23 aprile 2012

Lettura analogica / Lettura digitale

Foto di Giorgio Raffaelli

Negli ultimi anni, in parallelo al diffondersi dei libri elettronici, c'è stato nei blog vicini un fiorire di post che hanno sviscerato il fenomeno dai punti di vista più disparati. La quantità di informazioni, giudizi, polemiche, opinioni, chiacchiere e discussioni è straripante, ed è difficile farsi un'idea obiettiva sullo stato dell'arte dell'editoria elettronica, che è oltretutto molto diverso a seconda del particolare quadrante geografico si voglia prendere in considerazione.
Qualche esempio? Nelle ultime settimane c'è stato l'intervento di Charlie Stross sulle caratteristiche e le conseguenze del dominio di Amazon sul settore, quello di Davide Mana sulle potenzialità inespresse del mezzo digitale o (con qualche mese in più sul groppone) quello più tecnico di Matteo Poropat sulle problematiche relative alla realizzazione editoriale degli ebook. Di carne al fuoco ce n'è in abbondanza e se finora mi sono astenuto dal trattare questo argomento non è per mancanza d'interesse, quanto piuttosto per chiarirmi le idee e non sbrodolare quattro cazzate tanto per.

Sebbene abbia avuto occasione di maneggiarli, non posseggo né un dispositivo e-ink nè un tablet, ma - lo dico subito a scanso di equivoci - non vedo l'ora di potermi permettere un ipad. Sono convinto che per fruire al meglio di un testo tecnico, un saggio, un manuale o una rivista la lettura su mezzo elettronica offra - e offrirà sempre più - una quantità di vantaggi rispetto a quella tradizionale.
Detto questo, non sono altrettanto convinto che per la lettura da diporto (per quanto mi riguarda mi riferisco soprattutto alla narrativa) l'utilizzo di un supporto tradizionale (leggasi libro) abbia poi tanto da perdere dall'avvento degli ebook.
Le mie considerazioni nascono dal confronto delle due esperienze di lettura. Sono del tutto soggettive, certo, ma credo che definire la lettura di un libro come esperienza più ricca di quella di un testo elettronico non sia solo frutto di fisime luddiste o di una mal riposta nostalgia per i bei tempi andati.

Il testo di un ebook sarà anche interattivo, ma quanto interattivo è il supporto che lo ospita? Un reader, a prescindere dalle sue specifiche tecniche, è un oggetto pressoché bidimensionale, almeno per quanto riguarda la sua interfaccia. Per quel che interessa il lettore si può benissimo considerare come uno schermo su cui si possono visualizzare parole e immagini, e una scelta di accessori più o meno utili per scegliere/scorrere/annotare il determinato testo.
La lettura di un libro è un'esperienza sensoriale parecchio diversa. Nel libro ci puoi infilare le dita dentro, puoi valutarne lo spessore, il peso, le dimensioni, te lo puoi rigirare tra le mani senza tema di grossi danni da caduta o urti. Un libro lo puoi scagliare contro un muro, lo puoi macchiare di caffè o riempire di briciole, lo puoi lasciare aperto o valutarne la progressione. Soprattutto le pagine di un libro le puoi toccare, e scoprire come la carta sia diversa da edizione a edizione, e offra al tatto sensazioni parecchio più amichevoli (materia organica vs plastica e vetro, c'è competizione? sì, c'è: ho toccato polimeri che voi umani… ma non in un ereader, non ancora, per lo meno).

C'è poi un ulteriore considerazione da fare. Quanti filtri intervengono nel percorso del testo fino all'occhio del lettore? Me lo chiedo perché ho l'impressione - e chi ha maggior pratica di e-lettura potrà confermare o meno, grazie! - che durante la lettura da un supporto elettronico la comprensione del testo attraversi un numero di filtri, che riguardano sensazione, percezione e predisposizione, decisamente maggiore che non dalla lettura della pagina stampata. Quest'impressione nasce dalla semplice constatazione che il rapporto tra lettore e testo tradizionalmente stampato è diretto, occhio-carta, mediato solo dall'inchiostro, quindi un supporto fisico, materico, utilizzato per sporcarla. Credo invece che accostandosi a un testo visualizzato su schermo intervengano molti più fattori in grado di influire sulla relazione testo/lettore. C'è la consapevolezza del supporto elettronico, oggetto infinitamente più complesso del volume cartaceo tradizionale; c'è la possibilità di variare carattere, dimensione, aspetto del testo che stiamo leggendo; c'è lo schermo a separare fisicamente il lavoro dell'autore dall'occhio del lettore. Dopotutto il mezzo è (anche) il messaggio, e un supporto più complesso influenza (magari poco, magari molto, credo sia questione molto soggettiva) la percezione del testo che veicola.

Ma allora? Dobbiamo rinunciare agli ebook, mandarli al macero (ops!) senza nemmeno dargli una possibilità?
Nemmeno per sogno.
I libri elettronici sono il futuro. Sono più economici, più convenienti, permettono una gestione delle risorse, a monte, e dei testi, a valle, più efficiente, meno dispendiosa, ottimizzata; oltre a consentire un interazione tra opere e lettore più libera e profonda.
Ma qui si parlava di lettura, non di editoria. Di lettura, non di studio. Di quel tipo di lettura fatta senza altro scopo se non quello della libera espressione di sè, di quell'esperienza individuale che porta a livello zero le complicazioni esterne, per aumentare esponenzialmente la possibilità di un incontro fortuito, di una rivelazione, di una gioia o un dolore del tutto personali. La lettura intesa come piacere singolo e individuale. Un piacere che ha ben poco a che fare con concetti come efficenza, economia o allocazione di risorse.
Prima o poi un ipad spero davvero di riuscire a prenderlo. Ma non so se lo userò per leggere il prossimo McDonald piuttosto che un Banks o un Murakami. Almeno non se avrò la possibilità di permettermi un libro fatto di carta e inchiostro.






21 aprile 2012

The Kids Are Alright

Per una volta si parla di musica. Di roba nuova. almeno per me. Roba che mi ha sorpreso e che mi pare giusto condividere con voi, a costo di fare la figura dell'anziano che arriva dopo che tutti se ne sono già andati.
Prima di arrivare al punto devo confessare la mia ignoranza. Ho pochissima esperienza con l'hip-hop. Nei remoti anni '80 mi ero fatto registrare una cassetta con Licensed to Ill, e ho ascoltato qualcosina dei Public Enemy. Poi c'è stato qualche anno di vuoto, per arrivare a Stop al panico e a un fugace innamoramento per gli Assalti frontali. In quegli anni ricordo un grande concerto a Correggio dei Disposable Heroes of Hiphoprisy e uno dimenticabile di un'altro gruppazzo rap rurale (che in effetti manco mi ricordo come si chiamavano, forse De La Soul?).
Cos'altro? Vediamo, mi piacque un sacco il primo Jazzmatazz, la colonna sonora di Ghost Dog, ho un disco di Jovanotti e i primi di Eminem. Fine.

Ma avere un figlio di 14 anni aiuta a scoprire cose che beh… sospettavi esistesssero, ma non avevi mai toccato con mano.
E quindi beccatevi questo paio di video. Sono un pezzo di Rancore & DJ Mike e un altro di Salmo.
A quanto pare là fuori i ragazzi si danno da fare.







16 aprile 2012

Letture: Nove gradi di libertà, di David Mitchell

Foto di Giorgio Raffaelli
Dopo aver apprezzato Sogno Numero 9 m'era rimasta la voglia di leggere ancora David Mitchell. Quando mi sono imbattuto in Nove gradi di libertà, venduto a metà prezzo in un reminder, qualsiasi dubbio potessi avere su cosa leggere è stato superato dagli eventi.

Nove gradi di libertà non è propriamente un romanzo, o meglio, lo è quanto una staffetta assomiglia a una gara in linea. I nove capitoli che compongono il volume sono legati l'uno agli altri dalla presenza di un particolare (un personaggio citato en passant, un episodio narrato da un altro punto di vista, una vicinanza geografica o spirituale) che sembra invitare il lettore a dare forma unica alla storie multiple che sta leggendo. Come i racconti hanno tutti una distinta collocazione geografica (si parte dal Giappone, attraversando poi in varie tappe l'oriente fino in Russia, per giungere fino in Irlanda e quindi a New York per il cataclismatico finale), anche il registro che l'autore adotta per narrarli cambia di volta in volta, adattandosi al contesto, alla specificità della storia, alla personalità dei protagonisti.

La mancanza di una voce riconoscibile (se n’era già parlato a proposito di Sogno Numero 9, vedi lo spazio commenti del post collegato) è una delle caratteristiche che rendono unico, almeno per la mia esperienza, un autore come David Mitchell. Le capacità mimetiche dell'autore inglese, e la conseguente organizzazione parcellizzata del suo romanzo, sono però anche il più grosso limite di Nove gradi di libertà. Il costante cambiamento di registro e situazioni che costituisce il nucleo del volume rischia infatti di ridurre il testo, da intensa ed emozionante  riflessione sulla realtà complessa che ci circonda, in mero esercizio di stile, apprezzabile per la qualità della scrittura, ma un poco vacuo nella consistenza delle sue riflessioni.

Nove gradi di libertà scorre comunque che è un piacere. Tra le storie che mi son rimaste impresse voglio ricordare almeno Hong Kong”, “La montagna sacra”, “Clear Island”. In questi racconti si fondono perfettamente personaggi credibili, invenzione narrativa e un'attenzione ai dettagli ambientali che in molti degli altri racconti ho trovato invece carente, vuoi perché in alcuni non sentivo del tutto vera la voce dei protagonisti, vuoi perché altri avevano sviluppo ed esito piuttosto prevedibile, vuoi per una certa inconsistenza della trama. Ma nonostante i difetti evidenziati, la lettura di Nove gradi di libertà rimane un'esperienza piuttosto originale e consigliabile.
La molteplicità di voci e luoghi, la mescolanza di registri narrativi e generi letterari, la ricchezza di punti di vista e riflessioni non fanno rimpiangere il tempo speso tra le sue pagine.

12 aprile 2012

Letture: Dula di Marte, di Joe Haldeman


Foto di Giorgio Raffaelli

Chi segue questo blog sa che ho un debole per Joe Haldeman. Il suo nome sarà sempre legato al romanzo d'esordio, ma anche se non è più riuscito a rivivere i tempi gloriosi di Guerra eterna, Haldeman ha continuato a sfornare, regolare come un metronomo (e sono ormai 40 anni!), romanzi e racconti sempre abbondantemente sopra la media.

La fantascienza di Joe Haldeman ha tutta l'apparenza del prodotto standard. I contenuti delle sue storie sono tra i più classici del genere. Personaggi e situazioni non paiono discostarsi mai troppo dai cliché e dagli stereotipi che hanno fatto la fortuna della letteratura popolare. Ma ci sono due qualità che soprattutto distinguono la produzione dell'autore americano da quella dei tanti che nel corso del tempo hanno battuto e battono le stesse piste.
La leggerezza della scrittura è il motivo principale che mi fa apprezzare Haldeman. Non esiste tema troppo serio che non riesca ad affrontare con una parvenza di sorriso, senza che per questo le sue storie perdano drammaticità di sviluppo e contenuti. L'altro grosso merito che riconosco ad Haldeman è la costante tensione sovversiva che percorre appena sottotesto tutta la sua produzione. Niente di rivoluzionario o scandaloso, ma il semplice accostamento di temi fantascientifici ormai usurati, l'approccio estremamente serio e preparato alla componente scientifica delle sue storie, la brusca sterzata dal già letto al nuovo che avviene immancabile nel corso della lettura, condito con il tono scanzonato della narrazione, sono elementi che contribuiscono a sottolineare una visione non del tutto omologata e decisamente consapevole della fantascienza di Joe Haldeman.

Dula di Marte (Marsbound in originale) è l'ultimo esempio in ordine di tempo (ma il mese prossimo Urania pubblicherà Starbound, seconda parte di quello che dovrebbe essere un trittico), del talento di Joe Haldeman nel giocare con i topoi del genere. Costruito come una scatola cinese, Dula di Marte parte come un romanzo di formazione, con la giovane protagonista in rotta verso Marte con la famiglia, impegnata a prendere le misure di una nuova vita lontano da casa, si trasfoma di colpo in una storia di primo contatto, per poi rivelare nel finale la portata cosmica del disegno narrativo dell'autore.
Dula di Marte appartiene a quella schiera di romanzi che non hanno particolari ambizioni di innovazione. È una storia dal passo divertito ed efficiente caratteristico dei migliori esempi della produzione di genere ed è un ottimo esempio di fantascienza tradizionalmente intesa, capace di regalare qualche ora di piacevole lettura anche al lettore più scafato.

10 aprile 2012

Letture: Il canone occidentale, di Harold Bloom

Il canone occidentale è forse il libro più conosciuto di Harold Bloom. In questo volume Bloom, da molti considerato il critico letterario più influente al mondo, traccia una storia della letteratura occidentale analizzando le opere e gli autori che hanno creato quel canone con cui ogni scrittore si deve confrontare. Partendo da Shakespeare e Dante, Bloom riconosce come canonici altri 24 scrittori (Chaucer, Cervantes, Montaigne, Molière, Milton, Dr. Samuel Johnson, Goethe, Wordsworth, Jane Austen, Walt Whitman, Emily Dickinson, Charles Dickens, George Eliot, Tolstoi, Henrik Ibsen, Freud, Proust, James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda, Fernando Pessoa, Samuel Beckett). Nel volume illustra con competenza e passione i meriti e i limiti di ognuno di loro.

Foto di Giorgio Raffaelli

Avete presente il classico vecchio zio brontolone?
Quello a cui non va bene nulla che non abbia sperimentato personalmente?
Quello che per quanto si guardi in giro quello che vede è solo quello che ha già visto?

Dopo la lettura de Il canone occidentale posso dire che Harold Bloom m'è parso la versione critico letterario di quel vecchio zio.
Fortunatamente il cliché del vecchio zio brontolone ha anche qualche lato positivo, che la competenza, la cultura, la passione di Harold Bloom sono fuori discussione. Grazie ai suoi scritti ho scoperto autori di cui conoscevo a malapena il nome e ho potuto ammirare e approfondire le particolarità di quelli che invece conoscevo solo superficialmente.


Non ne so abbastanza per cogliere tutta la messe di informazioni e suggestioni che Bloom dedica al corpus di titoli e agli autori che ritiene degni di far parte del canone letterario occidentale, ma ci sono due aspetti più volte ribaditi nel volume che mi paiono quantomeno curiosi: l'idea di letteratura come competizione, per cui secondo Bloom gli autori farebbero a gara per superarsi vicendevolmente e la polemica nei confronti dei critici di scuola diversa (quelli devoti al politically correct, ma anche quei critici che - semplifico - vedono legami vicendevoli tra letteratura e società), che Bloom non perde occasione per sbeffeggiare, riducendo a battuta qualsiasi possibile occasione di confronto. E senza la possibilità di confrontare in modo serio e pacato le relative posizioni, l'unico che ci rimette è il lettore comune, che si trova spiazzato di fronte alla stentoreità di certe affermazioni. Anche perché quei criteri estetici che secondo Bloom sono l'unico metro per giudicare un'opera d'arte, assomigliano molto a un voler attribuire valori oggettivi a giudizi che in definitiva (e per quanto condivisibili) sono del tutto soggettivi. Ma mi fermo qua, che dal basso del mio blog non posso certo mettermi a discutere con un nume tutelare della critica letteraria come Harold Bloom.
(Annoto comunque che se mai leggerò Proust sarà per merito di questo volume).

02 aprile 2012

Letture: Perdido Street Station, di China Miéville

È inutile, non riesco proprio a trovare il tempo per proporvi quattro chiacchiere a proposito delle ultime letture (che nel frattempo si vanno accumulando: ho ormai largamente superato la dozzina di volumi di cui vorrei parlare, toccherà trovare un modo per spendere almeno due righe due per molti dei libri degli ultimi mesi… vedremo). Cerco di porre parziale rimedio riproponendo quel che scrivevo nel lontano 2004 a proposito di Perdido Street Station, primo romanzo di China Miéville tradotto in italiano.
Queste note erano disponibili nel mio vecchio sito, in una versione leggermente diversa. Le ripropongo qui e ora un po' perché il nome di Mieville è saltato fuori nei commenti agli ultimi post, un po' perché ho finito di leggere da poco La città & la città, e beh… i due romanzi hanno qualche caratteristica comune.

Foto di Giorgio Raffaelli


Perdido Street Station è un buon romanzo, con idee notevoli e immagini memorabili, penalizzato da qualche passaggio troppo interlocutorio e da un protagonista non sempre convincente.

Ma andiamo con ordine.

Tra gli aspetti memorabili nel romanzo al primo posto va citata la città di New Crobuzon, vera protagonista di Perdido Street Station: un mix tra una Londra vittoriana ancor più decadente, un'invenzione di Jeronimus Bosch e la Gotham City di qualche Batman ben riuscito. L'incrocio tra magia, tecnologia al vapore e il grottesco melting pot che caratterizza il mondo del romanzo è un altro dei motivi d'interesse del libro. Mentre la scrittura di China Miéville, per quanto a volte rischi il didascalico e lo stucchevole, riesce sempre a salvare capra e cavoli (ma non il formaggio...).

Anche la vicenda, una volta decollata, diventa interessante e sufficientemente appassionante. Dal mio punto di vista, il problema del romanzo sta forse nell'eccessivo stacco tra la parte introduttiva e quella in cui si sviluppa (finalmente!) l'azione. Il secondo quarto del romanzo è infatti eccessivamente e inutilmente pesante: crea un continuo senso di aspettativa nel lettore ribadendo più e più volte situazioni di tensione senza mai farle esplodere nelle loro conseguenze, tanto che, quando infine la situazione precipita, lo fa in maniera quasi scontata e liberatoria (penso per esempio a tutta la storia del bruco, dopo un po' non se ne poteva più...).

L'altro difetto del romanzo sta tutto nel protagonista (in uno dei protagonisti): Isaac Dan der Grimnebulin. Per certi aspetti Isaac è gestito benissimo dall'autore, ma mi ha dato la sensazione (che non saprei spiegare meglio) di essere leggermente fuori sincrono con la realtà che lo circonda. Isaac è un personaggio troppo facilmente riconducibile al nostro continuum spazio-temporale e la sua maniera di pensare e di agire è troppo da occidente-fine-XX-secolo per non risultare fuori posto nell'universo assai diverso del romanzo.

Perdido Street Station è comunque una romanzo consigliabile, un originale incrocio tra i generi, un grandioso affresco sociale a metà strada tra il grottesco e l'antropologico e (soprattutto?) un'avventura divertente, commovente e appassionante. Tutti ingredienti indispensabili per un'ottima lettura.