28 giugno 2011

Letture: Fowler, Gaiman, Faulkner


Foto di Iguana Jo.

Karen Joy Fowler - What I Didn't See
È splendida questa antologia! Doveroso è dunque un bel grazie a Marco che me l'ha consigliata.
Karen Joy Fowler si muove come un'equilibrista attraversando tutto lo spettro della scrittura di genere, dal fantasy alla fantascienza passando per l'horror, per approdare - spesso all'interno della stesso racconto - a territori che sono quelli propri della narrativa mainstream. La sua capacità di ritrarre i personaggi femminili nel loro rapporto con il mondo esterno, mai troppo sereno, ma mai di aperto conflitto, m'ha ricordato molto i racconti di Alice Munro, mentre la palpabile atmosfera perturbante è la stessa percepibile nei migliori racconti di James Tiptree o di un Lucius Shepard al meglio della forma. In effetti una delle cose più sorprendenti di questa antologia è stata vedere come questi racconti siano stati pubblicati per la maggior parte in riviste di genere, quando spesso l'appiglio fantastico delle storie è davvero minimo.


Neil Gaiman - Il figlio del cimitero
Vi piace Neil Gaiman? Allora probabilmente apprezzerete molto anche Il figlio del cimitero. Non lo sopportate? Non provateci nemmeno a leggere questo romanzo, che racchiude in qualche centinaio di pagine tutto ciò per cui Gaiman è diventato uno standard all'interno del genere fantastico: la riproposta in chiave favolistica di più di un mito in versione pop, la creazione di atmosfere al contempo drammatiche e rassicuranti, un plot avvincente e personaggi carismatici.
Per quanto io continui ad apprezzare l'autore inglese, mi rendo conto che la sua scrittura s'è ormai assestata su un piano da cui pare proprio non volersi più evolvere. Eppure io sono convinto che avrebbe tutte le capacità per proporsi in territori nuovi, per esplorare qualche zona oscura non troppo battuta. Speriamo che prima o poi si decida a correre qualche rischio in più…


William Faulkner - Mentre morivo
William Faulkner è un pezzo da novanta della letteratura del novecento. Uno di quegli autori per cui mi sento perennemente in soggezione, vuoi per la loro capacità immaginifica vuoi per il loro genio compositivo. Qualche tempo fa ero rimasto folgorato da L'urlo e il furore, un romanzo pazzesco per scrittura e contenuti, ora invece Mentre morivo mi ha travolto per il talento unico di Faulkner nel mescolare alto e basso e, come scrivevo qualche tempo fa da Re Ratto, "nell'unire epica e miseria, umanità e disperazione: dalla scelta dei personaggi, all'uso del linguaggio, dal legame indissolubile con l'ambiente, all'universalità della vicenda".
In Mentre morivo si respira l'aria pesante del sud rurale degli States. Ci si sporca con la terra e con il fango, si percepisce l'odore di morte e il desiderio, la vita che urla e che lotta, inutilmente, che non c'è possibilità di riscatto e la redenzione è un'illusione. William Faulkner è un gigante americano e i suoi personaggi sono fatti della stessa sostanza profonda e infetta di cui son fatti gli Stati Uniti.

24 giugno 2011

Jonah Lomu


Foto di Iguana Jo.

Ieri Jonah Lomu era a Modena e io ne ho approfittato per fare qualche foto. Questa sopra mi piace particolarmente per cui, oltre a postarla su flickr, ho pensato bene di condividerla anche con gli amici che seguono il blog.

Come? Chi è Jonah Lomu???
Va bene, ok. Capisco. Dopotutto il mondo del rugby non è così conosciuto da 'ste parti.

Jonah Lomu è probabilmente il giocatore di rugby più famoso della storia. Uno dei pochi capaci da solo di rivoluzionare l'impostazione di un ruolo, quello dell'ala, che sembrava immutabile.
Per capire il talento atletico di quest'uomo guardatevi questi video: ‪The Best of Jonah Lomu‬ Part 1 / Part 2.

Insomma, vedere ieri Jonah Lomu dal vivo è stato un po' come incontrare un supereroe dei fumetti.
Come in tutte le occasioni simili son fioccate le foto ricordo e dato che son notoriamente umile e vergognoso, vi mostro la mia.

La foto l'ha scattata Jacopo, ma mi assumo ogni responsabilità per la qualità dell'immagine che lo so, lo so, è quella che è, ma oh… c'ho quella faccia lì.

Che dite?
Forse postare la foto di Lomu da solo era sufficiente?

22 giugno 2011

Praga


Foto di Iguana Jo.

Come promesso, ecco alcune impressioni sparse sulla città di Praga.
Queste note sono frutto di quel paio di giorni trascorsi per le vie del centro o a spasso tra metro e bus per le sue periferie e sono ben lontano dal rendere un'idea compiuta di un luogo come la capitale ceca, ma tant'è. Ecco quel che mi ha colpito:
- Praga me l'immaginavo oscura, tenebrosa, con palazzi grigi, qualche sprazzo dorato e un'atmosfera gotica. Mi sono ritrovato invece in una città luminosa, tirata a lucido, luccicante di insegne e vetrine e torri medievali.
- Lungo le superstrade che dalla periferia conducono in centro è un proliferare di nuovissimi palazzi corporativi vetro e acciaio, addobbati con tutti i loghi multinazionali del caso. È quasi con riconoscenza che vedi spuntare qualche rimasuglio di brutale edilizia comunista.
- La disneylandizzazione del centro storico mi ha impressionato. Tutto è in vendita. Ovunque, comunque, sempre a misura di turista. I monumenti trasformati in gadget non sono certo un'esclusiva praghese, ma mai come in questa città ho avvertito una sintesi così uniforme tra passato secolare e turismo globalizzato. Il presente, inteso come offerta culturale locale, è bandito dalla città dei turisti.
- Il puttanodromo notturno. Nella notte praghese non puoi fare 50 metri senza essere abbordato da una fauna locale composta da giovani simil-tossici, neri imperturbabili o vecchi sporcaccioni che ti invitano a gustare le bellezze del posto. Il tutto con una flemma surreale e un'aria di normalità al limite del grottesco.
- Quello che esportiamo: "Bunga bunga", "italia uno", "analebrutale", questo il coro che ci ha accompagnato per le stesse vie che di giorno proponevano souvenir, cartoline e salsicce. C'è di che essere orgogliosi delle proprie origini.
. La birra è buona (e costa poco) e il cibo non è affatto male, anche se dopo quattro giorni di salsicce e gulasch, beh… un po' di nostalgia di casa ti viene.

L'impressione più forte che mi son portato a casa da Praga è quella di una città con l'anima smarrita, che ha visto i soldi facili dell'ubriacatura post comunista e non è più riuscita a ritrovar la bussola. Una città aggrappata a un passato fantastico, con i segni tangibili di una ricchezza recente, ottenuta probabilmente al prezzo di una personalità che credevo di trovare e che invece sfugge.
Mi piacerebbe però tornarci, dopotutto queste impressioni non hanno nessuna pretesa di verità, magari per vagare un po' di più all'esterno della città, per esplorare un panorama che è comunque meglio di quanto immaginassi.

17 giugno 2011

Ehi! Ho vinto!


Foto di Iguana Jo.

La foto qui sopra, intitolata Exodus è stata scelta come foto del mese dalla rivista New Scientist.
Il tema del concorso era "Migration" e beh… la foto sopra parla da sola.

Nella presentazione dell'immagine, la redazione di New Scientist è però incorsa in un comprensibile equivoco: "Italian photographer Giorgio Raffaelli's image of humans on the move was the overall winner this month. His atmospheric picture of people walking across the desert conveyed to our judges a sense of struggle and determination against the odds."

La foto non è stata scattata in alcun deserto, bensì in Francia alla Duna del Pyla.
Le persone ritratte nella foto non sono migranti, ma turisti e bagnanti di ritorno da una giornata trascorsa sulle spiagge atlantiche della Gironda.

Il titolo stesso voleva essere un'ironica sottolineatura della situazione, enfatizzata dal trattamento che ho riservato all'immagine in fase di post-produzione.

Ora, io vorrei comunicare tutte queste belle cose a New Scientist, ma nel loro sito non sono riuscito a trovare un'email utilizzabile. Quindi, nel caso qualcuno interessato alla vicenda passasse fortuitamente da queste parti, questa è la versione inglese della spiegazione di cui sopra (ogni eventuale correzione è benvenuta):


Dear New Scientist people,
this picture of mine wasn't taken in a desert. It was shot on the Great Dune of Pyla in France. The people you see ain't no migrants, but tourists and bathers going back to their cars from a day spent on the beach.
The title itself was ment as an ironic emphasis of the situation, enhanced by the postproduction work on the picture.
I like this picture a lot, both for its appearance and for its meaning.
I hope you like it as well, even now that you know the truth behind it.

16 giugno 2011

"Non sono gli anni, …"



"…sono i chilometri."
mmm… per quanto io rispetti la parola di Indy, inizio ad avere un'età per cui sì, certo, l'esperienza, i chilometri, contano un sacco, ma anche gli anni sul groppone iniziano a farsi sentire.
Voglio dire, io ho giocato sabato, però ancora lunedì avevo gambe dure e schiena a pezzi, vorrà pur dir qualcosa, no?
E a me è andata bene, son riuscito a tornare a casa sulle mie gambe.
Questa volta infatti la trasferta in terra straniera per il III Prague Old Ham non è andata nel migliore dei modi per la nostra squadra. La sfiga sembra essersi accanita contro di noi, tanto che, nel giro di dieci minuti di gioco, durante la seconda partita del torneo, due mie compagni, due amici, son finiti all'ospedale.
Certo, giocando a rugby la possibilità di un infortunio va messa in preventivo, ma anche a sentire i giocatori più esperti, gente che è trent'anni che gioca a rugby, una serie così sfortunata di eventi è davvero rarissima. Sfiga, appunto. Tra ieri e l'altro ieri i nostri compagni sono tornati entrambi a Modena. Non si sa ancora per quanto ne avranno tra ricovero e riabilitazione, di certo con il rugby per un po' hanno chiuso.

Nella sfortuna del momento ho potuto ancora una volta apprezzare quello che è poi la qualità principale di questo sport. Il sostegno agli amici, la solidarietà che non è mai solo verbale ma pratica, attiva e tangibile, la vicinanza e il farsi in quattro per risolvere tutti quei problemi logistici che una situazione d'emergenza come quella venutasi a creare ha comportato. Anche perché, e questa è la nota più dolente di tutta la trasferta, nessun supporto è arrivata dall'organizzazione del torneo cui abbiamo partecipato. Una volta caricati i nostri amici sull'ambulanza, tutto il resto è stato lasciato a noi. (unica eccezione Tereza, una delle due ragazze che, parlando ceco e inglese, ci facilitavano le comunicazioni e ci accompagnavano nei nostri spostamenti. Tereza ci ha affiancato fino a sera nella difficile gestione del rapporto con medici e infermieri all'ospedale e per questo s'è guadagnata tutta la nostra gratitudine.)
Certo, dal punto di vista organizzativo il club ceco che ha messo in piedi l'evento non ha nulla di cui rimproverarsi. Quello che è mancato è stato il cuore: la voglia e la capacità di partecipare a quella che poteva essere un'occasione d'incontro, una festa, e invece s'è limitato ad essere un semplice torneo. (Un paio di esempi: dopo quel che è successo nessun giocatore ceco ha chiesto notizie sulla situazione o sullo stato di salute degli avversari infortunati. E ancora: durante il terzo tempo ricordo con piacere la festa delle squadre francesi e italiane e quei pazzi degli inglesi, le quattro squadre locali son praticamente scomparse… Chi frequenta il rugby sa quanto questi comportamenti siano poco affini a quello spirito che contraddistingue questo sport, soprattutto nella sua versione old.)
Tant'è. Ma, a parte tutto, io in campo mi son comunque divertito. Soprattutto durante la terza partita giocata sotto la pioggia contro la squadra inglese del St. Bernadette di Bristol e vinta dal Modena per due mete a una.

Per la cronaca il torneo è stato vinto dalla locale squadra dei Praga Old Boys che ha sconfitto i francesi del Ruines de Cayac per una meta a zero (da notare che i cechi han giocato quasi tutto il primo tempo in sedici, senza che l'arbitro se ne avvedesse…).

Detto del rugby, mi rimane da riportare l'impressione turistica lasciata dalla città di Praga. Ne riparliamo nel prossimo post.

Ah… dimenticavo, le foto!
Le foto arriveranno non appena troverò il tempo per sistemarle, che mannaggia a me, son più di mille…
(Quella su in alto l'ha scattata Ucco, tra il primo e secondo tempo della partita con il St. Bernadette.)

Stay tuned!

08 giugno 2011

Rugby a Praga

Domani sera parto per Praga con la squadra dei Modena Rugby Veterans. Andiamo in Cechia per partecipare al Terzo Old Prague Ham.
Si va a giocare a rugby, con tutto quel che comporta di contorno, ma dovremmo avere anche un po' di tempo per fare i turisti.

Per quanto ne abbia sempre sentito parlar bene, io non sono mai stato a Praga. Quindi fatevi avanti, signore e signori, e ditemi cosa c'è da quelle parti di assolutamente imperdibile. Che sia da visitare o da assaggiare, da esplorare o da ascoltare, se avete qualche consiglio sono tutti benvenuti!
Grazie!

07 giugno 2011

Tree of Life


Immagine caricata da bswise.

Considerando Giobbe quale nume tutelare dell'opera, credo proprio che Shit happens sarebbe stato il sottotitolo ideale per Tree of Life. Il film di Terrence Malick non concede però nulla al suo pubblico e un simile sottotitolo avrebbe avuto tutta l'apparenza di una strizzatina d'occhio, un tocco di postmoderna ironia col potenziale distruttivo di uno slogan fuori contesto. Tree of Life è infatti un film serissimo, pesante come una lezione di religione, sopraffacente per il suo carico simbolico, magnifico per la capacità di scardinare le aspettative di un pubblico che inizia la visione con ancora negli occhi il trailer di Transformer 3.

Tree of Life è bellissimo, le immagini sono meravigliose, la colonna sonora stupefacente. Malick ha in mano un telecomando divino con cui saltare dal canale del National Geographic a uno speciale sulla nuova architettura, a un film (ehi! davvero!) di Terrence Malick ambientato negli anni '50. Il tutto con tempi perfetti, suoni perfetti, e, meraviglia dopo meraviglia, sguardo perfetto.

Bisogna essere nella giusta disposizione d'animo per godersi un film come Tree of Life. Bisogna crederci, probabilmente.
Malick parte in un modo che non lascia dubbi sul contesto in cui si muoverà: il mondo, l'universo, la vita, funzionano così, prendere o lasciare. È come la dicotomia western dell'uomo con la pistola carica e di quello che scava. Alternative non paiono esserci. Punto. Sì parla di Dio, mica bruscolini.
E un dio come quello di Malick, per quanto indifferente, è maledettamente ingombrante, specie per chi non sente nessuna esigenza di divinità, nessun bisogno di spiegazioni esterne, nessuna necessità di un quadro più ampio. Per me dire "la vita non ha senso" è quanto di più liberatorio si possa esprimere riguardo al mistero che ci circonda, e vedessi proiettare per le due ore e rotti di Tree of Life la parabola, al contempo spietata e consolatoria, del dio americano di Malick è quasi intollerabile.
Quasi.
Perché Malick non è un predicatore, e per quanto il suo film sia ricolmo di ogni bendiddio, la sua maestria gli permette di colpire anche lo spettatore senza senso del divino e la sua umiltà rifugge da ogni retorica.

In effetti se accantoniamo per un attimo il problema della presenza di Dio in Tree of Life rimangono ancora un sacco di cose da guardare, su cui riflettere, da meditare.
C'è la memoria, la famiglia e il ricordo dell'infanzia. Vale a dire la storia di Jack, primogenito della famiglia O'Brien su cui si riversano inarrestabili i sogni di riscatto del padre e l'amore silenzioso della madre. In questa storia, montata per scatti ed episodi, c'è più di un momento in cui pare di essere piombati nel diario personale di un vecchio signore tutto preso a riconsiderare il percorso di una vita. Questa visione oltremodo personale riunisce insieme la mancanza di una storia lineare con l'evidente partecipazione al destino della famiglia O'Brien. È un cinema che getta ponti e cerca contatti con il percorso dello spettatore, che inevitabilmente cerca similitudini e differenze ma che, per la sua stessa natura personale, risulta sempre monco, incompleto. Se non fosse per lo straordinario mestiere di Malick nel creare tensione col semplice uso di macchina e montaggio, con pochissime parole, con gli sguardi e i silenzi dei suoi protagonisti, con il continuo controcanto tra uomini e natura, credo che a metà film ce ne saremmo andati, che la vita quotidiana nella provincia cristiana non è proprio spettacolo così eccitante.

Alla riflessione sul percorso di formazione personale, legato a doppio filo con l'educazione cristiana che domina la vita familiare dei protagonisti, si sovrappone la ricerca di una risposta al mistero dell'esistenza, che non si riduce a un semplice e consolante fideismo ma si arricchisce di un meraviglioso excursus sull'origine e l'evoluzione della vita sul pianeta. La porzione documentaristica della pellicola - non saprei come meglio definirla - è straordinaria per l'impatto delle immagini, e fornisce un grandioso accompagnamento in levare alla visione religiosa altrimenti intollerabile che plasma e forma il contesto metafisico del film (ehi! ci sono perfino i dinosauri!).
(Non so se a qualcun altro ha fatto lo stesso effetto, a me quella porzione di film è parsa una risposta, altrettanto potente e allucinatoria, al viaggio finale di Bowman in 2001: Odissea nello spazio. E quando ho visto il nome di Douglas Trumbull nei titoli di coda, beh… non m'è parso così strano. Ma forse son io che sono tarato.)

A chiudere il cerchio e sintetizzare in un finale la storia di Jack, quella della sua famiglia, il percorso religioso e quello sulla memoria ecco di nuovo Jack, adulto e realizzato, interpretato da Sean Penn con la sua migliore faccia da lottatore stanco. Il Jack adulto sembra aver scelto la fuga dalla natura che ha accompagnato la sua infanzia per rifugiarsi in una fortezza della solitudine fatta di vetro e acciaio, bellissima e freddissima. Ma Jack ricorda, e nel suo ricongiungersi con il fratello, con la famiglia e con tutti gli altri abitanti della sua memoria su quella spiaggia, a metà strada tra immaginazione e paradiso, cerca un'impossibile sintesi tra religione e razionalità, lasciandosi sopraffare dalle emozioni.

Tree of Life è un film difficile da mandar giù, forse per i richiami profondi alla mia storia personale, che nonostante i percorsi divergenti ed esiti parecchio diversi da quelli proposti da Malick, non può evitare di risuonare al tocco di più di una corda sensibile (anche se questo potrebbe semplicemente voler dire che sono ormai vecchio abbastanza per commuovermi al ricordo melanconico del tempo passato). O forse Tree of Life è uno di quei rari film che ti piglia per esasperazione, che è troppo bello per lasciarti indifferente nonostante l'intollerabile sentenziosità di alcuni momenti. Tree of Life è perturbante e malinconico, misterioso e meraviglioso. Distante, eppure così vicino.
Comunque la si pensi, io dico grazie a Terrence Malick, che è riuscito a scuotermi di dosso noia e disincanto e mi ha fatto spalancare gli occhi, di nuovo, con il suo cinema.