25 febbraio 2010

Contro il giorno


Picture by Iguana Jo.
"I fought the Law
and the Law Won"

Thomas Pynchon è uno scrittore alquanto complicato. Per questo motivo riassumere in un post le innumerevoli suggestioni che la lettura di Contro il giorno mi ha regalato è forse la cosa più difficile io mi sia mai trovato a fare per questo blog.
C'ho messo un po' di tempo, che forse era meglio trascorressi altrimenti. Ma ci tenevo, che nonostante abbia impiegato più di due mesi per terminarne la lettura, 'sto romanzone mi ha davvero appassionato.

La prima cosa da sottolineare è che Contro il giorno è il primo romanzo di Thomas Pynchon tra le cui pagine io mi sia sentito completamente a mio agio. Nonostante la complessità della scrittura, la profondità indescrivibile (non è una figura retorica!) del dettaglio e l'esuberanza della trama, Contro il giorno è un romanzo accogliente che non cerca in alcun modi di mettere in difficoltà il lettore (mi era successo con L'arcobaleno della gravità) e che non è nemmeno troppo pesante e ossessivo come mi era parso Vineland.
Paradossalmente (e se lo dico è perché sempre di Pynchon stiamo parlando, e di un tomo di 1136 pagine) Contro il giorno è un romanzo leggero, che parte come un romanzo d'avventure ottocentesco, si trasforma in una saga western, per poi diventare il romanzo definitivo del XX secolo, con il suo mix incredibile di fantascienza e paranoia, di famiglia e sentimenti, di individui e società segrete e guerre sotterranee.
Ma Contro il giorno è tutto questo e anche di più: è una guida dettagliata alla rivoluzione (sociale, scientifica, personale, chi più ne ha più ne metta…), è un manuale per la liberazione dell'animo oppresso, un sussidiario minimo per tour operator dell'apocalisse. Soprattutto Contro il giorno è un inno all'anarchia, all'etica politica e alla morale anarchica, alla sua testa dura e incosciente, che nonostante le innumerevoli sconfitte costringe a rialzarsi, leccarsi le ferite e di nuovo vivere e lottare e godere.

Al centro del romanzo, a costituirne il nucleo pulsante, troviamo la famiglia Traverse, che partendo da un destino apparentemente segnato tra le montagne e le miniere del Colorado, si ritroverà sparsa per il mondo a percorrere quello che al lettore appare come l'infinito spettro delle possibilità: incontrandosi, perdendosi, tradendosi e rimanendo fedeli fino all'ultimo alla memoria della loro origine. Ma i quattro fratelli Traverse non sono i soli ad animare il romanzo. Tra le sue pagine si muovono decine di personaggi (se volete un consiglio, segnateveli man mano che li incontrate, potreste trovarlo utile per non perdere il filo) poco inclini alla sopravvivenza personale (quasi tutti), perennemente sull'orlo del baratro (ognuno di loro), tutti impegnati in una battaglia interminabile per liberarsi dal peso dei loro padri cercando nel frattempo di vivere al meglio il tempo che gli resta, lottando una guerra persa in partenza contro il giorno, contro il tempo, contro il potere, contro la morte.
I personaggi di Pynchon sono incapaci di stare fermi, il loro è un movimento entropico inarrestabile, che li porta dal Colorado alla Siberia, da Gottinga a Londra a Venezia a Parigi, dai deserti dell'Asia centrale al Messico infuocato, da Chicago ai Balcani. E ognuno di questi luoghi diventa vivo e vero più di quanto avrei mai immaginato fosse possibile. Insieme agli spazi fisici che fanno da sfondo all'azione è difficile non trovare assolutamente credibili anche le invenzioni più immaginifiche che costellano Contro il giorno: se non dubitiamo dell'evento di Tunguska come possiamo non credere al tunnel che attraversa il pianeta da un polo all'altro? Se del genio di Tesla sono pieni i testi più disparati, è difficile avere qualche dimestichezza con termini come quaternioni o vettoristi, come inestricabili sono realtà e fantasia quando entrano in gioco i VATI, la ricerca di Shambala e compagnia esoterica assortita. Ma allora dove situare il confine tra la Storia (delle lotte operaie americane, delle rivoluzioni messicane, dei dibattiti scientifici ottocenteschi) e l'invenzione romanzesca (il viaggio nel tempo, le meraviglie elettriche, il carico inquietante di quella nave che risale la corrente…)?
Di nuovo tocca tirare in ballo l'anarchia, compositiva questa volta, di cui Pynchon fa sfoggio, tanto che nel corso della lettura è impossibile rimanere legati a un codice, a un genere, a una regola, che non sia quella della creatività, insieme sfrenata e rigorosa, e della compassione che trascina il romanzo.

Il simbolo dell'intreccio tra Storia e romanzo sono senza dubbio i Compari del Caos, incredibile compagine di giovani aeronauti, protagonisti di mille avventure da romanzo d'appendice (tutte consultabili nelle biblioteche più fornite), che da entità fantastica al servizio di qualche misteriosa agenzia governativa si emancipano da irrealtà e potere per viaggiare libera nei cieli di una Terra terribilmente familiare.
Pynchon rende reale, realissimo, il viaggio meraviglioso dei Compari del Caos e trasforma invece nel più pazzesco romanzo d'avventure le vicissitudini della famiglia Traverse a spasso per il mondo. Usa tutte le chiavi del mazzo narrativo per creare un'opera totale in cui l'immaginazione si mescola con la storia, il dramma con la commedia, il tragico con il comico, la scienza con il pop, la politica con la geografia. Uno spazio da cui sono banditi i sogni, in cui personaggi sono troppo occupati a vivere e pensare, a calcolare e ricercare, a viaggiare e sopravvivere per permettersi qualche illusione sul destino che li attende.
Dalla mistica della dinamite a Shambala, dai viaggi nel tempo (ehi, il futuro non offre molte speranze!) alla fuga nell'aetere, dalla matematica estrema all'esoterismo, dalle macchine di Tesla alla rivoluzione, la fine è certa, ma lunga la strada c'è di che divertirsi, cercando verità, giustizia e amore.

In chiusura è doveroso dare il giusto riconoscimento a Massimo Bocchiola, che di Contro il giorno è il traduttore italiano. Non oso immaginare la fatica che deve comportare tradurre un autore come Thomas Pynchon, ma da quel che ho letto direi che ha fatto davvero un ottimo lavoro.

17 febbraio 2010

Non c'è più il futuro di una volta.


Picture by Don Solo.
OK. a quanto pare il film di maggior successo in tutta la storia del mondo è un film di fantascienza.
A questa constatazione ne dovrebbe seguire logicamente che la fantascienza sia qualcosa che permea diffusamente la cultura popolare. Un ulteriore passettino e dovremmo arrivare a concludere che essendo la fantascienza un genere eminentemente letterario, con tutti gli eventuali sviluppi multimediali che seguono a cascata, tale genere dovrebbe ritrovarsi ottimamente rappresentato anche tra gli scaffali. Bene. Fatevi un giro in libreria e poi tornate qua. Bella la logica, eh?

Come? No, non preoccupatevi, non ho intenzione di ripartire con l'ennesima filippica sul negletto destino della fantascienza libraria. Tanto, a che servirebbe?
Mi piacerebbe piuttosto provare a capire come mai se da un lato la fantascienza trionfa incontrastata al botteghino, dall'altra fa una fatica bestia a farsi accettare dal pubblico dei lettori.
Oppure, detto in un altro modo: cos'hanno di così diverso le proposte fantascientifiche cinematografico/televisive da quelle letterarie?

Iniziamo da Avatar. La mia tesi è che, nonostante l'indubbia meraviglia e il solido substrato (fanta)scientifico, Avatar sia un prodotto fondamentalmente innocuo, decisamente consolatorio, profondamente conservatore.
Lo spettatore si diverte - io mi sono divertito un sacco - ma viene coinvolto solo superficialmente, si becca la sua bella razione di meraviglia senza turbamenti, si gode il suo ruolo totalmente passivo. Sgombriamo il capo da qualsiasi equivoco: non c'è niente di male in un film come questo, ed è evidente che stante la perfezione tecnica del prodotto, un film del genere ha tutte le carte in regola per piacere alla stragrande maggioranza del pubblico.
Ma Avatar piace così tanto perché è tecnicamente perfetto o perché è così rassicurante?

Prendiamo un esempio diverso e vediamo se riusciamo ad addomesticarlo abbastanza da fargli dire quello che vogliamo. Life on Mars è una produzione televisiva inglese che grazie all'approccio fantascientifico riesce a sopperire abilmente ai cliché narrativi ormai desueti della solita serie poliziesca, e per questo spicca brillante dalla massa di prodotti analoghi che quotidianamente lotta per trovare un suo pubblico.
A me Life on Mars è piaciuta soprattutto per la ricostruzione d'epoca (per chi non ne avesse mai sentito parlare: un poliziotto inglese si risveglia dopo un incidente nella Manchester del 1973, e cerca di capire cosa gli è successo: se sta sognando, se ha viaggiato nel tempo, se è pazzo) e per l'inquietudine che riesce a trasmettere. Molto meno riuscite - o meglio, già viste un milione di volte - le storie poliziesche che costituiscono lo scheletro di ogni singolo episodio.
Ma Life on Mars colpisce soprattutto per una caratteristica precisa che distingue la serie, ovvero lo scontro programmatico, continuo e insistente tra il punto di vista di Sam Tyler, poliziotto illuminato del 2006, e quello dell'ispettore capo Gene Hunt, personaggio che riassume in sé tutti gli aspetti più beceri del mestiere di sbirro e che rappresenta in quanto tale lo spirito grezzo del 1973. Gli sceneggiatori esaltano questo aspetto della vicenda tanto da rendere lo scontro culturale temporale il vero nucleo della serie.
Quello che emerge è un'atmosfera fortemente nostalgica che nel corso delle varie puntate è portata alle estreme conseguenze, fino ad arrivare all'indiscutibile conclusione che in fondo nel 1973 non si stava poi male, con l'idea evidentemente vincente - dopotutto cosa sceglie Sam Tyler? - che il passato sia più semplice e vivibile, in definitiva migliore, del nostro presente.
Non male per una serie di fantascienza, non trovate?

Avatar e Life on Mars rappresentano i due estremi dell'offerta fantascientifica odierna per il pubblico televisivo e cinematografico, eppure a me non paiono poi così lontani.
Entrambi propugnano più o meno esplicitamente un'idea del passato come periodo decisamente preferibile al presente, per non parlare del futuro; entrambi coccolano lo spettatore fornendogli continue conferme di come una vita più semplice, anche se magari brutale, ops… avventurosa, e selvaggia sia preferibile alla complessità disumanizzante della quotidianità; entrambi suggeriscono che la tecnologia è il male e ci condurrà al disastro.
Che questo tipo di messaggio venga veicolato attraverso una rappresentazione che adotta in maniera esemplare i moduli narrativi fantascientifici è piuttosto paradossale, ma spiega altrettanto bene la distanza che c'è tra la fantascienza visiva e quella letteraria. Con questo non voglio dire che romanzi e racconti di fantascienza siano immuni da certe posizioni, quanto piuttosto sottolineare come le caratteristiche precipue di un genere non sono sovrapponibili ai motivi per cui questo ha o meno successo. Motivi che dipendono molto di più dalla capacità di annusare l'aria che tira (che lo si faccia consciamente o meno) e dal proporre un prodotto perfettamente calibrato sulle esigenze del consumatore che dall'abilità del dato autore di comporre storie originali, stimolanti o sorprendenti.
(che poi l'aria che tira puzzi da schifo, o che le aspettative del pubblico debbano in qualche modo essere sovvertite, beh… questi sono evidentemente problemi miei.)

15 febbraio 2010

Volando verso la grazia


Picture by Iguana Jo.
Stanotte ho finito Contro il giorno. Ci ho messo più di due mesi, ma un libro simile vale ogni singolo minuto speso tra le sue pagine.

11 febbraio 2010

Habemus fantascienza*


Picture by Iguana Jo.
Negli ultimi tempi la mia frequentazione con la fantascienza italiana non è stata delle più fortunate. La sequenza di letture poco soddisfacenti sembrava proprio non avere fine, tanto che ormai avevo quasi rinunciato a provarci che poi sembra che abbia una qualche questione personale con chi prova tuttora a scrivere fantascienza in Italia.
Ma la speranza è l'ultima a morire, e dato che mi son trovato in casa l'ennesima antologia, mi son detto proviamoci un'altra volta, che almeno i racconti sono corti, sono vari, e forse almeno un paio si salveranno.

E invece…

E invece per un attimo nel corso della lettura ho temuto di trovarmi di fronte a un capolavoro. La migliore antologia di fantascienza italiana che abbia mai avuto la fortuna di leggere.
Poi no, in effetti arrivato a fine lettura l'entusiasmo si è un po' ridimensionato, però - accidenti! - quanto mi è piaciuto questo numero di Alia!

La partenza in effetti non è delle migliori, il racconto di Danilo Arona, Il caso Bobby Fuller - Fire Walk with me ricalca un canone già letto e riletto, con un protagonista originale solo per le sue origini, ma che poi si comporta secondo tutti gli scontati cliché del caso. Il racconto non mi ha entusiasmato, ma Arona è abile a rendere credibile il classico scenario della provincia americana anni '60.

Il racconto di Vittorio Catani , Ventiquattr'ore al giorno nella terato-chimica, è il vero apripista di questo Alia, almeno per il contenuto fantascientifico che seguirà nelle pagine successive. Mi spiace solo che l'autore abbia deciso di virare verso il grottesco quella che in fondo è una storia d'amore terminale. Del resto il racconto è davvero breve, e questo scorcio di vita ai tempi della catastrofe ambientale si presta agilmente al trattamento riservatogli.

Al racconto di Catani segue la prima perla del volume, ovvero Leggere al buio di Massimo Citi. Nel racconto di Citi c'è un'ambientazione abbastanza dettagliata da risultare viva, personaggi tridimensionali che nonostante le poche pagine riescono a emergere agli occhi del lettore, istanze socio-politiche non banali e una trama che riesce ad emozionare. In più m'è parso di cogliere una qualche reminescenza del Iain Banks culturale che a me non è affatto dispiaciuta.

A seguire arriva Alessandro Defilippi con un racconto che nonostante risulti in qualche modo scontato nello sviluppo e nella conclusione si lascia comunque leggere con piacere. La qualità migliore di A cena il giorno dei morti sta probabilmente nello stile sopraffino di scrittura del suo autore, che riesce a gestire al meglio la tensione crescente della sua storia fino all'appetitoso finale. E poi diciamolo, vedere le alte sfere ecclesiastiche protagoniste di un simile banchetto è sempre un piacere.

Mario Giorgi mi aveva già impressionato con Pater, il racconto contenuto nell'edizione 2007 di Alia (vedi qui), ma qui si supera. Secondo messaggio è un racconto perfetto. Solitamente i testi scritti con l'italiano di Giorgi, mi lasciano quantomeno perplesso: troppo formale e classico per suscitare un'emozione spontanea, troppo ricercato per risultare vero. Eppure il linguaggio scelto dall'autore mi pare l'unico in grado di veicolare tutto il pathos di questa storia che si muove nei dintorni del viaggio nel tempo.

Tutt'altro registro per il racconto successivo: Alla Rina di Consolata Lanza è spettacolare per la sua capacità di giocare con gli stereotipi, divertendosi un sacco nel frattempo. Forse non tutto funziona alla perfezione, che la credibilità della ragazzina protagonista va e viene nel corso del racconto. Ma alla fine il risultato è decisamente positivo: era da tempo che non leggevo una storia di BEM e fanciulle rapite, e questa è decisamente curiosa.

La meccanica dell'ambaràdan di Fabio Lastrucci si situa a metà strada tra Buzzati e Godzilla, all'incrocio tra il fantastico metafisico nostrano e quell'oscura energia sotterranea che nel mio immaginario ha partorito i mostri made in Japan. Anche questo è un racconto da segnalare per l'originalità dello sviluppo, i tipi umani coinvolti e le sorprendenti rivelazioni che lo animano. Se c'è un difetto è forse nella conclusione del racconto sempre progressivamente rimandata, che a tagliarlo di netto secondo me ne avrebbe guadagnato. Però oh… è solo un'opinione.

Blopper di Davide Mana ha tutto quel che mi piace in un racconto di fantascienza. Un protagonista con qualcosa da dire, uno scenario credibile e articolato e soprattutto - particolare non indifferente trattandosi di fantascienza italiana - una trama complessa. In Blopper si passa nel giro di poche pagine dalla caccia alla balena nell'oceano Atlantico allo spazio profondo, dalla situazione politica sudamericana alle frontiere legislative del postumano, con una storia principale che si incrocia con un nugolo di vicende laterali che invece di disperdere l'attenzione del lettore la concentrano nella costruzione di un mondo decisamente interessante. Unico difetto un finale che chiede forse troppo all'interpretazione del lettore. Io comunque fantascienza di questo livello la vorrei leggere tutti i giorni! (capito, Davide?)

Il racconto di Angelo Marenzana è l'unico che non ho proprio digerito. L'istinto dominatore è pesante ben oltre le cupe atmosfere in cui ci immerge l'autore. La mia impressione è che sia mancata una chiara idee di cosa voler far dire a una storia che alla fine si avvita su se stessa senza un vero punto di interesse.

Elvezio Sciallis è insieme a Davide Mana, Vittorio Catani e Massimo Soumaré uno dei pochi autori che ho avuto il piacere di conoscere tra quelli riuniti in questa antologia (beh… in realtà ho conosciuto anche Massimo Citi e Silvia Treves ma dal premio Omelas ad oggi son passati secoli…). Questa però è la prima volta che inciampo in un suo racconto, che di solito lo apprezzo per le recensioni e gli approfondimenti di Malpertuis. Tutta la vostra base sono appartenere a noi mi ha dato l'idea di un racconto ottimamente partorito ma cresciuto in maniera diseguale. Il problema è un eccesso di nerditudine che mal si coniuga con il carattere dei protagonisti e che rischia di travolgere l'ottima atmosfera tra il demenziale e il drammatico creata dall'autore. Il dialogo e l'evoluzione dei personaggi rimangono magistrali, ma l'ultima mezza pagina, beh… ecco, avrei preferito più terrore e raccapriccio (in alternativa un taglio secco e via).

Storia romantica di code e di canini di Massimo Soumaré è una buona storia che si dipana melanconica tra note esotiche e romantiche in un Giappone al contempo realissimo e pieno di meraviglie. Non so quale sia il motivo preciso per cui non mi ha particolarmente colpito: forse il tono sommesso o l'eccessiva dolcezza. O forse dei mostri così buoni mi sono risultati un po' troppo difficili da accettare.

A chiudere questo Alia una delle più piacevoli sorprese del volume. I mondi di là di Silvia Treves è un racconto che nonostante l'intento programmaticamente politico sfugge dal mero didascalismo grazie all'ottima caratterizzazione di personaggi e ambiente. Il panorama è quello claustrofobico di un asteroide minerario che racchiude la sua piccola comunità di tecnici e operai, il clima quello delle lotte sindacali di fronte a una minaccia finanziaria, la risposta è l'unione creativa della diversità circostante. Riassunto così il racconto non suona forse molto stimolante, ma fortunatamente il punto di vista parziale e limitato scelto dall'autrice evita il polpettone socio-politico offrendo al lettore una storia di rinascita e rivoluzione degna della migliore fantascienza anglosassone.

Arrivati a fine lettura bisogna constatare che nonostante i numerosi passi falsi la fantascienza italiana è viva e combatte insieme a noi. La sua è una lotta di retroguardia fatta di piccole realtà editoriali, di singoli appassionati e numeri microscopici. Ma questa fantascienza c'è, basta cercarla.
Alia lo trovate sul sito dell'editore. I meccanismi per l'acquisto sono un po' macchinosi, per questo motivo io ho preferito comprarla sul Delos Store.

* ho scoperto che in realtà "fantascienza" in latino si tradurrebbe "mythistoriae rerum futurarum" (fonte vicipaedia) però mi sembrava un po' troppo criptico per usarlo nel titolo.

09 febbraio 2010

Letture gennaio 2010


Picture by Iguana Jo.
Vittorio Catani - Il quinto principio
De Il quinto principio ho già parlato in questo post a cui vi rimando per eventuali nuovi commenti, critiche e/o discussioni.
Non azzardo ulteriori approfondimenti, che ogni parola può essere usata contro di me.
(Scherzo, eh! che come dicevo altrove tra fantascientisti ci vogliamo tutti molto bene!)


Anthony Boucher - Storie del tempo e dello spazio
Quando incappo in una di queste antologie di racconti anni '50 mi sembra sempre di ritrovare un vecchio amico. Sarà che la mia esperienza di lettore di fantascienza si è formata su testi scritti in quegli anni, ma per me leggere dei turbamenti più o meno inquietanti, più o meno fantastici della comoda vita conformista a stelleestrisce che si ritrova con una preoccupante frequenza nei racconti fantascientifici di quegli anni è una specie di ritorno a casa.
Nello specifico questi racconti di Anthony Boucher hanno tutti quel sapore di sigaro e scotch e moglie di là a preparare la cena che per me è ormai sinonimo di buona lettura nostalgica. Illuminante, forse più qui e ora che non laggiù e allora, e sempre piacevole.


Jonathan Lethem - Memorie di un artista della delusione
Capita a volte di imbattersi in autori che sembra abbiano scritto le loro cose apposta per te. Beh… io non ho praticamente nulla in comune con Jonathan Lethem eppure leggendo i saggi raccolti in questo volume - o come m'è successo leggendo La fortezza della solitudine - non posso fare a meno di ritrovare nelle sue parole e nei suoi racconti moltissime cose del mio passato.
Tra le tante occasioni di interesse e di riflessione di queste Memorie di un artista della delusione mi piace ricordare l'excursus sull'opera omnia di Philip K. Dick (che è in qualche modo esemplare di come dal ghetto fantascientifico si possa - e si debba - uscire, se non altro per dare un'occhiata al resto del mondo, senza perdere nulla dell'amore che ci lega a certi luoghi) e la voracità onnivora nei confronti di libri dischi cinema che emerge prepotente dal racconto delle vicissitudini familiari del giovane Lethem e che ha caratterizzato l'adolescenza di parecchi di noi qua fuori.
Un'ultima nota sulla bonus track del volume, ovvero il lungo pezzo appassionato, attento e disincantato sul padrino del soul. James Brown non è mai stato tra i miei soul-men preferiti, però accidenti, che razza di uomo!


Joe Haldeman - Cronomacchina accidentale
Ogni volta che mi capita per le mani un libro firmato da Joe Haldeman so già come andrà a finire. Di recente mi è successo con l'antologico Guerra eterna: Ultimo Atto o con I protomorfi: mi ritrovo a sogghignare felice tra scenari che appartengono alla fantascienza più classica ma che presi in mano da Haldeman danno un'impressione di freschezza e novità che non ti aspetteresti mai.
Cronomacchina accidentale non fa eccezione: sebbene la struttura della vicenda sia quanto di più scontato e prevedibile sia dato cercare nella fantascienza contemporanea, il talento di Haldeman riesce comunque a trasformare la lettura in un'esperienza brillante e seducente. Quante storie di viaggi nel tempo abbiamo già letto? Bene, stavolta succederà esattamente quello che vi aspettate (più o meno), con le solite puntate in futuri alternativamente accoglienti e inquietanti, con incontri fortunati, fughe precipitose e salvataggi per il rotto della cuffia e soprattutto con l'obbligatoria presenza - e risoluzione - del paradosso temporale di turno. Nonostante l'abbondanza di cliché - peraltro abilmente gestiti dall'autore - nelle peripezie del fisico Matt Fuller in giro per lo spazio tempo c'è evidentemente qualcosa capace di avvincere e appassionare il lettore. Questo qualcosa è l'indubbio talento di Haldeman nel rendere i sui personaggi assolutamente umani e comprensibili, la leggerezza e il ritmo del racconto, la capacità di infilare tra le pieghe delle sue storie qualche nota felicemente inquietante e provocatoria.
Tra gli autori capaci di rivitalizzare la buona vecchia fantascienza con cui sono cresciuto credo che Joe Haldeman sia il migliore.

04 febbraio 2010

Sawyer vs. Tonani


Picture by Luis Carlos Araujo.
Questo post nasce dalla costola di una discussione, lunga, accesa e spigolosa, nata dalle mie osservazioni su Il quinto principio e proseguita sulla Mailing List di Fantascienza, avente come nucleo del contendere la liceità o meno della lettura parziale di un'opera per giudicarla, la soggettività e l'oggettività della critica letteraria, il presunto pregiudizio del commentatore nei riguardi della fantascienza italiana.
A margine della discussione c'è stata anche la seguente osservazione:

"Forse ricorderai che quando si parlava dell'ultimo Tonani avevo tirato fuori la genesi della specie di Sawyer. Non è che sia ossessionato da Sawyer, ma davvero mi sembra un caso di scuola: lì ci sono tutti, ma proprio tutti, i difetti che la vulgata attribuisce alla sf italiana. Personaggi presi pari pari dai luoghi comuni, trama tenuta insieme con lo sputo, falle logiche da far rizzare i capelli e via di seguito. Eppure nessuno si è scandalizzato, anzi, non se ne è accorto proprio nessuno."

A cui io rispondevo:
"A me Sawyer era piaciuto. La sua è proprio quel genere di fantascienza "classica" che qua in italia non è mai mai nato. (l'esempio più prossimo è forse Alberto Cola - almeno le prime cose che ho letto: plot potente, personaggi immediatamente riconoscibili, poche menate e via che si va…).
Forse sarebbe interessante annotare quali sono le differenze nella mia percezione tra un romanzo di Sawyer e quelli, chessò, di Dario Tonani o di Vittorio Catani o di Giovanni De Matteo."


Questo post cerca di evidenziare le ragioni per cui il mio personalissimo giudizio sulla trilogia Neanderthaliana di Robert J. Sawyer (La genesi della specie, Fuga dal pianeta degli umani, Origine dell'ibrido ) è in definitiva migliore di quello formulato dopo aver letto L'algoritmo bianco di Dario Tonani.

La prima cosa da dire è che il sottoscritto potrebbe fare anche a meno della fantascienza di Sawyer: i suoi sono romanzi elementari per struttura, stile, speculazione. In nessuno dei libri di Sawyer si raggiungo quelle vette dell'immaginazione o della scrittura che ti rendono memorabile un romanzo. Ma Sawyer non è un dilettante, è un ottimo professionista che rimedia con lo studio, la preparazione e il metodo a quelle che potrebbero apparire come serie mancanze.
In questo senso leggere Sawyer non è mai una perdita di tempo. Nella sua trilogia Neanderthaliana non ci sono evidenti sciocchezze, non ci sono personaggi incoerenti o svolte palesemente improbabili. C'è l'invenzione e la speculazione che ci si attende da una buona storia di fantascienza classica, in cui date certe premesse il resto dovrebbe scorrere liscio come l'olio con magari qualche impennata nel ritmo per quel paio di svolte più o meno sorprendenti nel plot. L'originalità del progetto non è dovuta a chissà quale nuova idea, semmai all'ottimo world-building, così come la lettura non è resa avvincente da improvvisi scarti narrativi, quanto piuttosto dalla presenza di personaggi ben delineati e immediatamente identificabili.
In lista mi è stato fatto presente che non tutto nelle storie di Sawyer funziona a puntino, che ci sarebbero personaggi improbabili e avvenimenti realisticamente poco credibili. Dal mio punto di vista posso dire che se è vero che alcuni personaggi compiono azioni non propriamente consone alla situazione in cui sono calati, questi episodi non mi hanno dato eccessivo fastidio, un po' per la consapevolezza della realtà romanzesca in cui si ritrovano ad agire, un po' perché non hanno fatto saltare la soglia critica alla mia sospensione dell'incredulità.
Stessa cosa potrei dire per la questione delle conseguenze poco credibili ai fatti che avvengono nel romanzo. Ma dovrei anche precisare che per me il cuore della trilogia stava nella creazione della civiltà Neanderthaliana della Terra parallela. Il fatto che il resto della vicenda fosse costretto a piegarsi in qualche modo a quella particolare invenzione narrativa era scritto tra le righe nel patto stipulato tra lettore (questo lettore!) e l'autore del romanzo.

Discorso opposto per Dario Tonani. La scrittura dell'autore italiano è incomparabilmente superiore a quella del canadese Sawyer sia per la ricchezza delle suggestioni che emergono dalle sue pagine, sia per la resa cromatica unica del mondo in cui immerge le sue storie.
Riconoscendo questa superiorità stilistica io mi aspetto la stessa qualità anche nelle componenti prettamente narrative dei suoi romanzi: nella struttura del plot, nella creazione dei personaggi, nelle invenzioni che caratterizzano fantascientificamente le sue storie.
Se per quest'ultimo aspetto L'algoritmo bianco regge tranquillamente il confronto con i romanzi di Sawyer, la struttura del plot e soprattutto i personaggi non sono mai all'altezza dello scenario che Dario Tonani dispiega come elemento fondante la sua fantascienza. Non lo sono per due dettagli fondamentali: mancanza di profondità e coerenza.
I personaggi di Robert J. Sawyer risultano immediatamente riconoscibili. Questo significa che il lettore non fa nessuna fatica a seguirli e a immedesimarsi nei loro panni, di conseguenza nel corso della lettura non si generano mai confusioni di ruoli o sovrapposizione d'intenti. Certo, nessun personaggio rimane indelebilmente impresso nella memoria, Ponter Bondit non è un Elethiomel o un Prabir, ma tutti risultano egualmente vivi e reali agli occhi del lettore. Ne L'algoritmo bianco, al contrario, motivazioni e personalità del protagonista risultano parecchio vaghe se non palesemente incoerenti e quasi tutti i comprimari si perdono irrimediabilmente nello sfondo.

Un'altra differenza sostanziale tra i due autori sta nel peso della componente speculativa all'interno dei rispettivi romanzi. Se Tonani è superbo nella creazione e nella descrizione del suo mondo fantastico, il ruolo riservato all'estrapolazione speculativa della realtà fittizia in cui si svolge l'azione è lasciato più all'interpretazione del lettore, alla sua suggestione, piuttosto che all'intervento esplicito di una componente informativa. Questo non è un difetto, stante appunto la padronanza che ha l'autore delle capacità evocative della sua scrittura. D'altro canto Sawyer rimedia abilmente ai suoi limiti compositivi riuscendo a infilare nel racconto una messe di informazioni sorprendenti, realistiche e particolareggiate che ben difficilmente è riscontrabile in un normale romanzo di fantascienza italiana (a me è rimasta particolarmente impressa la digressione sulla presunta superiorità etica di una società di cacciatori/raccoglitori rispetto a quella che siamo abituati a ritenere più evoluta basata sull'agricoltura/allevamento, ma è solo una delle tante suggestioni (fanta)scientifiche che arricchiscono la trilogia).
La quantità d'informazione serve da un lato a mantenere vivo l'interesse del lettore anche in mancanza di vere svolte narrative, dall'altro lo rende complice e partecipe del percorso di scoperta che compie man mano che procede nel romanzo. L'algoritmo bianco fondandosi su un'unica linea narrativa e mancando di un valido contrappeso informativo avrebbe la possibilità di imporsi al lettore per la profondità che ci attenderebbe dalla scrittura di Tonani. Profondità che però svanisce una volta che lo sguardo del lettore passa dal contesto generale (in sostanza ambiente & idee di base) al particolare (personaggi, relazioni, svolte narrative).

In definitiva mi pare di poter dire che il giudizio espresso sui romanzi presi in esame è opposto rispetto alla mia opinione sulle capacità autoriali dei due scrittori. Se la lettura de L'algoritmo bianco mi ha soddisfatto di meno di quella dei romanzi di Sawyer è perché da un autore come Dario Tonani mi aspetto molto di più di quel che ritrovo nella fantascienza classica del canadese.
Magari mi sbaglio, ma se c'è qualcuno con le potenzialità per scrivere un grande romanzo, un'opera che rimanga impressa indelebilmente nel mio immaginario, beh… questo qualcuno assomiglia di certo più a Dario Tonani che a Robert J. Sawyer.