15 aprile 2013

Letture: La camera chiara, di Roland Barthes

© giorgio raffaelli
È la prima volta che mi capita di leggere un testo teorico sulla fotografia. L'occasione mi è stata fornita dai genitori della squadra di rugby di mio figlio che mi hanno regalato La camera chiara. Nota sulla fotografia al termine della scorsa stagione sportiva. Leggere le note che un grande pensatore come Roland Barthes ha scritto su un'attività che mi ritrovo a praticare anch'io è stata un'esperienza interessante. La camera chiara offre punti di vista inconsueti e molte ragioni per meditare su quel che significa scattare, osservare e quindi condividere una fotografia con persone che non hanno esperienza diretta dell'istante immortalato. Nelle riflessioni che Roland Barthes offre al lettore ci sono un sacco di spunti interessanti, ma ci sono anche un paio di buchi, che se sono in parte comprensibili, per altri versi appaiono invece piuttosto curiosi.

L'assenza più evidente - il volumetto risale agli anni '80 dello scorso secolo - è la mancanza di qualsiasi considerazione sull'evoluzione digitale della fotografia, sul cambiamento nell'uso e nella distribuzione delle immagini, sull'accesso globale a strumenti di elaborazione che hanno eroso poco a poco la visione della fotografia come riproduzione oggettiva della realtà. Se quest'aspetto potrebbe aver fatto invecchiare anzitempo La camera chiara, ciò non avviene perché buona parte delle note sulla fotografia del pensatore francese si riferiscono alla modalità di percezione della foto, alla possibilità insita nel medium di veicolare messaggi personali e interpretazioni generali, al suo ruolo sociale e al riflesso individuale della sua fruizione, tutti aspetti del rapporto tra fotografia e individuo e società ancora attuali e stimolanti.

Quel che secondo me manca nelle note di Roland Barthes è il passaggio successivo nella riflessione sull'ìnterazione tra osservatore, fotografia, fotografo, che nel testo è sì fondamentale, ma che rimane ferma alla sua dimensione statica, istantanea. Ne La camera chiara non si fa alcun cenno a quel che a me pare uno dei fattori fondamentali nel rapporto tra osservatore e fotografia, ovvero le potenzialità narrative che caratterizza l'immagine fotografica, capace di evocare storie e stimolare l'immaginazione, proprio a causa del suo essere focalizzata su aspetti sempre parziali, e dunque inevitabilmente soggettivi, della realtà. Perché se è vero - come dice Barthes - che le immagini bloccate dallo scatto fotografico sono riflessi di morte, e i soggetti fotografati sono destinati a diventare fantasmi del passato, è anche vero che l'atto di osservare riporta in vita e rigenera quell'istante e offre a chi guarda la fotografia una possibilità di invenzione che nessun altro media è capace di offrire in modo così istantaneo. Non succede sempre, ma quando capita è un bel momento.

A me pare che in nessun altro tipo di rappresentazione del reale il potere catalizzatore dell'oggetto osservato sia così evidente come quando si osserva una fotografia (l'unico altro medium che si avvicina a ottenere gli stessi risultati è il cinema). Un'immagine fotografata è (quasi) incapace di comunicare all'osservatore altro da quel che quest'ultimo trasmette all'immagine stessa, in un circuito di feedback - positivo o negativo che sia - che è tanto potente quanto elementare. Non se se Roland Barthes sarebbe d'accordo con questo punto di vista, ma mi pare che nell'impossibilità di definire un canone estetico univoco che riguardi tutta l'arte fotografica ci sia più di un legame con la sua eccessiva immediatezza e popolarità, intesa come accessibilità generalizzata al mezzo e ai suoi risultati: oggi siamo tutti fotografi.
Ma se siamo tutti fotografi, allora la fotografia si riduce al riflesso morto di una realtà disfatta, che preferiamo osservare, condividere e ricordare con il filtro di una macchina fotografica davanti agli occhi, piuttosto che viverla e quindi modificarla in prima persona. Immagini forti per retorica spicciola, ma comode per concludere queste note su La camera chiara e tornare in maniera circolare a Roland Barthes che riflette, lui ormai anziano, sull'immagine della madre giovane, paradossalmente sconosciuta nella foto scattata prima della nascita dell'autore. Un momento commovente, in un testo peraltro piuttosto complesso, ma anche istante rivelatore, in cui si giunge a chiedersi quanto in quelle vecchie stampe sia davvero reale, quanto sia immaginazione, quanto ricordo. Con il Tempo, e la Storia, a separarci dal momento indimenticabile dello scatto.

09 aprile 2013

Letture: I senza-tempo, di Alessandro Forlani

© giorgio raffaelli
Probabilmente I senza-tempo è stato il romanzo di fantascienza italiana di cui s'è parlato di più l'anno scorso. Vincitore del Premio Urania, collocabile dunque in una tradizione che negli ultimi anni non è stata delle più fortunate, il romanzo di Alessandro Forlani ha superato brillantemente le forche caudine della critica nostrana.
Se le recensioni positive superano ampiamente quelle negative, c'è da notare come queste ultime si siano soffermate soprattutto su due aspetti marginali de I senza tempo: la sua lunghezza (che il romanzo è invero piuttosto breve) e la sua collocabilità o meno all'interno del genere fantascienza.
Critiche dunque piuttosto trascurabili rispetto al testo dato alle stampe da Forlani, ma critiche in fondo condivisibili, se per voi collocazione di genere e quantità di testo sono aspetti importanti.
Per me non lo sono e se devo esprimere qualche nota critica mi piacerebbe piuttosto sottolineare gli aspetti che a fine lettura mi hanno suscitato qualche dubbio.

Le qualità del romanzo sono note: ottima scrittura, buon ritmo, personaggi ben caratterizzati, azione e orrore quanto basta. Quelli che per me sono i punti deboli de I senza tempo non riguardano quindi lo sviluppo narrativo del romanzo, né la sua capacità d'intrattenere il lettore o il suo valore letterario. I difetti hanno piuttosto a che fare con quello che da più parti è stato indicato come il "messaggio politico" del romanzo. 
I senza-tempo indica esplicitamente qual è, secondo l'autore, il problema principale della società italiana: la gerontocrazia imperante, che succhia energie alle nuove generazioni, ne impedisce l'accesso ai centri di controllo, governa in moto autoreferenziale e arbitrario le sorti della nazione. Le mie perplessità  riguardano la modalità scelta da Alessandro Forlani per presentare la problematica al lettore e la strategia di risoluzione drammatica adottata. Perché se è vero che lo stato della nazione è presentato nel romanzo in maniera credibile e controllato, è anche vero che il personaggio scelto per esprimere narrativamente l'orrore della gerontocrazia al potere è anche l'unico in tutto I senza-tempo che abbia un briciolo di carisma. Certo, Monostatos ha il piccolo difetto di essere cattivo cattivo (diavolo! mangia i bambini!) ma al confronto della manica di giovani sfigati che lo contrastano o dei vecchi barbogi che lo temono beh… ti vien da tifare per lui: è l'unico che sogna un futuro diverso, l'unico che lavora per costruirlo, l'unico davvero appassionato a quello che fa e beh… credo che in fondo sia anche l'unico a divertirsi.
Se questo aspetto del romanzo rischia di deviarne la prospettiva, lo sviluppo risolutivo della trama rischia di minarne la consistenza narrativa: come inserire nel contesto politico del romanzo la scelta di conferire ai media il potere di cambiare le cose? Dove ha vissuto l'autore negli ultimi vent'anni? Fortunatamente quest'aspetto della trama rimane piuttosto laterale, e il lettore può continuare a divertirsi seguendo le vicissitudini del giovane carrista nazifolle o della procace guerriera in costume, anche se arrivati in fondo rimane il sapore di un romanzo che, per quanto buono, non mantiene fino in fondo quanto promesso.
A corredo de I senza tempo, per rimpolpare un volume altrimenti un po' scarno, una serie di racconti collegati per ambientazione e tematiche al romanzo. I racconti si lasciano leggere, ma appaiono nel complesso piuttosto prevedibili e scontati. Unica brillante eccezione All'inferno, Savoia! che chiude in maniera memorabile il lavoro di Alessandro Forlani, coniugando storia alternativa, sviluppo drammatico, omaggi agli amici e un inferno che più barocco di così non si può.

Ultima annotazione sull'edizione del volume che m'è capitato di leggere. Mondadori ha distribuito I senza-tempo in ebook senza DRM (e questo è lodevole) con qualche mese di ritardo rispetto all'edizione cartacea, senza fornire alcuna informazione preventiva sulla data di uscita dell'edizione digitale. Sono mesi che la questione "urania in ebook quando come dove e perché" è in attesa di una risoluzione, ad oggi tocca ancora navigare a vista, arrangiandosi per la ricerca degli ebook urania nei vari negozi on-line, senza alcuna informazione certa da parte dell'editore su date di uscita e disponibilità dei vari volumi. Ormai non mi auguro nemmeno più che la situazione possa cambiare, ma da lettore mi pare doveroso segnalare il disagio, che a causa di questa politica editoriale ho rinunciato a titoli che altrimenti avrei letto con curiosità.