30 luglio 2010

I'm a loser baby, so why don't you kill me?


Picture by Iguana Jo.
Speravo di riuscire a rimandare il tutto a dopo le vacanze, ma visto l'interesse che si spande per la rete come olio nel golfo del Messico, chi sono io per privarvi della mia indispensabile opinione? Molliamo gli indugi, che qua si parla di perdenti, falliti e scarti sociali in genere.

Tutto nasce da un'uscita strana di Elvezio Sciallis (vedi post su Shaun of the Dead, qui e su Malpertuis) e dai successivi dubbi su cosa sia un perdente e se un perdente si possa considerare tale, a prescindere dalla sua consapevolezza della propria condizione di perdente. La questione è stata poi rilanciata da un post di Davide Mana che riporta il discorso su un piano decisamente terreno.

Diciamolo subito. La figura del perdente è essenzialmente una figura retorica, un artificio narrativo, un utilissimo escamotage drammatico, ma nella vita vera il perdente non esiste.
In fondo voi, quanti perdenti conoscete? Nessuno, immagino, che sono sempre gli altri quelli che perdono.

Facciamo un passo indietro. Quand'è stata la prima volta che avete sentito il termine perdente riferito non a un evento sportivo ma alla riuscita della propria esistenza? Da quand'è che la vita si considera una gara?
Elementare (si fa per dire…): da quando il modello capitalista è uscito dalle sfere dell'alta finanza e dal suo guscio nordamericano per diffondersi capillarmente in ogni aspetto della nostra esistenza. Da quando abbiamo iniziato ad annusare il benessere e la carota in fondo al bastone è diventata sempre più concreta e reale. Da quando i vincitori hanno capito che senza gli sconfitti la vittoria non conta.
Non che prima del modello americano la competizione non esistesse, solo non aveva assunto quella componente totalizzante che la contraddistingue ora.

Ma se il perdente non esiste, la nostra percezione di vittoria o sconfitta sociale è vera e reale. Modulabile e modulare. Per ognuno di noi che non si sente adeguato alla gara sociale (di qualunque gara si tratti) c'è sempre qualcuno che se la passa peggio: per quello che non si può permettere il SUV c'è quello che gira con la Dacia, per l'impiegato frustrato c'è l'operaio alla catena, per quello che va in ferie a Rimini c'è quello che rimane a casa, per noi che leggiamo i libri c'è quello al bar con la gazzetta. La figura del Perdente è lo strumento di controllo sociale per eccellenza, scarica le frustrazioni verso il basso, riduce le responsabilità personali, consolida il ruolo del vincitore.

Detto questo, torniamo alla realtà del cinema e della letteratura, dove invece la figura del perdente non hai mai perso lo smalto che l'ha sempre contraddistinta. Del resto è molto comodo caratterizzare il dato personaggio per la sfiga che lo segna, fare assurgere quest'ultima a summa della sua esistenza per poi - a seconda del caso - ribaltarne le sorti in un finale catartico o farla sprofondare in un inferno senza vie d'uscita (meritato, ci mancherebbe!).
E qui diventerebbe interessante riflettere sulla potenza del simbolo "perdente", sulla sua elasticità d'utilizzo e sulla sua diffusione.
Io non ho gli strumenti per approfondire questo discorso, ma mi piacerebbe che qualcuno più dotato di me lo proseguisse.

Per concludere questo post sgangherato e frettoloso, mi rimane giusto il tempo per un'ultima nota sul concetto di beautiful loser, tanto caro a certa letteratura, a certo cinema. (Già il fatto di dover scrivere beautiful loser in inglese è significativo, che in italiano si rischia il ridicolo.)
Per quanto io possa aver amato quel film o quel libro, il beautiful loser è un personaggio odioso. Come altro definireste una persona che si crogiola nei suoi limiti e grazie ai suoi difetti ribalta la propria condizione? Fanculo. Molto meglio un tipo come Shaun, che riposta la mazza da cricket è pronto per un altro giro sulla ps, con birra e patatine e qualche zombie di contorno.

29 luglio 2010

Seconda visione - Fantasmi da Marte

Siamo a fine luglio e ho decisamente bisogno di ferie. Mi dispiace però lasciare il blog al suo destino. Ho deciso quindi di rispolverare qualche vecchia nota cinematografica - che chiamarle recensioni mi pare eccessivo - già girata in rete prima della nascita di queste pagine.
Prendetele per quel che valgono: un tuffo nel passato per ricordare qualche visione memorabile (nel bene e nel male) o un semplice riempitivo per rimpolpare queste pagine nell'attesa del risveglio del padrone di casa.

Partiamo con un classicone (si fa per dire), direttamente dal 2001.
Fantasmi da Marte di John Carpenter



Quali sono le caratteristiche del pulp? Del pulp fantascientifico almeno? 

Avventura, veri uomini, donnine, mostri, sangue, esplosioni, dialoghi da paura...
Altra caratteristica fondamentale: nel pulp non si butta via niente.



Tre righe di doverosa premessa per parlare della visione di quel filmazzo di Fantasmi da Marte di John Carpenter, che mi pare tragga l'ispirazione dritta dritta dal mondo dei pulp e del cinema minore.
Tutti i classici cliché dei film di serie B, tutte le idee dei precedenti film di Carpenter vengono frullate insieme per un risultato perfettamente godibile. C'è l'alieno tipo La Cosa, l'assedio a la Distretto 13, l'eroe cinico e cattivo alla Jena Plinskeen, le sparatorie alla Vampires (beh… queste ci sono un po' ovunque).

Peccato per qualche somiglianza di troppo con Pitch Black (coincidenza?), per il resto questo Fantasmi da Marte è un film da vedere con il volume a manetta, quintali di pop corn, birra fresca e rutto libero. 

Ciliegina sulla torta una colonna sonora (scritta come sempre dallo stesso Carpenter) semplicemente perfetta per il clima del film.

Fantasmi da marte è un film grezzo, sporco, povero, senza menate e con poche pretese ma semplicemente divertente. Il cinema di Carpenter ha preso una bella piega: gli ultimi tre film sono tra i più divertenti nel genere che ho visto negli ultimi anni.

Altro che Tim Burton, se c'è un regista che ama il cosiddetto cinema di serie B è proprio John Carpenter.
(2001)

22 luglio 2010

Shaun Rulez!


Original uploaded by Brandon Schaefer.
Era da tempo che mi ripromettevo di spendere due parole su Shaun of the dead. Questo post di Elvezio Sciallis su Malpertuis me ne ha dato l'occasione. Data la difficoltà che ho in questi giorni nell'accedere alle sue pagine, preferisco riportare qui quello che sarebbe stato un semplice commento sul suo blog.

Shaun of the dead (L'alba dei morti dementi in italia) è una commedia romantica con gli zombie. Il film, scritto, diretto e interpretato da Edgar Wright e Simon Pegg, è un esempio eccezionale di quel che qualche buona idea, una grande passione per il genere e una geniale incoscienza possono produrre.
Probabilmente l'aspetto più straordinario della pellicola sta nella scelta degli autori di non scendere ad alcun compromesso, sia nella rappresentazione delle situazioni comico/romantiche, che sfoderano tutti i cliché della più classica delle pellicole inglesi degli ultimi anni (penso alla massa più o meno informe dei titoli interpretati da Hugh Grant), sia nella messa in scena dell'assalto dei non-morti, che non ha assolutamente nulla di buffo (ok, non più buffo della media dei film di zombie), rimanendo anzi piuttosto fedele all'iconografia romeriana classica.
È dallo scontro di queste due archetipi narrativi apparentemente incompatibili che il film trae tutta la sua energia.

Altro aspetto di Shaun of the dead che non smette di meravigliarmi è quello di essere un film comico-con-i-mostri che non scade mai nei collaudati meccanismi della parodia o del grottesco. Non so voi, ma io non ricordo film comico-horrorifici che si salvino dalla facile scelta parodistica (da Frankenstein Junior, passando per L'armata delle tenebre, scendendo fino ai vari Scary Movie). Mantenere l'equilibrio e camminare sulla sottile linea che separa il ridicolo dal comico, il romantico dal patetico, l'orrore dal semplice spavento, è un altro dei grandissimi meriti della pellicola.
Questo è anche il fattore principale che me lo fa preferire a Hot Fuzz, l'opera successiva del duo Wright-Pegg.

Elvezio nella sua recensione si dilunga - e come daragli torto? -sulle specificità britanniche del film e sul confronto vincente rispetto a pellicole omologhe prodotte oltreoceano. C'è però un punto su cui non sono d'accordo. A un certo punto scrive:
" La natura di “perdente” di Shaun è così distante dalla nozione tipica americana o italiana da essere a tratti incomprensibile e aliena, un feroce tunnel nel quale nemmeno le più ardue prove del fato riescono a cambiare la natura di un individuo (è sufficiente guardare il finale del film…)."

Questa lettura del film mi lascia un po' perplesso. A parte la distinzione tra perdenti inglesi, americani o italiani che mi risulta incomprensibile, il punto è ancora un altro: Shaun NON è un perdente. Un perdente, per essere tale, dovrebbe riconoscere la propria situazione. Dovrebbe lottare, e caso mai fallire, per raggiungere il Successo.
A Shaun invece la sua vita va bene così. Se c'è una necessità di cambiamento è affrontata di mala voglia e solo per uniformare il proprio standard alle richieste del mondo esterno (la fidanzata, la mamma). Ci sarebbe semmai da chiedersi perché nella recensione si giudica perdente l'atteggiamento di Shaun, ma si uscirebbe forse fuori tema.
Se vogliamo proprio dare una lettura socio-politica al film (ma dobbiamo?), Shaun è l'archetipo del trentenne qualunque cresciuto nelle periferie dell'occidente post-industriale (che sia inglese è del tutto accessorio). È uno zombie sociale che messo in gara con altri zombie sfodera le sue doti umane solo per la breve durata del confronto, che poi è molto più semplice, confortevole e soddisfacente ritornare all'abulica prassi quotidiana fatta di amici e birra al pub piuttosto che cedere, capitolando, alle lusinghe di famiglia e lavoro.

Per me è cosa piuttosto rara rivedere un film a distanza ravvicinata, Shaun of the dead l'ho visto tre volte negli ultimi anni.
Dite che m'è piaciuto?

21 luglio 2010

Emergenza felina


Pictures by Iguana Jo & Aelle.
Nell'arco di qualche settimana, due mesi fa, le due giovani gatte che vivono con noi (giovani per non confonderle con Tre Calzini, la micia veterana che certe cose non può proprio farle) hanno partorito una decina di micini.
Degli otto cuccioli che sono sopravvissuti (Wally, la gatta numero uno, ha avuto un parto prematuro, e due piccoli non ce l'hanno fatta), sei sembrava avessero trovato tutti in breve tempo un nuovo compagno umano da adottare, mentre gli ultimi due erano ancora alla ricerca di una nuova casa.
Poi però chi mi aveva garantito l'accoglienza a un cucciolo s'è tirato indietro (bell'amico, eh!), lasciandoci quindi
tuttora con tre cuccioli in cerca di ospitalità.

Visto che tra le nostre conoscenze locali non siamo ancora riusciti a trovargli una sistemazione e che le ferie incombono, ho pensato bene di rivolgermi ai frequentatori del blog. Dopotutto qui dentro si parla un sacco di fantascienza ed è risaputo che la maggior parte dei frequentatori del genere ha una certa predisposizione alla convivenza felina.

Quindi fatevi avanti!
Potete venire a trovarci quando volete, in alternativa sono più che disposto a portarvi il micio che preferite fino a casa (perlomeno se abitate in Italia nei dintorni del 45° parallelo!).

I mici disponibili li vedete qui intorno.
Non sono meravigliosi?

(dimenticavo: per contattarmi in privato potete scrivermi all'indirizzo email: iguanajo (at) gmail.com)

16 luglio 2010

I migliori romanzi di fantascienza dal 1990 (fino a qualche anno fa)

Nei commenti del post precedente ci si chiedeva quali siano stati i romanzi più significativi tra quelli pubblicati nel genere fantascienza negli ultimi vent'anni.
Quella che segue è la mia personalissima top ten dei volumi editi dal 1990 in poi. Le regole sono semplici: dieci titoli, un titolo per autore, esclusivamente romanzi (e quindi niente antologie, racconti e/o romanzi brevi), solo fantascienza.
Ovviamente questa classifica risponde unicamente ai miei gusti, non ha alcuna pretesa di oggettività ed è valida qui e ora, che se me la chiedeste tra un mese sarebbe probabilmente diversa.

Stilando la classifica mi sono reso conto che per quanto io mi possa considerare un lettore forte, mi mancano un sacco di romanzi probabilmente fondamentali nella definizione della fantascienza attuale. Certo, posso sempre dare la colpa al fatto che in Italia sono dieci anni che in libreria non arriva (quasi) nulla di nuovo, e che leggere in originale mi è comunque più dispendioso (se non in termini economici, almeno dal punto di vista del tempo speso e dello sforzo fatto). Ma conta poco, i buchi rimarranno tali.
Quindi, se secondo voi nella lista che segue manca questo o quel titolo che avrebbe avuto tutti i numeri per entrare in classifica, segnalatemelo, che magari è la volta buona.

Ma bando agli indugi, ecco i titoli:

- Iain M. Banks, Use of Weapons (La guerra di Zakalwe), 1990
Che Iain M. Banks entrasse in questa classifica era scontato. Il dubbio semmai era con quale titolo. Ho scelto Use of Weapons perché è forse il meno divertente tra i suoi romanzi, ma di certo il più intenso, profondo ed emozionante.

- Greg Egan, Distress (Distress), 1995
Greg Egan avrebbe potuto da solo riempire mezza classifica. Ho scelto Distress per l'impegno civile e l'ottimismo di cui è farcito, oltre che per essere uno dei pochissimi tentativi di immaginare il prossimo futuro senza lasciarsi travolgere dalla disperazione ne tanto meno da un acritico entusiasmo.

- Neal Stephenson, The Diamond Age (L'era del diamante), 1995
Si era detto fantascienza e solo fantascienza. Quindi, anche se il Cryptonomicon rimane il romanzo più memorabile scritto da Neal Stephenson, l'era del diamante è la scelta obbligata. Questo romanzo rappresenta tuttora un'esperienza di lettura straordinaria per la complessità, la creatività e la meraviglia di cui sono fitte le sue pagine.

- Ian McDonald, Necroville (Necroville), 1994
Anche per Ian McDonald ho avuto l'imbarazzo della scelta. Probabilmente River of Gods o Brasyl sono romanzi migliori di Necroville. Ma è stata questa storia di non-morti e passione che mi ha fatto conoscere McDonald, e Necroville è tuttora il romanzo dell'era post-cyberpunk più eccitante che io ricordi.

- Mary Gentle, Ash - A Secret History (Ash - Una storia segreta 1-4), 1999
Ash è un esempio formidabile di come si possano coniugare scenari cari al fantasy più trito a contenuti meravigliosamente fantascientifici, con un approccio capace di accontentare sia chi cerca una lettura piena di sorprese, sia chi apprezza qualche riflessione non banale sulla realtà. E poi c'è Ash: come fai a dimenticarti una fanciulla come lei?

- Charles Stross, Accelerando (Accelerando), 2005
Charlie Stross è la voce più interessante della fantascienza degli ultimi anni. Forse Accelerando non è un capolavoro. Ma ci va decisamente vicino.

- Lois McMaster Bujold, A Civil Campain (Guerra di strategie), 1999
Non potevo non inserire la Bujold in questa classifica. Lo so, la sua è una fantascienza classica, scritta senza troppe concessioni allo stile o alla bellezza della lingua. Ma la saga di MIles Vorkosigan mi ha tenuto buona compagnia per molti anni e tra tutti i volumi che compongono il ciclo Lois McMaster Bujold almeno un capolavoro lo ha scritto: Guerra di strategie è la miglior commedia fantascientifica mi sia mai capitato di leggere. E se non siete d'accordo vi auguro un'invasione di scaraburre in salotto!

- Ayerdhal & Jean-Claude Dunyach, Étoiles mourantes (Stelle morenti), 1999
Stelle morenti è strepitoso per l'ambizione e la vastità dello scenario. Il romanzo del duo francese Ayerdhal & Dunyach riesce ad unire le più ardite speculazioni sociologiche con una trama densa di azione e meraviglie. Sarà anche debitore a più blasonati modelli britannici, ma Stelle Morenti è comunque space opera della miglior specie.

- Mikael Niemi, Svålhålet (Il manifesto dei cosmonisti), 2004
- Jonathan Lethem, Amnesia Moon (Amnesia Moon), 1995
Per gli ultimi due titoli di questa lista ho scelto due romanzi che con la fantascienza tradizionalmente edita nel nostro paese hanno poco a che fare. Non sono usciti per editori specializzati e godono di una qualità di scrittura superiore a quella usualmente riscontrabile all'interno del genere. Già questo mi sembra un ottimo motivo per inserirli in questa top-ten, ma qui non si tratta solo di stile e bella scrittura. Le storie di Niemi e Lethem, pur totalmente antitetiche per sensibilità e ambientazione, sono colme di quel senso di meraviglia, di scoperta e di inquietudine che da sempre associo alla miglior fantascienza.


Per concludere un cenno ai grandi assenti.
Ci sono autori che mi piacerebbe riuscire a inserire in qualunque classifica, ma per un motivo o per l'altro sono assenti. Penso a William Gibson che manca perché è difficile definire fantascienza il suo miglior romanzo post-Nuromante, o a Ted Chiang che ha scritto il più straordinario racconto degli ultimi vent'anni (mi riferisco a Storia della tua vita), ma che è, appunto, solo un racconto.
Altri autori che non sono entrati in classifica, ma che potrebbe benissimo rientrare nel novero dei migliori, sono Richard K. Morgan o Jon Courtenay Grimwood (e poi chissà quanti altri di cui non ho ancora letto niente).
Altra grande assente è la fantascienza italiana. Sono stato tentato di inserire Nessun uomo è mio fratello in classifica. Ma non ce l'ho fatta. La lettura è troppo recente e temo che l'entusiasmo appanni il mio giudizio.
Sono comunque convinto che se c'è un romanzo italiano che merita ogni possibile riconoscimento è quello.

Bene. È tutto.
Attendo i vostri dieci titoli.

13 luglio 2010

Letture giugno 2010


Picture by subhasish.
Ian McDonald - Cyberabad Days
È un crescendo continuo questo volume di racconti di Ian McDonald. Ambientate tutte nell'India prossima ventura già raccontata in River of Gods, le storie di Cyberabad Days allargano lo sguardo dalla città di Varanasi, capitale di uno degli stati nati dalla separazione dell'India all'inizio del XXI secolo, alle nazioni confinanti, alle loro città e soprattutto ai loro abitanti.
Tutti i racconti di Cyberabad Days sono ritratti intensi e meravigliosi di personaggi alle prese con il drastico cambiamento del loro mondo. Attraverso gli occhi e le vicende dei sui protagonisti McDonald tesse e dispiega un arazzo narrativo denso di sapori al contempo esotici e familiari, dominato dall'eterno conflitto tra tradizione e innovazione. Conflitto che nei racconti dell'autore nordirlandese si risolve sempre con insospettabili mediazioni, con la tecnologia che si piega al ricchissimo serbatoio di storie e contraddizioni che caratterizza il continente indiano e con i suoi abitanti che trovano sempre nuove risorse per conservare privilegi e connessioni al di là del più vertiginoso dei cambiamenti.
Un altro degli aspetti straordinari dei racconti di Cyberabad Days sta nella capacità di McDonald di esaltare la singolarità di ognuno dei suoi personaggi senza mai elevarla al di sopra della storia di cui sono protagonisti, riuscendo invece a trasmettere al lettore il loro essere parte di un universo inesorabilmente più vasto e complesso delle loro pur notevoli esistenze. Hanno tutte un sapore dolce-amaro queste storie, costrette come sono a mediare tra fragilità umane e meraviglie tecnologiche, tra sogni individuali e incubi sociali.
L'india di Ian McDonald mi ha ricordato quella, altrettanto ricca e profumata, dei romanzi di Vikram Chandra con in più un sacco di ottime idee fantascientifiche a rendere più interessante il panorama.
Non male per un pallido abitante delle isole britanniche.


Robert Silverberg - L'uomo stocastico
Io ho un grosso buco nella mia libreria fantascientifica che comprende quasi tutto quel che è uscito nel corso degli anni '70 dello scorso secolo. Urania Collezione è piuttosto parca nella proposta di romanzi che risalgono a quegli anni e la pubblicazione di un'opera piuttosto conosciuta come L'uomo stocastico rapresenta quindi un'ottima occasione per assaporare l'aria che tirava in quegli anni.
In effetti questo romanzo di Robert Silverberg sa un po' di vecchio. Le dinamiche che determinano i comportamenti dei personaggi di questo romanzo odorano di seventies lontano un miglio (la politica, le sette, il disagio urbano, il petrolio). Oltretutto il quid del romanzo (determinismo vs libero arbitrio) ha un esito terrificante (almeno dal mio punto di vista), ma nonostante tutto L'uomo stocastico si legge volentieri, che il tono pacato e tranquillo di Silverberg è tutt'altro che soporifero, e i dubbi e le suggestioni che è capace di evocare non sono - comunque la si pensi - per nulla tranquillizzanti.


Peter Hamilton - Il sogno del vuoto
Con l'enorme trilogia de L'alba della notte (qualche migliaio di pagine distribuite, nell'edizione italiana, in dieci numeri di Urania) Peter Hamilton mi aveva divertito come pochi altri autori di fantascienza: scenari cosmici, ambientazioni esotiche, personaggi affascinanti, meraviglie a gogò, un plot complicatissimo per dimensioni eppure elementare nello sviluppo. Quei tre romanzi hanno rappresentato per me quanto di meglio la fantascienza popolare possa produrre al giorno d'oggi.
Non appena si è diffusa la notizia che Urania avrebbe proposto ai lettori italiani un altro progetto monstre di Peter Hamilton, ne son rimasto piacevolmente colpito e ho atteso con impazienza lo sbarco in libreria de Il sogno del vuoto, primo volume della trilogia del Vuoto.
Purtroppo però in questo romanzo non tutto funziona come dovrebbe. Gli ingredienti che avevano reso un piacere la lettura dell'Alba della notte ci sono tutti, ma la capacità di dosare le informazioni, l'equilibrio tra le varie componenti, e l'immediatezza che contraddistingueva quell'opera si perdono in una gestione del plot piuttosto confusa, nell'eccesso di infodump che contraddistingue troppe pagine del volume e soprattutto nell'incapacità dell'autore di infondere personalità riconoscibili e singolari alla galleria di personaggi che affollano il romanzo.
Il sogno del vuoto si lascia leggere, che nonostante i difetti molti dei singoli episodi in cui è frammentata la trama rimangono spettacolari e seducenti, però ecco, mi aspettavo un romanzo più solido e consistente. Speriamo nel secondo capitolo.


Virginia Woolf - La signora Dalloway
Campo, controcampo, soggettiva, panoramica e poi improvvisi primi piani e flashback e veloci scarti laterali per poi tornare in soggettiva sul dettaglio e chiudere con una carrellata verso l'alto. Cinema insomma, di quello al contempo spettacolare e profondo. Qualcosa che nella mia ignoranza non mi sarei mai aspettato potesse uscire dalla penna di un'autrice inglese nel primo quarto del secolo scorso.
E invece La signora Dalloway è un vero incanto di romanzo, scritto in maniera sublime (e tradotto altrettanto bene da Nadia Fusini), ricchissimo di spunti interessanti, capace di offrire un ritratto della buona società inglese tra le due guerre come probabilmente nessun testo storico è capace di fare. Un romanzo da assaporare lentamente per gustare al meglio il talento di cui Virginia Woolf fa sfoggio nel piegare l'indubbio virtuosismo della sua prosa al racconto di una mondo in via d'estinzione.

08 luglio 2010

À la France! (sì, ma dove?)


Picture by Iguana Jo.
Quest'anno per le vacanze finalmente si torna in Francia.
Non avendo molto tempo a nostra disposizione abbiamo deciso di trascorrere una settimana nei dintorni di Parigi e di utilizzare un'altra decina di giorni per fare qualche tappa lungo la strada di avvicinamento alla capitale francese.
Dato che della Francia non ne so poi molto, ci farebbe molto piacere se i visitatori di queste pagine ci dessero qualche consiglio.
C'è qualche località un cui dobbiamo assolutamente fermarci nel nostro viaggio verso Parigi? Ci sono castelli medievali, boschi incantati, meraviglie tecnologiche che valgano la sosta e che possano essere di qualche interesse per due preadolescenti irrequieti?
C'è qualche b&b / trattoria / ristorante / cantina che non ci possiamo assolutamente perdere, vuoi per le leccornie eno-gastronomiche, vuoi per il prezzo abbordabile, vuoi per la qualità della sosta?

Insomma, se un po' di Francia v'è rimasta nel cuore questo è il momento per condividerla con noi.

Grazie!

Per finire, e forse anche per capire cosa ci piace, questo è uno slideshow delle mie vecchie foto francesi: