18 febbraio 2020

Visioni: Angels in America

"BELIZE: Big city. Overgrown with weeds, but flowering weeds. On every corner a wrecking crew and something new and crooked going up catty corner to that. Windows missing in every edifice like broken teeth, gritty wind, and a gray high sky full of ravens.
ROY COHN: Isaiah.
BELIZE: Prophet birds, Roy. Piles of trash, but lapidary like rubies and obsidian, and diamond-colored cowspit streamers in the wind. And voting booths. And everyone in Balenciaga gowns with red corsages, and big dance palaces full of music and lights and racial impurity and gender confusion. And all the deities are creole, mulatto, brown as the mouths of rivers. Race, taste and history finally overcome. 
And you ain't there.
ROY COHN: And Heaven?
BELIZE: That was Heaven, Roy."

Non so come ho fatto in tuti questi anni a non aver mai sentito nominare Angels in America. Ok, il titolo non sarà dei più invitanti, e all'epoca dell'uscita (ormai la serie ha quasi vent'anni) le chiacchiere a proposito delle serie TV non erano certo così diffuse. Ma in ogni caso è strano, che la qualità del progetto, il cast (da Al Pacino a Meryl Streep, da Emma Thompson a Jeffrey Wright, per citare solo i più noti), la potenza della narrazione, i dialoghi, le cose semplicemente strane che spuntano qua e là, l'argomento tragico (Aids, anni '80, USA) trattato in modo così brillante… come ha fatto una serie così straordinaria a passare sotto il mio radar?

Per fortuna Angels in America è saltato fuori in una conversazione con Chiara e Irene qualche tempo fa, e per come ne hanno parlato, per il brillio nei loro occhi, bé, non potevo non dargli una possibilità.
E, wow! Angels in America  non soffre per nulla gli anni passati dalla prima messa in onda, rimane una cosa commovente, divertente, dolcissima e arrabbiata.
Una meraviglia.

01 febbraio 2020

Letture: Melancolia della resistenza, di László Krasznahorkai


E questo sarebbe il famoso giorno del giudizio? Inghiottiti in silenzio da un mare d’immondizia, senza tante cerimonie, senza squilli di trombe e cavalieri dell’apocalisse? Tutto sommato,” Ester si aggiustò la sciarpa, “non ci sarebbe da stupirsi per un finale così” […]”
(da Melancolia della resistenza, di László Krasznahorkai, traduzione di Dora Mészàros e Bruno Ventavoli)


Ho sentito parlare per la prima volta di Krasznahorkai da Valeria Lattanzio credo ormai un paio di anni fa, che con i suoi pezzi dedicati all’autore ungherese mi aveva incuriosito assai. Ci ho messo un po’ ad arrivarci, ma infine eccomi, dopo aver terminato Melancolia della resistenza, a ringraziare Valeria per il consiglio, e a suggerirne a mia volta la lettura a tutti i passanti curiosi.

Melancolia della resistenza è davvero impressionante: per la scrittura travolgente dell’autore, per i ritratti terribili e commoventi dei suoi personaggi, per l’atmosfera e gli ambienti che tratteggia, che riescono ad essere insieme apocalittici e quotidiani, desolati e disumani, e sempre in bilico tra familiarità e inquietudine, per le digressioni filosofico/morali che accompagnano il testo senza distruggerlo, offrendo invece ulteriori livelli di lettura e suggestione e infine per quell’impalpabile umorismo che a volte fa capolino, timido, tra una scena e l’altra. 

Melancolia della resistenza è un ritratto magnifico e spietato dei tempi che stiamo attraversando. Un romanzo che parla la lingua della violenza e della sopraffazione, della decadenza e della distruzione, e infine della resistenza, vana forse, ma inevitabile e sì, melanconica, di chi non può o non riesce ad adeguarsi al vuoto che ci divora.
 
Leggerlo è stata un’esperienza straordinaria.