31 dicembre 2013

Letture 2013: diamo i numeri.

© giorgio raffaelli
 Siamo al 31 dicembre e anche per quest'anno ce la facciamo! Ecco qui, solo per voi, il post di fine anno, con tutti i numeri che contano per tirare le somme di questo 2013.

Quest'anno ho letto 46 libri, tra ebook (21) e volumi cartacei (25). Andando a vedere l'elenco degli autori, tolte le antologie e i volumi multitautore (3), solo otto dei rimanenti 43 volumi sono stati scritti da autrici. Anche se il tasso di qualità di questi volumi è decisamente più alto di quanto siano riusciti a combinare i corrispettivi maschili (vedi più in basso), questo è un dato che mi dà sempre da pensare. Tutti gli anni mi ripeto che dovrei prestare più attenzione all'universo femminile ma poi, a tirar le somme, i risultati son questi. Qualche ipotesi sulle cause? L'abitudine a privilegiare territori conosciuti (e quindi autori già letti in precedenza, titoli sicuri)? La minor presenza di autrici tra i generi di libri che prediligo o tra quelli che attirano la mia attenzione? Un pregiudizio silente su quel che combina l'altra metà del cielo? Mah…

La letteratura di genere (fantascienza soprattutto, con qualche puntata nel fantastico tout court) ha rappresentato l'esatto 50% dei volumi letti, ma la quantità non è andata a discapito della qualità, che quest'anno tra i lbri che più ho apprezzato la fantascienza se la gioca alla pari con la letteratura seria.

Tra i titoli da ricordare vanno citati senza dubbio L'italiana di Joseph Zoderer, Moxyland di Lauren Beukes, Wild Life di Molly Gloss, Respirazione artificiale di Ricardo Piglia e Surface details di Iain M. Banks.



Se i cinque titoli qui sopra sono senz'altro il meglio di quanto letto nel 2013, non vanno nemmeno dimenticati i due romanzi di Richard K. Morgan The Steel Remains e The Cold Commands, Limonov di Emmanuel Carrère e poi In Great Waters di Kit Whitfield, Sun of Suns di Karl Schroeder, o l'esordio fantascientifico di Ann Leckie: credo che Ancillary Justice farà parlare parecchio di sé nel prossimo futuro. Tra le produzioni nostrane la maggior soddisfazione m'è arrivata dalla lettura delle Quattro apocalissi di Andrea Viscusi, subito doppiate da Spore. Non ho ancora avuto modo di parlare di quest'ultimo volume (come di molti altri citati più sopra), ma non posso che consigliarne la lettura urbi et orbi, che le storie di Andrea sono quanto di meglio la fantascienza italiana abbia da offrire al lettore curioso. Tra gli altri titoli italiani da segnalare ci sono la mia personale scoperta di Giorgio Scerbanenco (arrivo tardi, ma arrivo…), che il suo Centodelitti è uno di quei volumi capaci da soli di illuminare il percorso di qualsiasi lettore e citare ancora una volta, che non lo farò mai abbastanza, La rabbia dentro di Lui Tasini.



Il blog quest'anno ha un po' battuto  la fiacca, sia come contenuti che, logica conseguenza, come visite e seguito. Il fatto di aver cambiato lavoro all'inizio dell'anno, ed essere stato quindi costretto per questo motivo a ridurre di molto la mia presenza in rete, è solo una parte delle cause che hanno visto ridursi di oltre il 30% il numero di post e tagliare drasticamente il tempo dedicato ai blog che ero solito seguire. Non so come andranno le cose nel 2014, non credo ci sarannno miglioramenti nella quantità o nel tenore dei post, ma spero che chi segue il blog continui ad apprezzarne tono e contenuti. O che almeno si faccia vivo per protestare!

Per concludere non rimane che da fare a tutti gli auguri per un meraviglioso anno nuovo. Spero ci si riesca a vedere in giro. Nel frattempo cercate di godervi al meglio il nuovo anno, che 365 giorni passano anche troppo veloci per  i miei gusti!
Buon 2014!



(Gli elenchi degli anni scorsi li trovate qui: 2012, 2011, 2010, 2009, 2008, 2007, 2006, 2005, 2004, 2003.)

20 dicembre 2013

Letture: Christopher Brookmyre, Patrick O'Brian, Christopher Moore, Fredric Brown

© giorgio raffaelli
Christopher Brookmyre - La magica arte del furto
Ritorni sul luogo del delitto e scopri che dai, in fondo, 'sto scozzese non è poi male e che il suo problema è aver stabilito uno standard inarrivabile (che io il suo Scusate il disturbo ce l'ho sempre nel cuore, che non ho più letto un libro altrettanto divertente, scatenato e avvincente).
Avevo mollato Christopher Brookmyre dopo Real Life™ che ok, si fa leggere, ma che m'è parso in più di un'occasione stanco e pretenzioso, quasi che l'autore si fosse infilato in un vicolo cieco narrativo che lo costringesse a ripetere ad libitum lo stesso copione. Non che La magica arte del furto rappresenti chissà quale cambio di rotta, ma la verve e il ritmo, le invenzioni e le sorprese rendono la lettura del romanzo un'esperienza davvero piacevole.
All'inizio del 2013 Christopher Brookmyre ha pubblicato Bedlam, il suo primo romanzo di fantascienza. Capirete quindi bene la mia curiosità al riguardo: qualcuno là fuori l'ha letto?



Patrick O'Brian - Primo comando
Letto Longitudine mi son sentito finalmente pronto per affrontare il mare aperto. Patrick O'Brian era da anni tra i desiderata, dopo averne sentito parlare decine di volte, in termini sempre entusiastici, da più di un vicino fantascientifico e quando il mio spacciatore di ebook preferito ha messo in offerta i primi volumi della saga di Aubrey & Maturin ho sciolto le vele e via.
Il viaggio intrapreso con Primo comando è stato avventuroso quanto piacevole, che Patrick O'Brian si è dimostrato molto abile nel coniugare realtà storica e personaggi che rimangono impressi nella memoria, insieme a un punto di vista contemporaneo che ben si fonde con l'atmosfera di fine '700 in cui è ambientato il romanzo.
Come spesso mi accade, sono arrivato tardi a scoprire l'universo marinaresco di O'Brian, ma è stata davvero una bella scoperta!



Christopher Moore - Il Vangelo secondo Biff
Cercavo un libro divertente e su Il Vangelo secondo Biff si son spese un sacco di belle parole in giro per la rete. Sono sempre piuttosto sospettoso quando l'argomento è la religione, il suo contorno storico, le sue figure di riferimento, ma mi dico sempre che bisogna superare il pregiudizio e, almeno ogni tanto, provare qualcosa di nuovo.  
Christopher Moore è abile a mantenere la narrazione sul piano del quotidiano, a costruire una storia del Cristo scevra da ogni potenzialità polemica e a renderla al contempo avvincente, divertita e divertente. Trasformare la vita mai narrata di Gesù in un romanzo di formazione dai contorni fantasy, infarcirla di suggestioni orientali, cercando la fedeltà storica senza rimanerne ingabbiati, fino a ricongiungersi alla narrazione istituzionale dei vangeli canonici e mantenere comuque una spiccata autonomia autoriale è davvero operazione degna di nota. Poi certo, io l'ho trovato eccessivamente consolatorio e un po' troppo accondiscendente, e quindi incapace di strapparmi poco più di un sorriso, ma si sa, io sono un lettore bastardo senza dio: se avete un animo appena più sensibile lo apprezzerete certo quanto merita.



Fredric Brown - Cosmolinea B-1
Avevo un ricordo memorabile della doppia raccolta dei racconti di Fredric Brown. Avevo letto e perduto l'edizione originale degli anni '80, comprata durante una vacanza al mare da una bancarella a un prezzo ridicolo, e per i decenni successivi ho cercato spesso di recuperare quei due volumetti. Ho quindi apprezzato molto la scelta di Giuseppe Lippi di dedicare due Millemondi alla ristampa di questa incredbile antologia.
A oggi ho (ri)letto solo il primo volume, e ritrovare intatta la capacità di Fredric Brown di stupire, meravigliare, divertire e inquietare il lettore è stata una gran bella soddisfazione. Nonostante queste storie abbiano ormai più di mezzo secolo sulle spalle rimangono ancora tra le letture che più riescono a trasmettere quel senso del meraviglioso che caratterizza un intero genere letterario, sia che si mantenga sui toni solari della scoperta stupefacente o viri verso quelli più oscuri del perturbante.
I racconti raccolti nei due Cosmolinea hanno fatto la storia del fantastico americano del secolo scorso. Leggeteli, non ve ne pentirete.

17 dicembre 2013

Letture: L'uomo a un grado Kelvin, di Piero Schiavo Campo

© giorgio raffaelli

Uno slogan di Urania recita "Dal 1952 la macchina del tempo non si è mai fermata". M'è tornato in mente  una volta concluso il romanzo di Piero Schiavo Campo, che la sensazione più forte lasciatami dalla lettura è stata di sfasamento temporale. L'uomo a un grado Kelvin sarebbe stato infatti un ottimo romanzo, fosse uscito un cinquant'anni fa. Ora, beh… ora non ne sono così sicuro.

L'uomo a un grado Kelvin è il romanzo vicitore dell'ultima edizione del Premio Urania. Come per I senza-tempo l'anno scorso, l'uscita del volume è stata accolta da una serie di recensioni piuttosto positive che, al contrario di quanto successe con il romanzo Alessandro Forlani, segnalano in questo caso la stretta appartenenza al genere, oltre a sottolineare le virtù scientifiche dell'opera e un'ottima gestione della trama gialla che accompagna il lettore fino al termine della vicenda. Piero Schiavo Campo è uno scienziato, e la sua preparazione si nota, ancor più che nell'estrapolazione (fanta)scientifica dello sfondo futuribile in cui si svolgono gli avvenimenti narrati (computer quantistici, teletrasporto, realtà virtuali), nell'attenzione che dedica alle dinamiche proprie della ricerca, che sono forse l'aspetto più interessante del romanzo.

La trama gialla che costituisce il motore del romanzo, invero piuttosto complessa, parte con l'omicidio di un famoso scienziato e prosegue con la relativa indagine, che si sposta tra Milano e Parigi - per tacere delle numerose tappe in fantasiosi mondi virtuali - e vede alternarsi sulla scena Dick Watson, investigatore dell'Europol, e i suoi colleghi, alle prese con scienziati scomparsi, bande armate di origine slava e le famiglie della criminalità cinese che si son spartite interi quartieri di Milano, senza dimenticare la polizia padana e gli hacker che popolano il lato più oscuro della rete.
Come si vede di carne al fuoco Piero Schiavo Campo ne mette parecchia. A suo merito va detto che la narrazione rimane sempre piuttosto equilibrata, ogni comprimario ha il suo dovuto spazio e il mistero rimane nebuloso fino alla fine.

Se la struttura del romanzo è piuttosto ben congeniata, quel che resta del tutto insufficiente - qui e ora - è la consistenza e la credibilità dei vari personaggi, che si muovono, parlano e interagiscono come se il tempo non fosse passato, e le coordinate temporali del loro universo narrativo fossero rimaste bloccate a cinquant'anni fa, quasi che nel frattempo la fantascienza non fosse riuscita ad evolversi dall'epoca dorata della sua infanzia e la realtà umana ritratta dai suoi autori fosse sempre quella semplice e addomesticata che usciva dai racconti delle riviste dell'epoca. La conseguenza più immediata di questo aspetto del romanzo è un senso di noia e insofferenza, con il lettore incapace di trovare una qualche connessione tra il panorama urbano e tecnologico in cui è immersa la storia, adeguato alla visione standard del futuro emersa in questi ultimi decenni, e il costante fuori sincrono in cui si muovono gli attori del romanzo.
In questo senso L'uomo a un grado Kelvin mi pare esemplare dello stato dell'arte della fantascienza nostrana, che ha ormai perso ogni velleità di affrancarsi dal passato per affrontare finalmente il futuro, e si riduce sempre più a genere nostalgico per vecchi adolescenti che si rifiutano di crescere. Certo, è una generalizzazione, magari troppo severa, ma se penso ai titoli migliori usciti nel mondo anglosassone negli ultimi anni e mi confronto poi con la realtà italiana, quale altra risposta tocca darsi?

09 dicembre 2013

Letture: Mar del Plata, di Claudio Fava

© giorgio raffaelli
Ci sono libri che suonano stonati e che quando hai finito di leggerli non riesci a dimenticare, perché vorresti in qualche modo aggiustarli, per toglierti quella specie di irritante prurito dovuto alla sensazione di sbagliato, che aumenta pagina dopo pagina dopo pagina.
Mar del Plata è uno di quei lbri.
Claudio Fava ha scritto questo libro per ricordare un episodio della dittatura argentina: una squadra di rugby i cui giocatori sono stati eliminati tutti, uno per uno, fino a lasciare un unico sopravvissuto. L'autore avrà avuto le migliori intenzioni, ma il risultato è talmente farlocco che è difficile immaginare un esito peggiore.

Qual è il modo migliore per ricordare le vittime di una tragedia come quella dei desaparecidos argentini?
Credo che un racconto che voglia narrare in forma romanzata una storia vera come quella del La Plata Rugby Club debba ricercare, per quanto possibile, la maggior fedeltà possibile ai fatti, al periodo, alle circostanze in cui si è sviluppata. Volendo riproporre la Verità, l'autore si assume un'enorme responsabilità, prima di tutto nei confronti dei protagonisti reali della vicenda e quindi del lettore a cui propone il racconto.
Mar del Plata contiene una tale mole di invenzioni, false supposizioni e retorica da lasciare la Verità monca e sofferente in un angolo, soffocate dall'ego e dall'incuria del suo autore, che piega e addomestica i fatti alla propria visione, che sarà anche giusta, ma che diventa sbagliata per eccesso di zelo.

Partiamo dal rugby. Se vuoi raccontare le gesta di una squadra che gioca con la palla ovale dovresti avere l'umiltà di informarti su come funziona il gioco, se non altro per mostrare un minimo di rispetto nei confronti dei giocatori di cui vuoi narrare la tragica storia. Dovresti ricordare che la squadra vittima della repressione fascista del regime era quella del La Plata Rugby Club, che la città di Mar del Plata non c'entra nulla, essendo una località distante parecchie centinaia di chilometri dal luogo dove si svolsero i fatti, e la sua squadra di rugby niente ha a che fare con questi avvenimenti. Dovresti notare che le sette vittime di cui racconti il tragico destino non sono nemmeno la metà di una squadra di rugby e spiegare magari che - la matematica non è un'opinione - per lasciare un unico spravvissuto quei ragazzi uccisi giocavano una versione del gioco del rugby che prevede sette giocatori per squadra. Capisco poi che i ruoli nel rugby siano complessi da comprendere, ma credo sarebbe bastato far leggere il libro a qualche giocatore perché ci si rendesse conto della quantità di errori presenti. Errori che sarebbero del tutto veniali, se non contribuissero a svilire la qualità del racconto e quindi la forza del tributo che si vuol rendere a questi uomini.
Di più, e peggio, Claudio Fava vuol far passare l'idea del rugby come sport proletario che, per quanto riguarda l'Argentina, è cosa storicamente falsa e pregiudizievole. Come se poi un morto proletario valesse di più di un morto di un'altra classe sociale. Ma Fava preferisce la retorica populista del povero cristo che cerca riscatto nello sport, alla più banale verità che si possa soffrire su un campo di rugby anche se si proviene da una buona famiglia.

Ma il rugby è solo un aspetto del pasticciaccio brutto messo insieme da Fava. Perché non saprei come altro definire la scelta dell'autore di trasformare Raúl Barandiarán, il giocatore sopravvissuto alla mattanza compiuta dal regime dei generali, nel povero nipote di un emigrato siciliano, e di infilare nel testo tutta una serie di sicilianismi che nemmeno Camilleri… Ma s'è già detto sopra: la retorica in questo libretto impera, e Fava usa tutti gli strumenti in suo possesso per trasformare il recupero di una tragica vicenda storica in un testo che non serve alla memoria collettiva ma che risponde piuttosto alle esigenze del suo autore. Claudio Fava vorrebbe trasformare la storia particolare di questa squadra nella vicenda universale di tutti quei morti ammazzati perché si sono opposti al potere. Lo scopo è nobile, ma non è piegando la verità, trasformando i fatti, lasciando campo libero alla retorica che si può sperare di raggiungerlo. Quelli sono gli strumenti della propaganda e la propaganda è il braccio sottile del potere.

Claudio Fava scrive, nella postfazione al volume: "[…] questo libro. Che non vuole raccontare i fatti: ho preferito immaginare i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire. […] Il nome di Raul, il sopravvissuto, l’ho conservato. Gli altri, carnefici e vittime, li ho ribattezzati: mi piaceva pensare che ognuno di loro avrebbe portato con sé, in questo libro, qualcosa in più del proprio nome, qualcosa in più della propria morte."
Se Claudio Fava avesse avuto l'approccio di un David Peace (parlo di lui perchè Il maledetto United ha qualche similitudine con questo Mar del Plata) e la sua scrittura avesse avuto anche solo la metà della potenza di quella dell'autore inglese, allora un'affermazione come la sua potrebbe avere ancora senso. Dopo aver letto questo volume credo invece che quei ragazzi si siano visti togliere qualcosa da questo libro, che la storia delle loro vite e delle loro morti avrebbe meritato un trattamento migliore.
Se il libro fosse un semplice romanzo non starei qui tanto a menarmela con la Verità, ma Mar del Plata è una bugia raccontata con le migliori intenzioni. E per me questo continua a rimanere sbagliato.

Per qualche informazione in più sulla vera storia dei giocatori del La Plata Rugby Club vi consiglio di fare un giro su questa pagina (è in lingua spagnola) oppure di leggere questo post dal blog Libri di bordo. Qui e qui ci sono invece due articoli che il giornalista argentino Gustavo Veiga ha dedicato alla vicenda.


05 dicembre 2013

Letture: Ted Chiang, Giorgio Scerbanenco, Dava Sobel

© giorgio raffaelli
Ted Chiang - Il ciclo di vita degli oggetti software
Ted Chiang ci ha abituato a uno standard qualitativo senza uguali nel panorama della fantascienza di questi ultimi decenni. I suoi racconti sono esempi pressoché perfetti di narrazioni rigorose dal punto di vista della speculazione (fanta)scientifica che si sviluppano in storie capaci di fondere immaginazione e dubbi metafisici, mantenendo comunque sempre alta l'attenzione all'umanità dei personaggi.

Il ciclo di vita degli oggetti software rappresenta ad oggi il suo unico tentativo di uscire dai limiti del racconto per svilupparsi sulla lunghezza del romanzo (per quanto non superi neanche in questo caso la soglia delle 150 pagine). Il tasso di invenzione ed estrapolazione scientifica del volume è come sempre altissimo: si parla di sviluppo di intelligenze artificiali, partendo dalla creazione di animali virtuali, esaminando le conseguenze della loro diffusione come oggetti d'intrattenimento e del conseguente sviluppo di comunità di utenti, oltre che del rapporto che si crea tra produttori di software, sviluppatori e pubblico, esaminando nel frattempo i percorsi evolutivi artificiali che riguardano gli "oggetti software" del titolo del romanzo.

Se la qualità e la densità della componente (fanta) scientifica del romanzo è fuori discussione, i limiti de Il ciclo di vita degli oggetti software riguardano l'estrema freddezza dello stile adottato da Ted Chiang per portare avanti la narrazione, che non riesce mai a diventare appassionante e a rendere partecipe il lettore del percorso emotivo, oltre che intellettuale, che si compie nei rapporti tra i vari elementi che concorrono alla creazione della vicenda.
Il ciclo di vita degli oggetti software è un'ottima storia, ottimamente costruita e sviluppata, ma è un caso esemplare di come basare la forza del racconto unicamente sulla speculazione intellettuale di una potenziale innovazione tecnologica possa risolversi in un pregevole esperimento di estrapolazione, con il rischio però di perdere per strada l'idea di una letteratura capace di unire pulsioni umane e avanguardia scientifica.


Giorgio Scerbanenco - Il centodelitti
Con la lettura de Il centodelitti ho concluso una sorta di personale trilogia degli anni '60, partita con un giro nella Milano de La vita agra di Luciano Bianciardi e proseguita poi nel profondo nord de L'italiana di Joseph Zoderer.
Quel che i tre volumi condividono  è la consapevolezza del racconto di alcune vite colte in un momento di passaggio, osservate con sguardo lucido e trasparente, attento alle dinamiche sociali dell'epoca, riportato poi su carta con nitidezza, senza moralismi o pesantezze retoriche. Poi certo, gli anni '60 narrati dai tre autori non potrebbero essere più diversi nelle loro declinazioni personali, ma leggendo Scerbanenco e poi Zoderer non ho potuto fare a meno si sentire rieccheggiare sullo sfondo le voci e gli avvenimenti di una Milano collettiva che risuona nel ricordo virtuale anche di chi, come me, degli anni '60 ha  impressa nella memoria solo qualche istantanea, tra foto di parenti, riviste che giravano per casa (Epoca!) e scorci di caroselli televisivi.

Il centodelitti è il volume che raccoglie cento racconti scritti da Giorgio Scerbanenco a partire dal 1963, e rappresenta un panopticon del panorama criminale dell'epoca. L'aspetto più straordinario di questa raccolta, oltre alla qualità media delle storie che lascia davvero stupefatti, è la capacità di Scerbanenco di tracciare in poche righe i ritratti definitivi di decine e decine di tipi umani, di indagare sul male senza reticenze o pudori, lasciando trapelare come lampi di luce momenti di tenerezza che giungono spesso inaspettati, e una compassione per il destino di molti dei suoi personaggi che lascia giusto un filo di speranza in un mondo altrimenti perduto. Senza dimenticare che molti dei racconti raccolti nel volume sono perfetti meccanismi narrativi, sia che sfruttino l'effetto sorpresa del finale, sia nella gestione della tensione tipica di queste storie nere.
Non avevo mai letto Giorgio Scerbanenco prima d'ora. È stata una gran bella scoperta.


Dava Sobel - Longitudine
Longitudine è un libro che non t'aspetti d'incontrare da 'ste parti. Io per primo sono rimasto sorpreso da questo volume di Dava Sobel, che non mi capita spesso di leggere testi divulgativi a tema storico/scientifico.
Ma è successo che ho incrociato un paio di recensioni entusiaste girovagando su anobii, e sono rimasto intrigato dall'argomento:
"Nel 1714 il Parlamento inglese offrì una ricompensa di ventimila sterline in oro (l'equivalente di 10 milioni di euro) a chi avesse scoperto come determinare la longitudine di una nave nell'oceano. Fu un orologiaio autodidatta, l'inglese John Harrison, a trovare la soluzione: bastava che ogni nave fosse equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l'ora "esatta", quella di Londra, ad esempio, e un semplice confronto con l'ora locale avrebbe istantaneamente fornito la longitudine della nave." (Estratto dalla presentazione del volume)

Non so niente di navigazione, e non avrei mai pensato che il problema della determinazione della longitudine in mare fosse così complesso da risolvere. Il testo della Sobel racconta in maniera appassionata le vicende dell'epoca, affrontando le problematiche scientifiche e gli ostacoli politici che hanno complicato il cammino verso la soluzione del problema. Per farlo alterna i ritratti delle personalità che si sono scontrate sul cammino della ricerca con il racconto delle varie teorie che avrebbero potuto risolvere la questione, fornendo un panorama sul metodo scientifico e sui progressi delle conoscenze tecnologiche in un'epoca tra le più creative dello scorso millennio. Arrivato in fondo al libro ho iniziato a guardare ai cronometri con ben altro rispetto.

28 novembre 2013

Letture: Surface Detail, di Iain M. Banks

© giorgio raffaelli
Sono ormai passati quasi sei mesi dalla sua scomparsa, ma faccio fatica a pensare a Iain Banks al passato. Lui se n'è andato, è vero, ma per quanto banale o scontato possa suonare, i suoi romanzi risultano tuttora vivi e attuali e la sua fantascienza ancora ineguagliata, almeno quando si pensa alle dimensioni e alla profondità della sua space opera.
Per aggiungere ulteriori suggestioni al ricordo dell'autore scozzese non poteva capitare romanzo migliore di Surface Detail, che affronta senza mediazioni il tema della morte ai tempi della Cultura. Morte che colpisce tutti, prima o poi, ma che può trasformarsi in vita eterna, seppur virtuale, per quelle civiltà che hanno raggiunto un sufficiente grado di progresso tecnologico.

Surface Detail si confronta con il tema della morte nei suoi aspetti più prosaici che - suonerà paradossale, ma tant'è - nel contesto postumano in cui si svolge l'azione riguardano il concetto religioso di aldilà, inferno o paradiso che sia, riportati nel contesto decisamente pragmatico, ma non per questo meno trascendente (e doloroso), di una guerra sotterranea tra le due fazioni che sostengono o avversano l'esistenza di quei mondi virtuali in cui le anime dei trapassati sono obbligate a trascorrere l'eternità.
In Surface Detail c'è la storia di Lededje, concubina ribelle di un megamiliardario padrone di un mondo il cui livello tecnologico è poco più avanzato del nostro, ci sono le trame di potere che detto miliardario intreccia con gli emissari di civiltà galattiche che competono con la Cultura sul piano tecnologico, c'è il racconto di Prin e Chay, due amanti che vogliono abolire l'inferno ma ne rimangono vittime, con pagine atroci di orrore e sofferenza, ci sono le avventure di Yime Nsokyi agente culturale all'inseguimento di un destino di gloria e ci sono infine le imprese di un guerriero eterno, schierato e dubbioso, ma che non riesce a darsi pace e combatte combatte combatte, nella varietà più sfrenata e spettacolare di scenari di guerra si riesca a immaginare. E poi c'è la Cultura, con le navi e i droni, con i cittadini ignari e quelli impegnati, con le sue ossessioni e l'inarrivabile leggerezza del suo approccio, l'incapacità di girarsi dall'altra parte e un'invidiabile desiderio di giustizia e uguaglianza.
Le vicende parallele dei tanti personaggi si muovono in un continuo crescendo di tensione, contribuendo ognuna con il proprio particolare sapore a una miscela narrativa che tocca tutte le corde sensibili della narrazione, fino ad arrivare al cataclismatico finale che chiude degnamente un romanzo davvero memorabile. E quando poi arrivi alle ultime righe dell'epilogo e ti rendi conto di chi ti ritrovi davanti, beh… dopo tanti anni qualche brivido l'ho provato anch'io.

Una (space) opera tanto complessa e ambiziosa rischia a ogni ulteriore svolta del racconto di esplodere in mille schegge narrative separate, e risultare quindi un calderone infernale (pun intended) di idee, personaggi e episodi magari brillanti, ma poco coesi o disordinati. Ma Iain Banks non molla mai nemmeno per un attimo il timone, e riesce a infondere il giusto ritmo e la necessaria coerenza alla narrazione, tanto da rendere la somma delle varie componenti del romanzo decisamente superiore al valore già elevato di ogni singolo spezzone della vicenda. Riuscire a rendere omogeneo, avvincente e profondo un racconto che mette insieme le storie di personaggi tanto eterogenei quanto diversi sono i contesti in cui si muovono è davvero risultato notevole.

Surface Detail non fa che confermare quel che ho sempre pensato di Iain Banks. L'autore scozzese rimarrà sempre il più grande, esagerato, meraviglioso autore che io abbia mai avuto la fortuna d'incontrare. Ormai mi rimane da leggere solo il suo ultimo romanzo di fantascienza, e toccherà farselo bastare, ma se la qualità è pari a quella degli altri suoi ultimi lavori ci sarà senz'altro da divertirsi.

18 novembre 2013

Fantascienza in arrivo: Andrea Viscusi, Piero Schiavo Campo, Sandro Pergameno.

© giorgio raffaelli
Qualche segnalazione su quel poco che si muove sulla superficie delle acque fantascientifiche nostrane.


È uscito da qualche giorno Spore, il primo volume antologico dedicato alla narrativa breve di Andrea Viscusi.
Dell'autore toscano avevo apprezzato qualche tempo fa l'ebook autoprodotto Quattro apocalissi, che per la sue qualità si distingueva nettamente dal resto della produzione fantascientifica italiana letta ultimamente.
Se tanto mi da tanto Spore promette di essere uno dei migliori volumi fantascientifici italiani dell'anno.

Spore è pubblicato dalla factory editoriale I sognatori. Per approfondire temi e contenuti dei nove racconti contenuti nel volume vi consiglio di fare un salto sul blog del suo autore.



Novembre è ormai di consuetudine il mese che Urania dedica al romanzo vincitore del Premio Urania. Quest'anno l'onore è andato a Piero Schiavo Campo e al suo L'uomo a un grado Kelvin. A sentire chi ha avuto la ventura di leggerlo in anteprima ci sono tutte le premesse per un'ottima lettura fantascientifica, avvincente, suggestiva e divertente.Per quella che è la mia esperienza questi non sono aggettivi che di solito ti viene da abbinare alla fantascienza italiana. Vedremo…
Già che si parla di Urania, segnalo la pubblicazione nel prossimo Millemondi  di tutti i racconti che Robert Sheckley ha dedicato all'agenzia di decontaminazioni interplanetarie AAA Asso. Sono molto affezionato a queste vecchie storie, che per me hanno rappresentato il primo felice incontro tra fantascienza, humor e avventura spaziale.
Chissà che effetto fanno a leggerle ora, trent'anni dopo…



Ultima segnalazione per Cronache di un sole lontano, rivista che nasce dalla passione e dal lavoro di Sandro Pergameno e Tiziano Cremonini.
Cronache di un sole lontano propone gli articoli postati nell'omonimo blog (notizie, recensioni e novità fantascientifiche dal mondo editoriale nostrano) arricchiti di grafica e illustrazioni.
Sandro Pergameno è uno dei personaggi che ha fatto la storia della fantascienza in Italia, avendo curato per anni le uscite dell'editrice Nord prima, di Fanucci poi. Da un punto di vista più personale, devo a Sandro un grazie per aver fatto tradurre Necroville in italiano e per avermi concesso a suo tempo l'utilizzo del testo che lo introduceva ai lettori italiani sul sito che avevo dedicato a Ian McDonald. Ho scoperto il blog Cronache di un sole lontano solo da poche settimane (non l'ho ancora inserito nella pagina dedicata alla fantascienza in italia, ma è questione di giorni…), ma l'entusiasmo che si percepisce alla base del lavoro di Sandro Pergameno e dei suoi collaboratori è contagioso. Potete scaricare il pdf della rivista da questa pagina del blog.



Ultima nota: blogger mi segnala che tra ieri e l'altro ieri il blog ha superato la soglia delle duecentomila visite. Grazie a tutti per essere passati da queste parti!

15 novembre 2013

Letture: Il maledetto United, di David Peace

© giorgio raffaelli
Avrei avuto un'altra decina di libri di cui parlare prima di arrivare a Il maledetto United. Ma c'è poco da fare, lo spettro di Cloughie non mi vuol lasciare. Forse mettere nero su bianco quelle due o tre cose che mi continuano a frullare in testa riguardo al romanzo di David Peace servirà a esorcizzarlo.

Il maledetto United è un romanzo prepotente, che non esita a sgomitare e urlare e a insistere per attirare la tua attenzione. Ti colpisce già dalle prime pagine, che il testo di Peace è insistente e violento e ipnotico, ed è capace, come solo poche altre volte m'è capitato, di farti precipitare con poche frasi nel vortice emotivo che costituisce il nucleo e il motore del romanzo: la vita e i pensieri di Brian Clough, allenatore di calcio.

Il maledetto United racconta i 44 turbolenti giorni di Brian Clough alla guida del Leeds United all'inizio della stagione 1974/75. I giocatori del Leeds sono i campioni d'Inghilterra in carica, mentre Clough proviene da un'esperienza in terza categoria dopo aver portato negli anni precedenti la squadra del Derby County ai migliori risultati di sempre (titolo nazionale, semifinale di Coppa dei campioni, ecc. ecc.).
David Peace sceglie di raccontare l'esperienza di Brian Clough a Leeds attraverso il flusso costante dei suoi pensieri, seguendolo nei suoi spostamenti e nelle sue ossessioni, alleggerendo la pressione in costante ascesa (sull'allenatore, sul lettore) con i frequenti flashback che raccontano invece la storia professionale dell'allenatore fino a quel momento.
Ci si perde nei pensieri ossessivi e inconcludenti e ripetitivi di 'sto uomo, ci si perde stando sempre fermi sullo stesso punto: la vittoria o il nulla, l'affermazione di sé o l'umiliazione. Ci si perde tanto che non si sa più bene nemmeno cosa si abbia in mano, qual è il senso di quel che si sta leggendo.

Cos'è Il maledetto United? Un libro sul calcio scritto da un tizio che il calcio lo odia? (calciatori come elenchi di nomi, accessori obbligati di un rituale di cui Paece farebbe volentieri a meno, se solo potesse e poi, tanto per dire, le qualità di Brian Clough allenatore, dove sono? Perché è bravo, Clough?)
O forse Il maledetto United è l'ennesimo romanzo sui rapporti di potere, sull'individuo solo contro tutti, che prova a sfidare il sistema, che un po' vince, ma soprattutto perde, perché il compromesso non è nelle sue corde? Brian Clough beve, fuma, s'impunta ma poi si pente, si nasconde sotto le coperte, ma non esita a metterci la faccia quando c'è da spalar merda contro il  calcio inglese. E nonostante le coppe e le medaglie rimarrà per sempre il miglior allenatore a non aver mai guidato la propria nazionale.
O magari Il maledetto United è un omaggio alle ossessioni che rendono grandi le persone, che trasformano in personaggi tizi normali come Brian Clough, che fanno quel che fanno perché, ehi! è il loro lavoro e va fatto al meglio, che hanno una famiglia da mantenere.

Insomma, non so bene cosa sia 'sto romanzo. Non sono nemmeno certo che David Peace non sia un altro fottuto snob che predica alla propria tribù di fighetti la sua incontrovertibile verità, che tanto Clough nel frattempo è morto e chi lo contraddice più. Ma David Peace scrive in una maniera tale (e Pietro Formenton lo traduce in maniera superba) che è difficile dargli torto. Se anche Brian Clough fosse stato diverso, ora Brian Clough è il suo Brian Clough, che la potenza e l'ossessione, la cadenza dei pensieri e il ritmo delle parole, come tacchetti nei corridoi di tutti gli spogliatoi del mondo, risuonano e riecheggiano, travolgono e accompagnano, ed è poesia, cazzo, è musica. Fai fatica a posare il libro, fai fatica a separartene, e Clough, il fottuto Clough, diventa più vero del vero, eroico nella sua mediocrità, umano nonostante i propri limiti, come solo i migliori di noi riescono a diventare. E il calcio, sempre presente, ma sfumato, sullo sfondo, lontano, che non è cambiato: ci si perde nel 1974 del Leeds United e quando poi si rialzano gli occhi dalla pagina eccolo qui, il calcio moderno, nato dalle ceneri di quei 44 giorni. Godetevelo.

09 novembre 2013

Peter Fatialofa, Movember, Ragazze scintillanti

© giorgio raffaelli
Questa settimana Peter Fatialofa ci ha lasciati. Peter era una leggenda del rugby samoano, ma soprattutto Peter Fatialofa era l'uomo più grosso abbia mai conosciuto di persona. Un incredibile Hulk maori in carne ed ossa.
È successo alla fine degli anni '80. Alcun degli amici che frequentavo all'epoca giocavano a rugby, e capitava ogni tanto di uscire a cena con i loro compagni di squadra. Una sera con loro c'era 'sto gigante: un uomo i cui avambracci erano più grossi delle cosce della maggior parte di noi. Era Peter Fatialofa, che per quella stagione giocò nel Modena Rugby. Da quel che mi raccontano era un tipo incredbile, fuori e dentro al campo. E deve aver lasciato dei gran bei ricordi se quando i Pacific Islander, di cui Peter allenava le prime linee, passarono da 'ste parti per affrontare l'Italia - era il 2008 - ci si fece in quattro per invitarlo a cena qui, nella Club House del Modena Rugby.
So long, Peter, rest in peace.



Sempre a proposito di rugby. Come ormai da qualche anno, Novembre diventa Movember, e beh… la foto qui a fianco dovrebbe essere piuttosto esplicativa. Movember (che sta per Moustache+November) è nato dieci anni fa tra i rugbisti australiani e si è presto diffuso in tutto il mondo.
Qui a Modena i baffi servono a sensibilizzare e sostenere  ProADAMO, una fondazione per la ricerca sulle malattie oncologiche urogenitali maschili.
'mo che lo sapete voglio vedervi tutti baffuti!



Ultima notizia veloce veloce: il Saggiatore ha pubblicato qualche settimana fa l'ultimo romanzo di Lauren Beukes, The Shining Girls. Lo segnalo da queste parti perché nonostante non sia indicato da nessuna parte, la Beukes è una delle migliori autrici di fantascienza degli ultimi anni. The Shining Girls parla di viaggi nel tempo, serial killer e ragazze che non si arrendono. Lauren Beukesarriva dal Sudafrica e i suoi primi due romanzi, Moxyand e Zoo City, hanno avuto ottimi riscontri.
Io per ora ho letto solo il primo - tra qualche tempo se ne riparla - e m'è parso davvero ottimo.

29 ottobre 2013

Letture: Georges Simenon, Carlo Morici, Samuel Marolla

© giorgio raffaelli
Georges Simenon - Pietr il Lettone
C'è stato un periodo, tanto tanto tempo fa, in cui i libri gialli hanno occupato molto spazio nella mia biblioteca personale. Tra gli autori che ricordo da quegli anni ci sono nomi come Ellery Queen, Agatha Christie, Rex Stout, mentre di molti altri ricordo solo qualche suggestione, un'ambiente, e pochissimo d'altro. In effetti la mia sbandata per il giallo è terminata piuttosto in fretta: dopo essere incappato in Raymond Chandler non c'era più nulla all'interno del genere che fosse capace di darmi le stesse sensazioni.
Forse per questo motivo non ho mai letto Georges Simenon: non l'ho scoperto quando era il momento. Sia lui che il suo commissario sono rimasti nel limbo delle letture possibili, nonostante moltissimi tra conoscenti e amici ne citassero le qualità. Ma qualche mese fa l'ebook del primo volume delle avventure di Maigret edito da Adelphi era in offerta. Prenderlo e leggerlo è stato inevitabile. Ora posso ben capire tutte le lodi spese per l'autore francese. Il suo commissario è personaggio che non fa alcuna fatica a imprimersi nella memoria, come gli ambienti in cui si muove e, soprattutto, come la scrittura nuda e suggestiva di Simenon. Non so quando capiterà di frequentarlo nuovamente, ma non ho dubbio sul fatto che succederà, prima o poi.


Carlo Morici - Actarus, la vera storia di un pilota di robot
Mi piace leggere romanzi di cui non so nulla, essere sorpreso da qualcosa di nuovo, magari bizzarro, magari semplicemente diverso da quel che sono solito leggere. Non c'è niente di meglio che vagare tra i blog vicini per cogliere qualche suggestione ed essere chiamato dal particolare volume. Dopo anni di frequentazione è difficile sbagliarsi o rimanere delusi, ma a volte capita. Il post che Matteo Poropat ha dedicato ad Actarus, la vera storia di un pilota di robot aveva tutte le cose al posto giusto, la sua recensione mi ha incuriosito e quando ho visto il romanzo di Carlo Morici in libreria non ho potuto fare a meno di acquistarlo. Quello che scrive Matteo di là è tutto vero, e i contenuti del romanzo sono proprio quelli che lui descrive, ma a differenza di quel che è successo a lui, a me non è scattata alcuna molla, non mi si è accesa nessuna lampadina, anzi. Man mano che procedevo nella lettura il senso di noia, di ripetizione, di giocattolo rotto fatto più per colpire il lettore, costi quel che i costi, che non per dire qualcosa di sostanziale o di vero, è diventato soverchiante e terminare il romanzo una specie di liberazione. Non ne faccio una colpa a Matteo, a chi non capita di incontrare il libro sbagliato?
Del resto quando poi  incappi nel titolo giusto la goduria è tale da far dimenticare la delusione per quella lettura andata male.


Samuel Marolla - Una notte al Ghibli
Actarus non è stata l'unica lettura poco convincente di questo periodo, che anche Una notte al Ghibli soffre di qualche difetto. La lettura del racconto di Samuel Marolla è stata comunque piacevole, che le storie che si incastrano al suo interno hanno il giusto equilibrio tra orrore e meraviglia e si muovono agili sul filo della sospensione dell'incredulità. Quello che non mi ha convinto è stata la mano pesante dell'autore nel ritrarre il suo protagonista, che davvero no, basta, non se ne può più di 'sti pezzi d'uomo sconfitti dalla vita eppur coerenti fino alla fine, dediti all'alcool eppur lucidi come non mai, riservati all'eccesso ma gran narratori alla bisogna. Ecco, se la voce narrante fosse stata quella d'una persona normale Una notte al Ghibli si sarebbe aggiunto a quegli altri racconti, tipo quelli raccolti in Malarazza, degni di essere ricordati e tramandati e riletti. Così com'è, m'è parsa una storia non all'altezza degli indubbi meriti del suo autore.

21 ottobre 2013

Letture: Codice morto, di Giovanni De Matteo

© giorgio raffaelli
Ci sono un paio di aspetti in Codice Morto che non mi hanno convinto, e che mi hanno impedito di apprezzare il racconto quanto avrei voluto.
Partiamo dall'inizio: Codice Morto è un storia sulla Zona, quell'entità geografica aliena e inconoscibile nata dalla penna dei fratelli Strugatskij e diventata successivamente luogo letterario imprescindibile, almeno per certo tipo di fantascienza: uno spazio mentale oltreché fisico, foriero di inquietudine e mistero, di orrori e meraviglie. Giovanni De Matteo è bravo nel creare le giuste suggestioni, e a mantenere un controllo e un tratto personale su una materia che rischia ad ogni passo di ricalcare le orme degli stalker originali. Altrettanto apprezzabile è il tentativo di innestare qualche contributo altro su un tessuto che fa ormai parte della storia letteraria della fantascienza. Quanto di buono l'autore realizza sul piano strutturale viene però compromesso dalla scarsa credibilità del personaggio che accompagna il lettore lungo gli oscuri percorsi della vicenda.

C'è poco da fare, se perdi la fiducia nella voce narrante della storia, ogni incertezza o dubbio tu possa avere su quel che stai leggendo cresce fino diventare insostenibile, erodendo via via la sospensione dell'incredulità che è alla base del patto non scritto tra l'autore e il suo pubblico.
I difetti del maresciallo Mancini, protagonista di Codice Morto, riguardano la sua credibilità nel ruolo che l'autore gli impone: presentarlo sotto l'ormai abusata luce del reduce traumatizzato dall'esperienza e amareggiato dalla vita rischia di soffondere la lettura di un senso deja vù nei casi migliori, di sfociare nel ridicolo nei peggiori. Di Takeshi Kovacs ce n'è uno, e beh… per quanto buona volontà ci si possa mettere, quando hai certi riferimenti è davvero dura riuscire ad essere all'altezza dei propri modelli. Soprattutto quando poi ti rendi conto che sono proprio le basi quelle che mancano. Vedi, per esempio, rendersi conto che l'esperienza bellica del nostro eroe si limita a una qualche decina di giorni nella foresta incantata, e l'unico suo successo sta nell'essere riuscito a ritrovare la strada di casa. Ma anche a voler tralasciare questo dettaglio, quel che si sente spesso vacillare è quell'equilibrio difficilissimo da gestire nella personalità del protagonista che è amareggiato ma deve essere eroico, è traumatizzato ma al contempo si dimostra indispensabile ed efficiente, lavora per i cattivi, ma in fondo lui è uno dei buoni. 

© giorgio raffaelli
Rispetto ai lavori precedenti di De Matteo Codice Morto dimostra comunque una maggior attenzione ai comprimari e una gestione dei dialoghi che se non è perfetta è comunque efficace. La trama invece m'è parsa interessante nelle idee messe in campo, ma un poco disomogenea nella divisione in due parti, nettamente distinte per tono e atmosfere, in cui è strutturato il volume.
Codice Morto rimane un racconto interessante per la qualità del setting ambientale, con un'inedita Basilicata perfetta nel suo ruolo di singolare luogo di visitazione e confronto, che risulta  efficace sia dal punto di vista scenografico che funzionale. La città di Potenza presentata a inizio volume rimane impressa nel credibile incontro di nuove (retro)tecnologie, strutture residuali e confusione di fondo, così come i luoghi selvaggi di cui è costellato il racconto.

Non so quanto conoscere qualche retroscena sulla genesi del racconto abbia contribuito al mio giudizio, di sicuro ho avvertito forte il legame dell'autore con il contesto, come mi pare che la lunga storia di scrittura e riscrittura che ha caratterizzato questo progetto possa essere una delle cause della mancanza di omogeneità della trama. A breve mi attende la lettura di Terminal Shock, che son curioso di vedere come si sia evoluta la scrittura di Giovanni De Matteo dagli anni che separano l'ideazione e la stesura di Codice Morto da questa sua ultima prova letteraria.

15 ottobre 2013

Letture: L'italiana, di Joseph Zoderer

© giorgio raffaelli
Sono nato a Bolzano, ci sono cresciuto, e appena ho potuto me ne sono andato. Ora, beh… ora ci tornerei immediatamente ma, come cantavano gli Stones, you can't always get what you want…
Erano gli anni '80 dello scorso secolo, e per quanto il nome di Joseph Zoderer non mi fosse del tutto sconosciuto, ai tempi mi guardavo bene dal leggere qualsiasi cosa puzzasse di Alto Adige. E poi figurarsi, un romanzo italiano scritto in tedesco, sembrava perfetto per farci ricamare sopra dal nostro prof di lingua (che invece, curioso, non ha mai affrontato l'argomento).
In fondo è stato meglio così. Letto ora L'italiana (Die Walsche in originale, termine spregiativo con cui gli indigeni definivano gli italiani che capitavano da quelle parti), permette di collocare in prospettiva il contesto in cui si colloca una vicenda ambientata negli anni '60, pubblicata nel 1982, per arrivare fino ad oggi, anno 2013,  e a considerare che, per una volta, tutto 'sto tempo non è passato invano.

L'italiana del titolo è Olga, che torna al paese d'origine, tra i monti sudtirolesi, per il funerale del padre, portando con se la colpa di vivere in città con un italiano. La scrittura di Zoderer è cristallina, inesorabile e spietata nel tracciare un ritratto della vita di paese che perde ogni connotazione folcloristica per rivelare tutta la grettezza e le meschinità su cui si basa. Nella complessa costruzione della vicenda, che nell'arco di una giornata ripercorre la vita di Olga attraverso ricordi, inserti, flashback, si avverte una qualche partecipazione, l'accenno di un'emozione e ci risolleva un pochino dalla miseria morale che caratterizza luoghi e personaggi solo nel ricordo della vita del padre di Olga, maestro del paese e alcolizzato, esempio perfetto di una sconfitta che prima ancora di essere politica è personale, e umana.

Olga si aggira come fosse un fantasma, estranea eppur partecipe della vita del paese che ha lasciato, ben consapevole che altrettanto esclusa sarà nella sua nuova vita cittadina, con gli italiani che la accolgono, ma che lei stessa fatica a comprendere.
L'italiana è un romanzo perfetto per comprendere cosa sia stata la vita in Alto Adige, quali siano state le conseguenze per chiunque si sia ritrovato a superare, per scelta o destino, il tacito confine tra le lingue, tra le genti, tra fondovalle e montagna, tra capoluogo e provincia. Ma soprattutto L'italiana è un'ottima lettura per chi voglia confrontarsi con il tema dell'esclusione e della diversità, a prescindere dalla propria collocazione geografica, che lo sguardo di Joseph Zoderer è appassionato e compassionevole tanto quanto è incisivo, e la sua scrittura è intensa e personale.

© giorgio raffaelli
Come forse si sarà intuito, la città che si scorge tra le righe del racconto è Bolzano, e fa uno strano effetto vedersela comparire quasi di soppiatto e riconoscerla, seppur ritratta in un'epoca che è più quella dei miei genitori che non la mia. E quelle istantanee di umanità italiana che ogni tanto illuminano il racconto, beh… sono quasi commoventi, visto il contesto e il tempo trascorso da allora.
Ma quel che più colpisce a leggere L'italiana, qui e ora, è quanto siano cambiati i rapporti tra i gruppi etnici nel mezzo secolo che ci divide dalla storia di Olga. Qualche mese fa m'è capitato di tornare a casa per partecipare a un matrimonio, ed è stato sorprendente e meraviglioso sentire molti degli ospiti passare con naturalezza dal tedesco all'italiano e viceversa, quasi nella stessa frase, senza apparente difficoltà. Certo, non per tutti il bilinguismo è normale, per molti, di entrambi i gruppi etnici, non c'è necessità di conoscere perfettamente l'altra lingua, e poi ovvio, c'è anche chi rifiuta il bilinguismo a priori, ma rispetto a 20 o 30 o 50 anni fa le cose da questo punto di vista sono notevolmente migliorate. E visto il contesto di ignoranza e paura generalizzate in cui viviamo, una nota positiva come questa credo vada ribadita e sottolineata.

Probabilmente però l'aspetto del romanzo che ho apprezzato di più, tolto lo sguardo nostalgico con cui inevitabilmente mi sono confrontato durante la lettura, il contesto politico e la qualità del testo, è stato quel ritrovare spogliata di ogni retorica la montagna, il bosco, i prati che nelle parole di Zoderer sono sì belli, ma di una normale bellezza quotidiana, e non diventano mai magnifico palcoscenico per chissà quali gesta o imprese. Ne L'italiana ho ritrovato quella normalità della montagna, che l'ebbrezza turistico-naturalistica che ha travolto l'Alto Adige negli ultimi decenni ha scordato, per trasformarne l'ambiente in uno strumento di marketing. Anche solo per questo varrebbe la pena leggere o rileggere il romanzo, per scoprire un Sudtirolo diverso, dietro ai lustrini con cui oggi è venduto al turismo di massa.


09 ottobre 2013

Rompere il ghiaccio

© giorgio raffaelli
Ridendo e scherzando è da agosto che non aggiorno il blog e più passa il tempo più faccio fatica a mettermi lì e buttar giù due righe. E dire che di cose da dire ne avrei anche, tra letture, visioni, progetti e riflessioni varie.
Rompere il ghiaccio con un post qualsiasi, tanto per. Forse è proprio questa la terapia migliore per resuscitare 'sto posto. Il primo passo è sempre il più difficile, che visto da fuori il blog mi mette sempre un po' soggezione. Dopo tanti anni qui dentro mi sento sì a casa, ma vorrei alzare sempre un pochino l'asticella, che mi piace pensare di avere ormai stabilito un certo standard nella qualità dei miei post, e nonostante guardandomi in giro ci siano blog molto più curati, accurati, e interessanti del mio, ho la presunzione di pensare che il mio contributo alla rete non sia proprio da buttar via.
Ma come spesso accade, il ritmo è tutto, e per me interrompere le trasmissioni significa poi sputare i famigerati pallini per riuscire a ricominciare.

La mia assenza dalla rete è dovuta a una serie di motivi che si sono sommati in queste settimane, lasciandomi con ancor meno tempo e risorse del solito da dedicare a queste pagine.
Come di consueto - vedi pure gli anni precedenti - settembre è il mese terribile per chi lavora intorno al mondo della piastrella, che a fine mese c'è a Bologna la più importante fiera mondiale del settore. Questo significa lavoro lavoro lavoro che va via via aumentando dal ritorno dalle ferie fino alla data fatidica dell'evento. Ma settembre è anche il mese di riapertura delle scuole, con conseguenti nuovi impegni per grandi e piccini, oltre ad un significativo cambio di fuso orario familiare, per tacere della logistica dei trasporti, dell'utilizzo dei bagni e del controllo compiti. Prima ancora della scuola è ricominciato il rugby, che se in settimana riduce ulteriormente il tempo libero familiare, nel fine settimana diventa un impegno a cui faccio davvero fatica a rinunciare (e i risultati si vedono, anche se solo su facebook).
Come se non bastasse, abbiamo finalmente deciso di ristrutturare la cucina di casa, e tra scelta di mobili e piastrelle, accordi con idraulici e muratori, dislocazione di stoviglie e elettrodomestici per tutta casa, 'sta scelta ci ha impegnato non poco nelle ultime settimane. Ora i lavori sono cominciati, speriamo non ci siano intoppi e sorprese in corso d'opera.
C'è poi quell'altro progetto in fase d'incubazione, che se è vero che non m'impegna molto come tempo, assorbe comunque molte delle mie limitate risorse mentali. Non sono ancora pronto a parlarne, ma se son rose, beh… fioriranno presto.

Nonostante la quantità d'incombenze, in queste settimane sono riuscito a leggere più di un buon libro e a vedere un paio di serie tv che ci hanno appassionato come da tempo non accadeva. 'sta cosa delle visioni televisive seriali mi ha sorpreso, che era dai tempi di Battlestar Galactica che non mi capitava di essere così ligio davanti alla televisione, ma forse l'overload lavorativo e familiare degli ultimi tempi ha contribuito a riavvicinarmi al divano di casa. Comunque sia, ci siamo sparati per dovere genitoriale prima, per piacere poi, la seconda noiosissima stagione di Walking Dead e poi la terza che invece è decisamente meglio (non potevamo certo permettere che i figli la vedessero e noi, no, giusto?), ma soprattutto abbiamo scoperto quel capolavoro sconosciuto (a noi!) della versione USA di Shameless, che è forse la cosa migliore vista in assoluto nell'ultimo decennio (boom!). Abbiamo appena finito di gustarci la prima stagione, ma i Gallagher già ci mancano.

Insomma, come sempre, faccio cose, vedo gente, mi tengo impegnato, ma non mi sono scordato del blog. Ora il ghiaccio è rotto, 'mo vediamo di non rimanerci in mezzo.


29 agosto 2013

Berlino: i ragazzi, il viaggio, la città

© giorgio raffaelli
Per esercitare la difficile arte del compromesso non c'è nulla di meglio di un bel viaggio con i figli. Quest'anno, per la prima volta, abbiamo deciso di trascorrere le nostre vacanze in una grande città. Niente campagna, agriturismi o campeggi sui monti, ma Berlino prima e Praga poi.
Il compromesso tra quello che vorresti fare tu e quello che non vogliono fare loro lo dai per scontato ancor prima di partire. Ma i dubbi e le discussioni che accompagnano ogni scelta, seppur forieri di frustrazioni varie, possono rappresentare anche uno stimolo a interrogarsi su cosa rappresenti l'esperienza del viaggio, più ancora che quella di una vacanza, per te e per le persone che ti circondano.

Perché andare a Berlino? Per noi che abitiamo in provincia, e che ci sentiamo dei campagnoli anche quando passiamo per Milano, la risposta è facile. Tra le città che ci possiamo permettere di visitare, Berlino rappresenta la meta più distante dalla nostra esperienza urbana quotidiana. Una metropoli senza un centro storico, ma che trasuda storia da ogni angolo, una città in perenne mutazione, in cui i cantieri si contendono lo spazio con strade e palazzi, uno dei pochi luoghi europei teso verso il futuro piuttosto che fermo a rimuginare, a riciclare, a celebrare il proprio passato (anche perché, diciamocelo, non è che ci sia poi molto di cui gloriarsi nella storia recente di Berlino).
E poi ci sono i motivi personali, che nessun posto è cambiato tanto negli ultimi 25 anni come la capitale tedesca, e confrontare l'esperienza del viaggio fatto nel 1987 con l'impatto odierno della città sul visitatore è davvero stupefacente.

Alla ricerca di qualche coordinata che potesse aiutare ad orientarci nel nostro vagabondare per la città, il Muro è stata la prima tappa, Alexander Platz la seconda, il Pergamon Museum la terza. E poi Kreuzberg, che forse è il luogo rimasto più simile a sé stesso tra quelli che ricordavo.

© giorgio raffaelli
Il Muro, presente come traccia sospesa in tutto la città, l'abbiamo visitato nel tratto conservato e illustrato della East Side Gallery. Il Muro trasformato in supporto per espressione politica e artistica (non che non lo fosse prima, ma era anche ben altro) perde la sua essenza angosciosa e futile, ma rimane pur sempre un importante memento della storia recente della città. (L'aspetto minaccioso del Muro lo si percepisce comunque sul'altro lato della passeggiata, con un esposizione di gigantografie che tracciano la mappa dei muri ancora presenti ai quattro angoli del mondo ed è visione significativa e terrificante).
Alexander Platz è un cantiere e un mercato, con la Fernsehturm a fare da perno e da bussola nel carosello umano in perenne rotazione tra giardini e treni e negozi. Nel mio ricordo Alexander Platz era un luogo freddo, spazzato dal vento, deserto, esempio perfetto del trionfo effimero del socialismo reale. Ora s'è trasformata nel suo esatto opposto: un non luogo frequentato da turisti e clienti, con le bancarelle del solito mercato pseudoalternativo al centro di un quadrilatero dominato da palazzi convertiti in centri commerciali, la fila per salire in cima alla torre e la stazione della metropolitana a dividere come un solco i due lati della stessa medaglia.
La visita al Pergamon Museum, praticamente un dovere per tutti i turisti in città, s'è risolta senza troppe conseguenze familiari, che nonostante i figli abbiano dimostrato un'immediata insofferenza per 'sti vecchi sassi, qualcosa li deve aver comunque colpiti (le miniature e i volumi della collezione islamica, da quel che ho capito). Da parte mia dovevo andare in questo museo, che all'epoca della mia prima visita mi colpì tantissimo (il confronto con la realtà fuori museo era straniante). Soprattutto dovevo verificare dove fosse collocato, che per qualche strano scherzo della memoria mi pareva fosse in tutt'altra parte della città.

Una volta stabilito un minimo di punti di riferimento, girare Berlino diventa piuttosto semplice nonostante le dimensioni della città. Non che noi si sia diventati particolarmente esperti, più che altro ti rendi conto che in cinque giorni hai appena scalfito la superficie di quel che la città è in grado di offrire al visitatore. Siamo usciti poco fuori dal quartiere centrale, giusto la passeggiata esplorativa a Kreuzberg, con la scoperta di qualche ricordo che credevo scomparso, un assaggio di cucina turca e la constatazione che dalla prima visita - nel 1987 eravamo ospiti di un indigeno del posto -  il quartiere è rimasto apparentemente uguale, magari solo un po' più benestante.
Per il resto siamo rimasti impressionati dalla Hauptbahnhof, abbiamo apprezzato il museo d'arte contemporanea e il silenzio del labirinto di cemento del memoriale dell'olocausto. Siamo rimasti stupefatti dalla quantità di cibo reperibile lungo la via, dal senso di tolleranza e possibilità che si respira per strada, dalle facce mediamente contente delle persone e dal fatto che, nonostante la quantità di turisti presenti, questi non spiccassero - almeno non tutti - come mosche bianche nel corpo della città.

Nonostante le discussioni, credo che anche i figli abbiano apprezzato Berlino. Dopotutto ci han trovato molte cose con cui hanno una qualche dimestichezza, se non di prima mano almeno per sentito dire, che la città è piena di segni che rimandano a quelle culture di strada che sono ormai tra i loro riferimenti principi (penso a hip-hop e grafittari, ma anche a fast food e tizi strani).

© giorgio raffaelli
In effetti credo che l'assenza di punti di riferimento culturali, se non propriamente fisici, sia l'aspetto che rende più difficile la visita di una città straniera con i figli al seguito. Per loro Berlino non significa niente, e l'approccio che abbiamo comunemente io e Annalisa al cospetto di un luogo sconosciuto, che consiste nel perdersi, e girare quasi a caso, toccando magari i siti turistici istituzionali, che è quasi doveroso visitare in caso di vacanza, ma privilegiando gli aspetti più quotidiani e quindi più lontani dall'esperienza del visitatore straniero, metta decisamente in difficoltà chi invece è alla disperata ricerca di conferme e di segni riconoscibili. Paradossalmente la presenza dei graffiti che colorano/sporcano/adornano ogni angolo libero della città è stata forse la nostra salvezza (insieme alle visite ai centri commerciali di turno) nel rapporto tra noi genitori, i figli, e la città.
La bellezza di palazzi e musei aiuta, ma ai pargoli non basta, che per crearsi una propria narrazione della visita, che è la maniera più immediata per riconciliarsi con il viaggio, servono parole, segni, panorami che possano essere ricondotti alla propria esperienza, e che esperienza vuoi che abbiano due ragazzi di 12 e 15 anni?

A riprova di questo aspetto della vacanza ecco la nostra tappa praghese, che i figli hanno detestato dal primo all'ultimo minuto, proprio per l'assenza totale di agganci alla loro realtà e alla contemporanea sovrabbondante presenza di turisti che, al contrario di quel che accade a Berlino, rimangono un variopinto e rumoroso corpo estraneo nel contesto della città. A Praga non siamo riusciti a trovare nulla capace di attrarre l'attenzione della figliolanza, e l'unico approccio per smuoverli è stato sottolineare il confronto tra le realtà differenti da cui proveniamo, tra il nostro modo di intendere l'esplorazione della città e quello dei turisti che ci circondavano. Un po' poco per lasciare un gran ricordo della visita, ma forse l'unico in grado di piantare qualche piccolo seme di dubbio e curiosità. Sperando che cresca nel tempo.

09 agosto 2013

Back to Berlin

© giorgio raffaelli

Anche pe quest'anno si parte. Stavolta la nostra destinazione sarà Berlino.
Se penso a tutte le foto della città viste negli ultimi anni grazie ai contatti di flickr, mi pare quasi di conoscerla già. E dire che a Berlino ci sono pure stato, ma è stato una vita fa, in un altro mondo.

Era l'inverno del 1987 e fu un viaggio molto istruttivo fin dall'inizio, con l'interminabile tragitto notturno lungo le autostrade della DDR, con multa obbligatoria a interrompere la monotonia del cemento sotto le ruote. E poi Kreuzberg, dove eravamo ospiti di uno dei pochi tedeschi che allora ci vivevano. E naturalmente il Muro.

© giorgio raffaelli
Ma i ricordi più profondi riguardano quella giornata trascorsa dall'altra parte del muro, passata dalla magnificenza del Pergamon Museum e dalla grandeur triste di Alexander Platz (e il pranzo al ristorante del Rotes Rathaus, uno dei migliori della mia vita, pagato un niente) fino a quel giro in periferia, consigliatoci sottovoce da un residente, partito con la metropolitana - meravigliosa, tutta legno e luci soffuse - e finito tra palazzoni con ancora ben visibili i segni della guerra, con i negozi vuoti e la gente grigia. E noi a guardarci intorno, un po' vergognosi per il nostro turismo in quello squallore, con quel sacco di patate comprato per dovere, che ci siam trascinati oltre checkpoint Charlie, che non abbiamo avuto idee migliori.

© giorgio raffaelli
Ma di quel viaggio ricordo anche i parchi e la campagna che circondava la città (e il Muro sempre all'orizzonte), il freddo fuori e il calore di tutti i centri sociali visitati giusto per un pranzo, una birra o un caffé.
Gli amici che mi accomagnavano li ho persi di vista, ma le serate passate a discutere, la disponibilità dei nostri ospiti e quella cena a base di polenta e ragù, sono ancora tra quei momenti cui torno sempre ben volentieri guardando indietro a quegli anni.

La Berlino che ci aspetta sarà una sorpresa: lei è un'altra città, io sono un'altra persona.
La curiosità è tanta. Ci si sente al ritorno.

07 agosto 2013

Letture: Rugby quantistico, di Jonny Wilkinson, Étienne Klein & Jean Iliopoulus

"Per tutta la vita sono stato ossessionato dall’idea di raggiungere la perfezione e sono rimasto deluso. Finché un giorno mi sono messo alla ricerca di un altro modo per arrivare a un’altra percezione del mondo e del mio lavoro. Prima di tutto mi sono rivolto al buddismo (…). E poco dopo ho scoperto che c’erano legami tra il mio lavoro e la fisica quantistica."

© giorgio raffaelli
 
Rugby quantistico è la trascrizione di una conversazione pubblica tra due fisici quantistici, Étienne Klein e Jean Iliopoulus, con il rugbista Jonny Wilkinson, campione inglese in forza da qualche anno alla squadra di Tolone.

Per chi frequenta il mondo della palla ovale l'uomo non ha bisogno di presentazioni. Per tutti gli altri basti sapere che l'apertura inglese è il giocatore europeo che ha marcato più punti nella storia di questo sport, che ha all'attivo innumerevoli titoli nazionali e internazionali, che ha fatto vincere all'Inghilterra il suo unico mondiale all'ultimo secondo, in Australia, contro la nazionale locale. Ma  la fama e il rispetto di cui Jonny Wilkinson gode tra gli appassionati va ben oltre i successi sportivi raggiunti nella sua più che decennale carriera. Si basa piuttosto sul suo impegno, sul suo rigore e sul suo entusiasmo. Jonny Wilkinson è quello che arriva per primo agli allenamenti e se ne va per ultimo, quello che non importa se si gioca per il campionato del mondo o contro l'ultima in classifica, l'importante è metterci tutto quello che hai, sempre.

Queste caratteristiche emergono prepotenti nel libretto in questione. Rugby quantistico racconta l'ossessione per la perfezione di un uomo e le sue strategie di sopravvivenza - e la fisica quantistica, insieme al buddismo, fa la sua parte - per trovare le giuste motivazioni e rimanere ai massimi livelli della sua professione nonostante  i successi, gli infortuni e gli inevitabili errori.

Seppur focalizzato sul racconto dell'approccio di Wilkinson alla sua attività sportiva, Rugby quantistico è una lettura sorprendente per il rapporto che non ti aspetti tra due mondi apparentemente agli antipodi. Leggere l'evidente curiosità degli scienziati per una materia affascinante ma sconosciuta come il rugby, la disponibilità e l'umiltà di Wilkinson a raccontarsi, lo sforzo di rendere comprensibili concetti complessi come quelli che sottendono la ricerca scientifica in un settore come la fisica quantistica che non brilla certo per immediatezza e comprensibilità: in questo incontro rugby e scienza fanno entrambi una gran bella figura.  

Per concludere questo post in bellezza uno speciale dedicato a Jonny Wilkinson (è in francese, non si può avere tutto…).

05 agosto 2013

Letture: Gibuti, di Elmore Leonard

© giorgio raffaelli

C'è questa questa documentarista d'assalto che decide di fare un giro a Gibuti col suo socio vecchio, grosso e nero. Non ha le idee molto chiare, ma di sicuro vuol riprendere e raccontare la pirateria del Corno d'Africa. Non ci mette molto a incappare in pirati di successo e trafficanti d'armi. Del resto a Gibuti gira un sacco di gente interessante, tra ricchi turisti americani, le loro amichette, spie e militari, terroristi in libera uscita e minacce globali. Tutti in perenne movimento tra ville principesche e la varia umanità della città, su un sacco di toyota (bianche o nere), navi da trasporto e d'assalto e barche a vela, alle prese con sparatorie e inseguimenti.
Gli ingredienti di Gibuti son tutti qui. Mescolate - senza shakerare, potrebbe esplodere - e servite freddo. Buon divertimento.

Peggio di così 'sto romanzo di Elmore Leonard non potrebbe partire. I primi capitoli di Gibuti sono pressoché incomprensibili e non so se la responsabilità del disastro siano dell'autore o del solitamente ineccepibile Luca Conti, che si è occupato della traduzione del volume. Se non fosse stato per il nome in copertina avrei mollato la lettura, ma Leonard è Leonard, e una possibilità in più gliela si concede volentieri.

In effetti superato lo scoglio iniziale Gibuti scorre che è una meraviglia. Personaggi furbi e azzeccati, per quanto sopra le righe, plot avvincente e buon ritratto d'ambiente confluiscono in una storia il cui miglior pregio sta probabilmente nell'insolito montaggio della vicenda che combina abilmente flashback, cronaca in tempo reale, scorci di avvenimenti a venire e punti di vista alternati. L'impressione è di trovarsi alle prese con la sceneggiatura romanzata di un film d'azione. Un'opera in cui realismo e credibilità di personaggi e situazioni diventano concetti malleabili, tesi più alla soddisfazione dello spettatore, ops… lettore, che non a offrire un ritratto veritiero o - sia mai! - a indurre qualche riflessione sulla realtà socio-politica del Corno d'Africa.
La lettura di Gibuti non è certo un'esperienza memorabile, ma se ci si limita alle sue qualità di buon intrattenimento non si rimane delusi.

(A chi fosse interessato alla percezione che si ha negli Stati Uniti della situazione particolare di quel pezzo di mondo, consiglio di leggere Pirati della costa somala contenuto in Vennero dal futuro, recente Millemondi dedicato al meglio della produzione fantascientifica del 2007. Ambientato nello stesso contesto, e per certi versi complementare a Gibuti, il racconto di Terry Bisson offre uno scorcio piuttosto interessante sul confronto tra realtà e spettacolo e natura umana ai tempi della pirateria nel terzo millennio.)