della storia è fatto di silenzi, di tacite comprensioni, di libertà rubate e poi restituite, ed è stupefacente come si percepisca forte e distinta la voce dell'adolescenza che spinge nel corpo dei ragazzi per uscire e divorare vita, morte, amicizia, amore, fino a lasciare svuotata un'infanzia fino ad allora assoluta e trasformare gli individui in qualcos'altro, più consapevoli forse, ma anche più poveri e isolati.
Il castello di ghiaccio è un romanzo con ormai cinquant'anni sulle spalle, la prima edizione risale al 1963, eppure è straordinario come suoni tuttora vivo e attuale, nonostante il tempo e la distanza che separano la Norvegia di Tarjei Vesaas dal nostro panorama quotidiano. Ma non è forse questo il destino dei classici?

17 gennaio 2013

Visioni: Monsters

"È così diverso guardare l'America dal di fuori. Stare seduti qui fuori a guardare all'interno. Quando sarai a casa sarà facile dimenticare tutto questo. Domani ognuno tornerà alla propria vita, alle case perfette, ai quartieri eleganti e tutto quello che è successo non avrà alcuna importanza."

C'è un momento durante la visione di Monsters in cui ti rendi conto che il confine tra verità e intrattenimento è davvero sottile. Che le stesse battute sentite in qualsiasi altro contesto sarebbero parse le solite quattro parole retoriche per dare una patina di consapevolezza al vuoto in cui normalmente andrebbero a cadere.
Invece nel film di Gareth Edwards le parole messe in bocca al protagonista, in un momento di calma, di fronte all'enorme barriera che separa gli Stati Uniti dal Messico contaminato assumono un senso e un'importanza che sarebbero andati persi in bocca a un personaggio meno credibile, in una situazione che gestita altrimenti poteva decretare il collasso di una storia che in quel momento poteva virare al patetico, con baci e abbracci e consolazione masturbatoria finale.

A Monsters riesce invece quello che ai suoi parenti cinematografici più prossimi, penso a District 9 e a Cloverfield, sfugge proprio per eccesso di confidenza e mancanza d'umiltà.
Monsters vive nei limiti che District 9 ha voluto consapevolmente superare per cercare la via del blockbuster (niente spettacolari esplosioni o sparatorie infinite qui dentro) e per questo risulta decisamente più credibile e coerente del film sudafricano. Mentre le imperfezioni che in Cloverfield non erano altro che falsi d'autore, in questo film rappresentano bene tutta la voglia di farcela che autore e troupe devono aver speso per superare i limiti strutturali di un budget risicato.

Monsters è il miglior film di fantascienza visto da molto tempo a questa parte (insieme all'accoppiata sfornata da Duncan Jones negli anni scorsi) perché riesce a combinare in una struttura narrativa coerente ed emozionante una manciata di personaggi normali ritratti in situazioni straordinarie con un sacco di idee originali a complicare il tutto, offrendo per di più allo spettatore una molteplicità di livelli di visione, senza dimenticare nemmeno per un istante la meraviglia, che in un film di questo genere non dovrebbe mai mancare. Cosa chiedere di più?

Mantenendo sullo sfondo l'invasione aliena (ma sarà poi tale?) Monsters si permette di disquisire di etica dei media (il protagonista è un fotografo ambizioso e senza troppi scrupoli), di politiche militari (la guerra portata agli alieni costa più vittime civili dell'invasione stessa), di confini ed emigrazione e quindi di imperialismo ed ecologia. E lo fa senza un solo predicozzo morale, senza mai puntare il dito, semplicemente mostrando due persone qualsiasi alle prese con una situazione più grande di loro, mettendoli di fronte alla vita degli altri, obbligandoli a fare delle scelte e ad accettarne le conseguenze.

Ma Monsters è pur sempre un film di fantascienza ed è sul vedo / non-vedo dei mostri che si gioca la partita più difficile della pellicola.  È in questo ambito che si apprezza tutta l'abilità artigiana dei tecnici, che riescono a trasformare con un nonnulla (o quasi) il niente in magia visiva: la cartellonistica che accompagna il viaggio dei personaggi, quel che rimane dopo il passaggio dei mostri sul territorio, un paio di tentacoli sparsi e rumori diffusi, la notte che confonde ma che non sembra mai nemica. E poi le televisioni sempre accese con i mostri sullo sfondo, la meraviglia dei funghi nel buio, l'incontro finale, apoteosi e degna conclusione di un viaggio che sembrava avere tutt'altra destinazione.

Ultima nota sui due attori protagonisti, Scoot McNair nel ruolo del fotografo che deve prendersi cura e scortare al sicuro la figlia del suo editore, intepretata da Whitney Able.
La coppia funziona benissimo, sia per l'indubbio feeling che riescono ad instaurare tra loro e con il pubblico, sia per la qualità della sceneggiatura che ne guida il percorso con mano sicura, senza mai strafare, con un'impressione di naturalezza davvero invidiabile. Sono quei due personaggi ad accompagnare lo spettatore nel lungo viaggio verso casa, e se c'era il rischio che la loro storia soffocasse ogni altro aspetto della pellicola questo è stato scongiurato dall'abilità di Gareth Edwards, regista e autore di Monsters, nel mantenere sempre laterale la loro presenza, e di farli avvicinare solo quando le emozioni in ballo non riguardano i loro personaggi ma lo spettatore che ne segue la vicenda.

È questo equilibrio a rendere Monsters un film indimenticabile, tanto da permettergli di sfiorare la verità e uscirne ancora più forte, con una storia che non si disperde e anzi si rinforza ad ogni svolta, mantenendosi compatta e avvincente via via che si aggiungono nuovi elementi e nuove suggestioni, con i mostri nascosti nel buio, indifferenti, come noi non riusciamo più a essere.

(Per la visione di questo film devo un enorme grazie a Elvezio Sciallis e alla sua splendida recensione.)

15 gennaio 2013

Riccardo Valla (1942-2013)

© giorgio raffaelli
Riccardo Valla ci ha lasciati ieri, improvvisamente, e noi, qui, siamo rimasti sorpresi, spiazzati, increduli.

Riccardo Valla era una colonna portante della fantascienza e del fantastico in Italia, come curatore per l'Editrice Nord ha portato nel nostro paese alcuni dei romanzi più significativi della letteratura di genere di provenienza anglosassone, come traduttore ha ricevuto i più importanti riconoscimenti ma, soprattutto, s'è conquistato il rispetto dei lettori: trovare il suo nome nel colophon del dato volume equivale per molti di noi a un sigillo di qualità, che sappiamo bene quanto pressappochismo circondi spesso le edizioni italiane dei nostri libri preferiti.

L'ultima volta che ho scambiato qualche parola con Riccardo non è andata bene, con io che in pratica gli davo del vecchio arrogante e lui che mi tacciava di crassa incompetenza (i termini non erano questi, che lui è sempre stato troppo elegante per ridursi a battibeccare con un cialtrone qualsiasi e io che non mi sarei mai permesso di usare certi termini in sua presenza). Non sono orgoglioso di quell'ultimo scambio, ma son cose che lasciano il tempo che trovano quando poi ci pensa la vita (e la morte) a mettere tutto nella giusta prospettiva.

A parte le divergenze personali, Riccardo Valla era un ottimo interlocutore, che si trattasse di letteratura (ovviamente!) di musica, di scienza o di politica o di qualsiasi altro argomento stimolasse la sua curiosità, ed era una persona di cui ho sempre invidiato la profonda cultura e la facilità d'eloquio.
Riccardo Valla era generoso e disponibile, magari con quel pizzico di snobismo che lo caratterizzava, ma che passava sempre in secondo piano quando c'era da dare una mano, che si trattasse di vecchi amici o di niubbi al primo giro in rete.

E poi Riccardo era un tipo brillante, pronto allo scherzo e di ottima compagnia (la persona che emergeva dai suoi messaggi online era la stessa medesima anche dal vivo, e non si può dire di tutti). Mancherà moltissimo a me e a tutti coloro che lo hanno conosciuto di persona o per mezzo di tutti quei libri che ne manterranno vivo il ricordo.
Riposa in pace.

14 gennaio 2013

Si cambia

© giorgio raffaelli
Dopo quasi diciassette anni di lavoro nella stessa azienda, venerdì scorso ho rassegnato le dimissioni.
Si cambia, ed era ora.

Se me ne vado non è per chissà quale problema di rapporti umani e nemmeno per questioni economiche, che almeno in questo senso di certezze intorno non ce ne sono più da un pezzo. Me ne vado perché ho ricevuto una proposta di quelle che non si possono rifiutare.
Le aspettative sono alte, confortate dall'opinione di amici e conoscenti che ben conoscono la realtà che mi aspetta. Sono piuttosto ottimista, anche se so già che sarà difficile ritrovare un posto di lavoro come quello che lascio. Il rapporto con i colleghi e con i titolari non potrebbe infatti essere migliore. Nonostante la crisi degli ultimi anni, che ha significato cassa integrazione prima, contratto di solidarietà poi, con tutto il contorno di problematiche che una situazione simile porta con sé, la stima e il rispetto non sono mai venuti a mancare.
Ma quando dopo tanti anni di mestiere il lavoro diventa routine, quando le possibilità di crescita professionale si sono pressoché esaurite, quando ti rendi conto che è da un sacco di tempo che non impari qualcosa di nuovo, beh… quando sei messo così è davvero venuto il momento di guardarsi attorno e decidere cosa fare. Sperando in un colpo di fortuna, cercando nel frattempo di fare del proprio meglio per non farsi mancare stimoli e opportunità. Quando poi succede che, senza nemmeno guardarsi attorno in cerca di un'alternativa, è l'alternativa stessa a venirti a cercare, beh… non c'è nemmeno bisogno di stare troppo a pensarci su.

Non so come il nuovo lavoro influirà sulla gestione del blog. È assai probabile che la mia presenza on-line subisca un inevitabile ridimensionamento, almeno fino a quando il periodo di assestamento lavorativo non raggiungerà un equilibrio e riuscirò a capire quante energie mi rimarranno per la rete. Di certo non ho nessuna intenzione di mollare, che a questo spazio di sono affezionato, e uno sfogo per le mie menate devo pure trovarlo. Per ora, nell'immediato, ovvero nelle prossime settimane, cercherò di azzerare il gap con l'arretrato, fatto di post già previsti e programmati ma non ancora scritti.
Poi si vedrà.

07 gennaio 2013

Letture: Eudeamon, di Erika Moak

© giorgio raffaelli
Un libro di fantascienza relativamente recente (il romanzo è del 2009) portato in Italia, tradotto e distribuito in libreria da una piccola casa editrice che non ha mai pubblicato letteratura di genere? Siamo sicuri che sia tutto vero e che non sia solo immaginazione? Quand'è capitato l'ultima volta?
Vista la peculiarità del romanzo, la curiosità di leggere Eudeamon, libro d'esordio di Erika Moak, è cresciuta parecchio nel corso del tempo, alimentata nel frattempo da recensioni mediamente positive dalle fonti più disparate.

Eudeamon è costruito come il più classico romanzo di fantascienza sociale anni '50: un'idea forte su cui ruota ogni aspetto della storia, uno sviluppo lineare della vicenda, uno stile piano e privo di complicazioni. Quel che allontana Eudeamon dall'atmosfera d'antan sono l'attenzione alla sessualità dei personaggi, che dona una patina di blando erotismo alla vicenda, e l'incrocio tra realtà virtuale e solipsismo sfrenato che costituisce il motivo d'interesse del romanzo.
Alla base di Eudeamon c'è l'ipotesi che la soluzione migliore per combattere il crimine sia dotare ogni detenuto di una prigione individuale che al contempo lo isoli e lo renda ben riconoscibile, e lasciarlo quindi libero di vagare per la città. Questa custodia singolare è una tuta di latex nero ultratecnologica, che impedisce di fatto ogni comunicazione, obbliga i prigionieri a rituali umilianti e filtra ogni possibilità di contatto con l'esterno, riducendo ogni impulso sensoriale all'ombra di se stesso. La protagonista, Katrina Nichols, giovane giornalista d'assalto, decide di infilarsi in incognito in una di queste tute per denunciare la disumanità di questa pratica punitiva. Da queste premesse si sviluppa una storia che indaga più sulle conseguenze individuali della vita all'interno della tuta che sulle ricadute sociali che tale procedura penale potrebbe comportare.

Eudeamon pone al centro della narrazione le idee che abbiamo riguardo alla realizzazione personale, a sesso e amore, a realtà virtuale e felicità personale, rendendole inestricabili dalla vicenda personale della sua protagonista e discutendole con lei, man mano che la sua situazione evolve nel corso del romanzo. Se questo è indubbiamente il motivo d'interesse del testo, che dimostra una certa originalità nel punto di vista e nell'attenzione che dedica agli aspetti quotidiani di un'esistenza invero diversa, i suoi limiti sono riconducibili allo svolgimento e alla gestione dell'intera vicenda, che soffrono di qualche incertezza e parecchia monotonia.
Per quanto discutibile sia la risposta della protagonista e, immagino, dell'autrice, alla situazione di privazione sensoriale che caratterizza il romanzo - non so cosa ne pensiate voi, ma il solipsismo creativo non può essere, almeno dal mio punto di vista, la risposta ai malanni del mondo - il difetto di Eudeamon è un altro. Per seguire e appassionarsi alla storia di Katrina tocca accontentarsi, che la scrittura di Erika Moak è troppo piatta e incolore per trasformare la lettura del romanzo in un'esperienza soddisfacente. Se lo stile non rimane particolarmente impresso, lo stesso si può dire di personaggi e ambientazione. Se è vero che il ritratto della giornalista protagonista è credibile e la sua personalità sufficientemente approfondita, tutti i comprimari si riducono a comparse buone per la scena o utili per evidenziare il momento particolare, ma subito dimenticabili; idem per lo sfondo, sia ambientale che sociale, su cui si colloca la vicenda, che più ci si inoltra nella storia più anonimo appare, facendo perdere profondità e prospettiva a tutta l'azione.

Visti i difetti, è davvero curioso che un libro simile sia riuscito ad avere addirittura un'edizione italiana, tanto da far nascere più di un sospetto sulla sua effettiva provenienza. Ma teniamo per noi i dubbi riguardanti origine e identità della sua autrice, che tutto sommato il libro si lascia leggere, e diamo credito a Zero91 per aver osato pubblicare un romanzo di fantascienza qui, in Italia. Speriamo solo che le prossime scelte fantascientifiche dell'editoria nostrana puntino su nomi e opere che godano già di un minimo di credito nella loro edizione originale, che Eudeamon m'è parso un po' troppo acerbo per fare da apripista a un intero genere letterario.

31 dicembre 2012

Auguri & numeri & classifiche

© giorgio raffaelli
Consueto post di fine anno, per fare gli auguri agli amici, dare un po' i numeri sulle letture degli ultimi 12 mesi e proporre quelle che per me sono state le migliori del 2012.

Nell'anno appena trascorso ho letto 38 volumi, di cui 34 di narrativa. Rispetto agli anni scorsi il numero è calato di un 10-20 %, il che probabilmente significa che ho avuto di meglio da fare, che son stato altrimenti occupato o che i libri che ho letto non mi hanno entusiasmato tanto quanto quelli letti negli anni precedenti (se un libro mi lascia entusiasta mi vien voglia di leggerne subito un altro e un altro e un altro…).
Tolti i volumi antologici (2 Urania e un Robot) in cui compaiono autori di ambo sessi, ho letto 6 romanzi scritti da fanciulle 29 libri scritti da maschietti.
La divisione per area linguistica vede il dominio degli autori anglosassoni (21 libri), seguiti dagli italiani (9), quindi, in ordine sparso tedeschi (1), svedesi (1), giapponesi (1), norvegesi (1), indiani (1), russi (1) e francesi (1).

Anche quest'anno la fantascienza ha occupato buona parte delle mie letture (il 45%, ma se ci aggiungamo il fantasy e l'horror arriviamo al 55%), pur senza dominare l'elenco.
La qualità dei libri letti è stata mediamente buona, che l'esperienza aiuta a evitare le ciofeche più evidenti. Le sorprese positive hanno nettamente superato quelle negative anche quando ho provato autori mai letti prima, e di questo devo essere grato agli amici che mi hanno ben consigliato.

Se devo fare un elenco breve delle migliori letture dell'anno, beh… per la letteratura di genere vanno sul podio Arno Schmidt, Charlie Stross e i fratelli Arkadij e Boris Strugatskij, che strappano il terzo posto a Jon Courtenay GrimwoodJo Walton e Evgénij Ivànovic Zamjatin che si piazzano quarti ad ex-aequo.
Per quanto riguarda il mainstream, la lotta per il podio è assai più ristretta. Io ci piazzerei nuovamente Arno Schmidt che il suo Specchi Neri può stare agilmente in ambedue le classifiche, insieme a Amitav Ghosh e Murakami Haruki con quest'ultimo a meritarsi il primo posto.

Le più belle sorprese dell'anno sono arrivate dal lontano passato (mi riferisco a Stella Benson e al suo Living Alone) e dalla vicina Bologna: Gianluca Morozzi è l'unico autore di qui quest'anno ho letto due romanzi, qualcosa vorrà pur dire…

Anche stavolta non sono riuscito ad annotare per tempo sul blog tutte le letture dell'anno. Aspettatevi dunque per le prossime settimane qualche nota sui libri di Erika Moak, Vesaas Tarjei, Jonathan Lethem, Michele Mari, Alessandro Forlani, Roland Barthes, Tom Waits e Patrick Dennis.

Se i libri li abbiamo sistemati, la tradizione vorrebbe che citassi qualche film, ma credo che per quest'anno passerò, che se non ne ho parlato durante gli scorsi 12 mesi è evidente che quelli che mi son rimasti impressi son davvero pochi. Grazie a questi (pochi) film con l'inizio del 2013 un paio di post a tema cinematografico arriveranno però di certo, uno dedicato a Ben Affleck, un altro a Monsters (grazie Elvezio!): sebbene la visione di quest'ultima pellicola risalga solo a poche settimane fa, il film di Gareth Edwards si becca il titolo di miglior film di fantascienza visto nel 2012.

Arrivati a fine post rimane giusto il tempo per gli auguri. Visto com'è andato questo 2012 direi che ci sono buone possibilità che il 2013 sia decisamente meglio. Io ve lo auguro di cuore, come vi auguro di godervi al massimo ogni giorno dei prossimi dodici mesi.
Buon anno!

(Le classifiche degli anni scorsi le trovate qui: 2011, 2010, 2009, 2008, 2007, 2006, 2005, 2004, 2003.)


27 dicembre 2012

Visioni: Eva

Il blog del Grande Marziano è ormai da tempo un punto riferimento fisso nei miei giri per la rete. Tra le molte qualità di quelle pagine ci sono le appassionate recensioni di romanzi e film che riescono spesso a spingermi verso determinati volumi o visioni. È successo per Michele Mari che, se non lo avessi conosciuto sulle pagine marziane, non avrei mai letto (e ne riparleremo prossimamente), è successo con Eva, film di fantascienza spagnola, esordio del regista Kike Maíllo sul grande schermo, uscito l'anno scorso e passato invisibile sotto il mio radar.

Se devo al Grande Marziano la scoperta del film, non significa però che condivida anche il suo giudizio sulla pellicola.
Eva parte splendidamente, con un'ambientazione invernale che preannuncia il tono freddo della narrazione, con un'ottima CGI che rimane presenza discreta per tutto il film, con attori convincenti e un plot che si preannuncia interessante. Purtroppo quel che di buono il film lascia presagire nei primi minuti viene disperso in uno sviluppo della storia che si allontana dal centro fantascientifico della pellicola per dirigersi verso territori piuttosto diversi, farciti di dialoghi enfatici e situazioni piuttosto stucchevoli.

A questo punto un accenno alla trama diventa indispensabile: Alex brillante programmatore di robot, torna dopo dieci anni all'istituto cibernetico che lo ha visto diventare uno dei maggiori esperti nel settore. Torna per tentare di dare un'anima emozionale al progetto di un bambino-robot in lavorazione all'istituto stesso. Per farlo ha bisogno di un modello umano, e chi meglio di Eva, figlia di suo fratello e della donna per cui ha deciso di fuggire dieci anni prima?
Su questa premessa, che fonde Blade Runner al melodramma, si dipana una storia che nei riferimenti fantascientifici ha il cuore e in quelli sentimentali i punti deboli. Gli esperimenti di Alex con il robot, il suo rapporto con Eva, il lavoro con il software di sviluppo (una meraviglia gli effetti speciali che ne permettono visualizzazione e interazione), le implicazioni morali e filosofiche del progetto appena accennate in un sottotesto mai ingombrante, il tocco delizioso apportato dal robot maggiordomo e infine il gatto: in tutti questi elementi soprendenti e ottimamente gestiti si riconosce un occhio attento e appassionato alla fantascienza più interessante. Spiace quindi notare come questi aspetti vengano messi in disparte per buona parte del film dall'ingombrante racconto del triangolo amoroso tra Alex, suo fratello e Lana, amata dal primo, sposata al secondo.
La componente sentimentale del film risulta a tratti quasi intollerabile per la pesantezza di dialoghi e banalità delle situazioni, soprattutto se messa a confronto con la ricchezza delle suggestioni che il lavoro di Alex con Eva e i robot lascia intravedere. E se alla fine il fuoco del film torna fortunatamente su quest'aspetto, regalando un finale intenso ed emozionante, la pazienza dello spettatore, messa a dura prova dalla parte centrale del film, fatica un po' ad accontentarsi.

Al termine della visione rimane la soddisfazione di vedere un film di fantascienza che cerca di avvincere lo spettatore con strumenti e percorsi diversi da quelli dell'azione a tutti i costi a cui i blockbuster hollywoodiani ci hanno ormai assuefatto, ma che dimostra i propri limiti proprio nell'incapacità (analoga a quella dei succitati blockbuster) nel mantenere attenzione, profondità e coerenza su un soggetto complesso come quello messo al centro del progetto. Parlare di robot umanoidi e di intelligenza artificale, e quindi di doppio e identità, come Eva tenta di fare, è certamente complesso, ma rimane il sospetto che nel film questi argomenti siano stati emarginati in favore del solito plot sentimentale anche per sviare l'atttenzione dal complesso di dettagli incoerenti e incredibili che costellano la vicenda (il fatto che siano ben quattro gli sceneggiatori che han messo mano alla storia potrebbe essere significativo dei problemi che Eva deve aver avuto in fase di scrittura).
In conclusione tocca accontentarsi, che Eva rimane impresso più per l'occasione sfumata che per i meriti della storia. E sperare che da qualche parte ci sia un autore capace di gestire fantascienza, sentimenti e realtà con mano sicura e senza i tentennamenti che hanno messo in difficoltà la creatura di Kike Maíllo. Un autore simile credo di averlo incontrato, ma ne riparliamo in un prossimo post.

21 dicembre 2012

Visioni: Zombieland

Qualche tempo fa (un sacco di tempo fa!) si chiacchierava, nei commenti a questo post, di film orrorifici e divertenti. A un certo punto la discussione ha minacciato di deragliare a causa di un film  su cui le opinioni tendevano a divergere piuttosto nettamente.
Il film in questione era Zombieland e all'epoca mi ripromisi di guardarlo per farmene una mia, di opinione. É passato un po' di tempo ma io non dimentico. E ora, finalmente, posso star qui a disquisire in piena coscienza del film in questione.
Attenzione però. Farò affermazioni molto forti. Se siete di cuore debole astenetevi dal proseguire.

Prima affermazione forte: a me Zombieland è piaciuto!
Seconda affermazione forte: l'abbiamo visto in famiglia e ci siamo tutti molto divertiti!
Terza affermazione forte: vedere Zuckenberg inseguito da una marea di zombie è stato un bel vedere.

Ok. torniamo con i piedi per terra.

Non so quali siano i motivi per cui parte dei miei visitatori non ha gradito il film (i commenti in questione non erano particolarmente esplicativi), a me è piaciuto perché Zombieland m'è parso essere una conflagrazione di cliché (gli zombi ovviamente, e poi un Woody Harrelson che più Woody Harrelson di così non si può, per proseguire con le fanciulle dark, il nerd, le regole, e potrei andare a vanti ad libitum) che se ne esce dall'esplosione di già visto/sentito come una creatura comunque divertente, sufficientemente intelligente e mai spocchiosa, nonostante strizzate d'occhio metacinematografiche, riprese storte e rallenty a gogò (anzi, funziona proprio grazie a questi fattori, che sono accessori gustosi, ma non sono mai il centro né della scena, né della storia).
Zombieland ha gli stessi pregi di Shaun of the Dead declinati però in salsa teen americana, piuttosto che in versione tepd (trentenni europei pseudodepressi) ed è forse questo il fattore che riduce (o annulla) il godimento per lo spettatore figo italiano medio, quello consapevole di tutta la storia zombie dell'universo, ma magari poco avezzo alle rimescolature pop di cui è farcita la pellicola.
Zombieland è una commedia: gli zombie sono veri, sono vivi (si fa per dire), e fanno male, ma il film - ta-dan! - finisce bene. Magari è questo che non va giù ai cultori dell'ovvove che, o son troppo vecchi per vedere 'sti film da fanciulli, o lo hanno guardato con indosso il paio sbagliato di occhiali.
(Mi sorge il dubbbio che la questione si possa riassumere nelle differenze che ci sono tra ambientare un film con gli zombi in un centro commerciale e girarlo in un luna park - o in un pub, se è per questo.)

Ah… dimenticavo Bill Murray.
Bill Murray è spettacolare, e riempie gli unici momenti davvero idioti del film con una presenza che in un colpo solo smonta la grandeur di Hollywood e l'immagine che qualcuno potrebbe essersi fatto di lui dopo quel paio di film seri cui ha prestato il suo innegabile talento. Esemplare in quest'ottica la conclusione della sua comparsata.

Insomma, su, detrattori di Zombieland, fatevi avanti. Vi aspetto con la doppietta carica!

19 dicembre 2012

Letture: Ghosh, Tonani, Grimwood, Year's Best

© giorgio raffaelli
Mare di papaveri, di Amitav Ghosh
Erano anni che non leggevo un libro come Mare di papaveri. Un romanzo con l'ambizione di ricreare la realtà ad uso e consumo della Storia. Un racconto in cui già la scelta della lingua (della narrazione, dei personaggi) plurale, straniera, imbastardita, sporca e colorata, narra di mondi diversi che si scontrano, mescolano, separano. Questi molteplici mondi sono quelli dell'India dell'ottocento, che Amitav Ghosh ritrae in una storia ricchissima di suggestioni, avventurosa, appassionante, meravigliosa.
Erano anni che non leggevo un romanzone simile, forse l'esempio più prossimo nella mia esperienza è La vera storia del pirata Long John Silver, che certo, è parecchio diverso da Mare di papaveri, ma che però m'è tornato in mente un po' per lo sfondo marinaro, ma soprattutto per il dettaglio storico, la passione della scrittura e l'avventura che permea ogni pagina.
Erano anni che non leggevo Amitav Ghosh. Dopo il folgorante Il Cromosoma Calcutta e il meraviglioso Il cerchio della ragione avevo perso di vista l'autore indiano. Sapere che Mare di papaveri è il primo volume di una trilogia, che nelle intenzioni dell'autore dovrebbe completarsi nel prossimo futuro, è un ottimo motivo per tenerlo d'occhio, sperando nella puntualità delle prossime uscite.


Infected Files, di Dario Tonani
Infected Files raccoglie il meglio della produzione breve di Dario Tonani, ed è un ottimo campionario dei temi e delle visioni che caratterizzano la fantascienza dell'autore milanese. Dall'ossessione per la macchina, all'angoscia tecnologia, dalle tinte ipersature dei suoi panorami urbani, alla distruzione del corpo (trasformato, mutilato, ferito e riciclato), la tavolozza fantascientifica di Dario Tonani ha tutti i colori per avvincere e irretire il lettore.
Nei racconti del volume è evidente come ciò che all'autore riesce meglio sono la costruzione della scena, il colpo a effetto, lo splendore del dettaglio meraviglioso (per quanto spaventoso possa essere) su uno sfondo opaco, squallido e terminale. Quel che invece ho avvertito come un limite è l'incapacità di andar oltre la superficie immediata delle cose per suscitare nel lettore la consapevolezza di una complessità che invece sfugge, relegata in un angolo dal clamore delle esplosioni o da quello dei sentimenti (sempre straripanti in queste storie). Dario Tonani possiede un talento innegabile nel dar corpo scritto alle sue visioni, che affascinano come raramente accade nei territori della fantascienza nostrana. Pazienza dunque se nelle sue storie non riesco a percepire qualcosa di più dello sbarluccicare dei primi piani sullo sfondo della desolazione circostante.
Nota finale sulla scelta dei racconti presenti nel volume: ho trovato piuttosto inutili quelli relativi alla Milano infect@, mentre ho sentito la mancanza di un racconto come L’uomo dei pupazzi di schiuma che credo sia, con Le polverose conchiglie del mattino, tra le cose migliori Dario Tonani abbia scritto.


Stamping Butterflies, di Jon Courtenay Grimwood
Dopo averlo scoperto con la trilogia arabesca non vedevo l'ora di leggere un nuovo romanzo di Jon Courtenay GrimwoodStamping Butterflies non delude le aspettative, tornando ancora una volta in Nordafrica (questa volta siamo a Marrakech, Marocco), per raccontare una storia che spazia dagli anni '70 dello scorso secolo fino a un futuro talmente estremo da diventare fantastico. Nel mezzo una manciata di personaggi segnati dal dolore, vittime di forze sui cui non hanno alcun controllo, che non possono far altro che resistere strenuamente fino alla catastrofe finale e a nuovo inizio, che non cancella nessuna delle tragedie della storia, ma che offre un qualche minimo barlume di speranza.
Jon Courtenay Grimwood riesce a essere spietato e commovente, con occhio attento all'umanità invisibile che ci circonda e una grandissima abilità nel calibrare il passo di un racconto sempre sospeso tra universi apparentemente inconciliabili (il Marocco anni '70, il presente del romanzo e l'insieme dei mondi dominati da un imperatore cinese dell'estremo futuro), senza perdere l'attenzione del lettore e il senso di una storia sempre in bilico tra meraviglia e orrore.
Stamping Butterflies è un gioco di equilibri pressoché perfetti, dove il rischio di cadere nel patetico, se non nel ridicolo, si sfiora ad ogni passo, ma che grazie all'attenzione di Grimwood per il dettaglio e a una sensibilità non comune, si regge straordinariamente in piedi a ogni ulteriore rivelazione della trama, tanto da riuscire a rendere credibile e sensato anche quel che fino a poche pagine prima credevi impossibile.


Graffiti nella biblioteca di Babele, a cura di David G. Hartwell & Kathryn Cramer
La raccolta del meglio dell'anno pubblicata da Urania l'estate scorsa presentava al pubblico italiano il volume dedicato al 2010, saltando quindi due anni (l'ultimo millemondi che presentava il Best of curato da Hartwell & Cramer riguardava i migliori racconti del 2007), per mettersi in pari con l'edizione americana dell'antologia. Non so quanto l'avvcinamento temporale abbia contribuito, ma ho trovato che questa raccolta presentasse mediamente storie più interessanti di quelle delle annate precedenti.
Come sempre accade in queste raccolte antologiche, anche in questo volume ci sono storie che ho sentito più vicine e altre che non sono riuscito ad apprezzare quanto sembra meritassero. Tra i ventuno racconti ce ne sono un paio che da soli valgono il prezzo del Millemondi. Sono Dalla lontana Cilenia di Karl Schroeder, in cui le speculazioni sull'evoluzione di comunità virtuali transnazionali autonome si sviluppa sulla base di una doppia indagine spionistica e personale, e Il ragazzo di Jackie, di Steven Popkes, racconto in cui storia di formazione e riflessioni su intelligenza non umana si fondono con sensibilità a un solido per quanto tradizionale scenario post apocalittico.
Se i due racconti menzionati spiccano sugli altri non vanno comunque dimenticati i contributi di autori affermati come Haldeman o Swanwick che percorrono in maniera molto soddisfacente la via dei classici, o quelli di nomi a me sconosciuti come Vandana Singh, Sean Mcmullen e Paul Park che innestano con buoni risultati nuove suggestioni a temi già ampiamente percorsi.
Nel complesso Graffiti nella biblioteca di Babele s'è rivelata un'ottima lettura, di una buona spanna superiore alla media dei volumi analoghi degli  ultimi anni.