30 novembre 2009

Altro che pecore elettriche. (Rugby, tifo & androidi italiani)


Picture by Codi Grifiti.
Sarà la sovrapposizione temporale degli eventi, i test match autunnali che arrivano insieme al premio Urania, ma ultimamente mi son trovato a paragonare lo stato della fantascienza italiana a quello della nazionale di rugby.
Sia i giocatori che gli autori nostrani si impegnano davvero al massimo, si sacrificano e lottano al meglio delle loro capacità per conseguire un risultato che però non arriva (quasi) mai. Ovviamente il tifoso premia l'impegno ed è disposto a chiudere più di un occhio di fronte ai limiti strutturali della propria squadra (o del proprio autore) arrivando a festeggiare anche il minimo successo come fosse un trionfo o a considerare una sconfitta dignitosa come un evento da ricordare.
Ma se questo atteggiamento è giusto e doveroso di fronte allo spettacolo di una squadra che scende in campo nonostante l'inferiorità tecnica e combatte fino all'ultimo per mantenere fede all'impegno preso mettendo tutta la grinta che ha in corpo per conquistare o difendere quegli ultimi metri che portano alla linea di meta, questo atteggiamento, dicevo, mi pare leggermente sterile quando ci si sposta dal terreno di gioco al campo delle lettere.

Vedi per esempio E-Doll il romanzo di Francesco Verso fresco vincitore del Premio Urania.
Nelle piazze e nei vicoli fantascientifici che frequento non mi era mai capitato di imbattermi in tanto acritico entusiasmo. Se da un lato fa piacere vedere un autore italiano di fantascienza supportato da una posse di fan agguerrita e pronta a rintuzzare ogni minima critica, dall'altro dispiace notare come la teoria rugbistica di cui sopra venga ancora una volta confermata.

Non ho alcun dubbio sulla serietà e la dedizione alla causa fantascientifica di Francesco Verso e non faccio nessuna fatica a riconoscergli le migliori intenzioni e il più grande entusiasmo. Ciò non toglie che al confronto delle opere di _______ (inserite il nome di uno dei primi dieci autori di sf che vi vengono in mente) il suo E-Doll non ci fa una gran bella figura.

Quali sono i difetti di questo romanzo, e perché non si è fatto niente per correggerli?

Per rispondere alla seconda domanda voglio partire dalle parole di uno dei professionisti responsabili dell'assegnazione del premio Urania al romanzo: "in revisione è toccato a me decidere cosa lasciare - tutto - cosa cambiare - pochissimo - e cosa aggiungere, ossia niente."
Una risposta come questa mi lascia basito. O il romanzo in questione è l'opera memorabile di un formidabile genio come nella fantascienza italiana non s'è mai visto (alleluia!) oppure in quella battuta tocca leggerci tutta la rassegnazione di chi, avendo avuto a che fare per tutta la vita con le ambizioni artistiche dei nostri autori, non ha più la forza o la voglia o il coraggio di mettere mano al lavoro di revisione che, immagino, per un autore praticamente esordiente sia sempre necessario.
Certo, esiste sempre l'ipotesi che io non abbia capito nulla delle qualità intrinseche di E-Doll, quindi lasciatemi elencare quelli che secondo me sono gli ahimé numerosi difetti del romanzo prima di sommergermi d'insulti.

- trama: la vicenda narrata in E-Doll è interessante, si sviluppa in tre filoni principali raccontando parallelamente la storia di un'investigazione, il percorso di formazione di una ragazzina, la presa di coscienza di un androide. Il comune denominatore del romanzo è il sesso, presentato di volta in volta come unica consolazione per l'investigatore, come strumento di potere per la ragazza, come mestiere e insieme inesorabile condanna per l'androide.
Le basi per un buon romanzo ci sono tutte. Peccato che nei momenti di svolta le scelte dell'autore invece di coinvolgere e affascinare il lettore lo spingono a chiedersi se non si poteva proprio trovare una soluzione diversa. Vedi per esempio l'incredibile scena dell'interrogatorio in diretta tv tra il Fabbricante e l'investigatore (episodio fondamentale del romanzo gestito nel peggiore dei modi) o il ritorno continuo della stessa anonima comparsa in tre momenti chiave della vita di Maya (la ragazzina) o l'incongruenza tra le capacità di analisi e riconoscimento di Angel (l'androide) e il travestimento della sua allieva. Tolto l'esempio iniziale, davvero imperdonabile, gli altri sono difetti veniali, da citare perché costituiscono parte della massa critica complessiva che ti fanno dire a fine lettura che insomma, dai, si poteva fare di meglio.

- personaggi: show don't tell, show don't tell, show don't tell! Il lettore di E-Doll non si trova mai al fianco dei personaggi. La percezione dell'azione è sempre filtrata dall'ingombrante presenza dell'autore che spiega spiega ma solo raramente mostra quello che succede.
L'unico personaggio che parla con una voce riconoscibile è Angel. Sull'androide Francesco Verso ha effettivamente fatto un buon lavoro di caratterizzazione e personalizzazione. Gli altri personaggi, al contrario, non spiccano mai per come si muovono o per come si esprimono, semmai per come l'autore descrive le loro reazioni alle varie situazioni in cui si trovano.
Questo difetto è accentuato dalla difficoltà a capire le motivazioni che muovono i protagonisti. Considerazione che fa il paio con i dubbi riguardanti l'evoluzione degli stessi nel corso della vicenda. Che a Maya basti lo sguardo di un poliziotto per trasformarsi da sex-addicted a brava ragazza tutta scuola e famiglia o che le conseguenze della raggiunta consapevolezza di Angel siano quelle descritte nel finale del romanzo (e che abbia comunque bisogno di Maya per realizzarle), danno un'idea della natura dei personaggi del tutto contraddittoria rispetto a quella presentata fino a quel momento.

- linguaggio. Forse l'aspetto del romanzo che m'è piaciuto meno. Eccessivamente contorto e confuso nell'esposizione, soprattutto quando si astrae dall'azione per indugiare sulla filosofia o le riflessioni dei personaggi.
Un esempio: "Quando lei vede il membro artificiale ergersi e ingrossarsi, abbassa gli occhi su di esso, simbolo del maschio e della sua inutilità resasi necessaria per un casuale incidente evolutivo." (pag. 42)
Non so voi, mai io una frase come questa non riesco proprio a capirla. Se tenete conto che questo è con buona approssimazione il linguaggio di tutto il volume (almeno nei momenti interlocutori del romanzo, e non sono pochi), vi rendete conto delle difficoltà che si incontrano per arrivare con scioltezza alla fine del volume.
Un discorso analogo andrebbe fatto su come l'autore affronta in generale il tema del sesso che sta alla base di tutto il romanzo. A me è parso di cogliere un continuo altalernarsi di due timbri contrapposti che faticano davvero a raggiungere l'equilibrio: da una parte la scelta di parlare degli innumerevoli atti sessuali in maniera ellittica e allusiva, dall'altra l'improvviso passaggio - senza nessuna percepibile necessità narrativa - a un linguaggio decisamente più esplicito e diretto.
Probabilmente questa è una scelta stilistica consapevole, però ecco, io non sono riuscito ad apprezzarla.

- ambientazione. Se c'è una domanda che mi piacerebbe porre all'autore è "perché Mosca?". Quale imprescindibile necessità narrativa ti ha costretto a scegliere la città russa? Per il lettore nostrano non sarebbe stato più coinvolgente vedere svolgersi l'azione in una città italiana?
Oltretutto come viene caratterizzata l'ambientazione moscovita del romanzo? Gli unici aspetti locali degni di nota sono la toponomastica e la citazione, sparsa qua e là, di numerosi piatti immagino tipici (immagino poiché, non conoscendo il russo, non sai mai se quello che i protagonisti mangiano è dolce o salato, prelibato o disgustoso, alta gastronomia o fast food). La specificità dello sfondo russo scelto dall'autore, che siano le periferie urbane della metropoli, gli uffici pubblici o i centri commerciali, non emerge da nessun altro punto di vista.
(per un confronto vedi ad esempio Brasyl di Ian McDonald: nonostante l'autore risieda nei dintorni di Belfast il ritratto che offre della realtà brasiliana è memorabile per vividezza, tridimensionalità e spessore.)

- ideologia & morale. Qui si entra in territori dove il giudizio è ancora più soggettivo. Non si tratta quindi di valutare se E-Doll è giusto o sbagliato, quanto piuttosto di capire se sia stato capace di entrare in sintonia con la mia specifica visione del mondo.
In questo senso c'è almeno un aspetto del romanzo che non ho digerito, ovvero l'idea del sesso visto sostanzialmente in due modi: o come strumento di potere o come puro sfogo animale. In tutto E-Doll non si esce mai da questa dicotomia, riducendo in pratica ogni atto sessuale a un momento di sopraffazione (ritualizzato, volontario, piacevole ma comunque mai paritetico tra i partecipanti). Nel romanzo si va addirittura oltre, fino a collegare esplicitamente violenza urbana e sesso in una catena di causa/effetto secondo me del tutto arbitraria.
Significativo in quest'ottica è anche il fatto che, nonostante i rapporti e l'identità sessuale siano il tema principale di E-Doll, non ci sia in tutto il romanzo una sola pagina di sano erotismo. Nel sesso vario e molteplice praticato dai protagonisti non c'è alcuna gioia, al massimo qualche consolazione.
Ben triste, no?

Una considerazione finale riguardo la valanga di critiche espresse sul romanzo.
Io non credo assolutamente che Francesco Verso sia l'unico responsabile delle carenze del libro. Sono convinto che se fosse stato seguito con più attenzione sarebbe stato possibile mettere una pezza a tutti i difetti elencati. Perché in effetti qualcosa di apprezzabile in E-Doll c'è ed è una cosa piuttosto rara nel panorama della scrittura di genere in Italia: l'intenzione di scrivere un romanzo di fantascienza originale, la consapevolezza di affrontare temi adulti, l'ambizione di rinnovare il panorama sf italico tentando una strada diversa. Se il romanzo non mi è piaciuto non vuol dire che mancassero idee o prospettiva, ma forse (forse!) solo pratica ed esperienza.
Poi certo, rimane il fatto che il premio Urania è una scadenza ineludibile. Vorrei modestamente segnalare che non è obbligatorio assegnare il premio a tutti i costi. Se la qualità grezza dei manoscritti che giungono in redazione non è all'altezza di uno standard minimo, per una volta si potrebbe anche rinunciare a un romanzo di fantascienza italiana. Altrimenti si potrebbe decidere di lavorarci sopra, insieme all'autore, per realizzare un'opera che abbia almeno un minimo di possibilità di raggiungere il livello qualitativo minimo richiesto a qualsiasi altro romanzo di fantascienza straniera.
Ma forse il punto è altro ancora. Temo ci si stia abituando alla mediocrità e invece di promuovere politiche editoriali che facciano crescere i giovani scrittori si preferisca mandarli allo sbaraglio, tanto il pubblico è di bocca buona e beve di tutto.
Poi è vero, c'è anche la possibilità che io non abbia capito nulla e che E-Doll sia effettivamente un capolavoro, ma per questo temo non ci sia rimedio.

24 novembre 2009

La gentilezza è rivoluzionaria


Chi è che ha detto che La gentilezza è rivoluzionaria? A me viene in mente Jack Kerouac (era ne I Vagabondi del Dharma? Mah…), ma si accettano smentite, integrazioni o approfondimenti. Chiunque sia stato ad avere l'illuminazione, "La gentilezza è rivoluzionaria" è stata la prima cosa che m'è venuta in mente guardando L'uomo che fissa le capre. 

L'uomo che fissa le capre è un film gentile in tutti i suoi aspetti: da come introduce l'indagine giornalistica a come tratta temi delicati come devianza e finzione, fino ad arrivare all'approccio laterale con cui si aggancia alla cronaca bellica di questi ultimi anni.
Ma L'uomo che fissa le capre è anche un film spericolato, almeno a vedere i rischi che si prende inoltrandosi nelle zone marginali dei poteri extrasensoriali o nei territori limitrofi della dabbenaggine e del disturbo mentale, senza considerare il sapore tardo-sixties che impregna tutta la vicenda. Decidere di girare un film come questo ed evitare di virare il tutto in farsa o, al contrario, di trasformare il soggetto in una favoletta surreale e inoffensiva è uno dei grandi meriti di Grant Heslov, che nonostante sia all'esordio come regista - ma va ricordato almeno per aver scritto quel piccolo gioiello di Good Night, and Good Luck - riesce a mantenere in mirabile equilibrio l'innegabile verve comica del film con istanze decisamente serie, per offrire allo spettatore uno sguardo originale sugli usi e costumi dell'uomo belligerante americano.

Una menzione d'obbligo va ovviamente agli ottimi George Clooney e Ewan McGregor (per non parlare di quello scoppiato di Jeff Bridges) senza i quali un progetto come questo non sarebbe mai potuto andare in porto. Tra i tanti momenti in cui il loro apporto diventa fondamentale mi piace ricordare il continuo sovrapporsi della faccia Ewan McGregor all'archetipo dello jedi ripetutamente evocato da George Clooney nel corso della vicenda. Temevo che un giochino come questo potesse affossare definitivamente qualsiasi pretesa seria del film e invece è proprio il continuo rimando a una realtà evidentemente fantastica a rendere paradossalmente la storia ancora più vera di quanto credevo possibile.

Insomma, L'uomo che fissa le capre è un gran bel film. Andatelo a vedere.

18 novembre 2009

Nessuna finzione

Ogni tanto capita. Inciampi in due frasi in un post che non ti aspetti, che ti fulmina per la pura e semplice verità che ti sbatte in faccia.
A me è successo ieri sera con S/T:

…preferisco teste dure non mi importa se le chiappe sono flosce.

Grazie, c.

17 novembre 2009

Aggiornamento sullo stato fotografico dell'iguana


Picture by Iguana Jo.
Ma quante poche foto ho postato quest'anno in rete? Cos'è, mi son stancato di fotografare, son diventato timido o è solo stipsi produttiva?

In realtà quest'anno ho fotografato (abbiamo fotografato, considerando anche il lavoro di Annalisa) tanto quanto gli anni precedenti, con la differenza che se prima la fotografia era un'attività completamente svincolata da impegni o vincoli o necessità documentative, ora è invece molto più mirata a progetti specifici o a veri e propri lavori in corso.
Visto che però il tempo a disposizione è sempre lo stesso, quello rimasto libero per il cazzeggio internettaro, per la cosiddetta produzione artistica o semplicemente per sistemare le foto cui sono più affezionato s'è ridotto drasticamente.

Non che fotografare su commissione non sia piacevole, tutt'altro. Specie quando chi ti chiede una mano è un amico, o quando ti ritrovi a bordo campo a fotografare i giovani rugbisti in azione - per non parlare dei veterani di mille battaglie che ancora ci provano (se leggete queste righe non picchiatemi la prossima volta al campo!) - o quando fotografando un matrimonio scattano quei meccanismi di complicità che rendono certe giornate speciali.

Il problema semmai è che se questi lavoretti aiutano a finanziare la passione, dall'altra tolgono molta della libertà espressiva cui ero abituato. L'impegno necessario per trattare al meglio questi servizi riduce il tempo passato a sistemare le immagini al computer in un lavoro (quasi) come un altro, trasformando il divertimento in routine e la sperimentazione in metodo.

Però è anche vero che l'esperienza che si matura con questa attività è impagabile. Chi l'avrebbe mai detto che mi sarei trovato a dover fare un servizio di moda con tanto di modella in un vero studio fotografico? Chi si sarebbe mai immaginato di ritrovarsi a pensare come rendere al meglio le stanze di un albergo?
Per non parlare delle difficoltà di fotografare il rugby, su campi sempre più grandi, con giocatori sempre più veloci, magari al freddo e al gelo, con il misero 70-200, che è l'unico tele che ho a disposizione.

Quindi ecco qua. Questa è la situazione. Continuerò a postare su flickr, certo. Credo che a breve ritornerò pure pro (che incredibile a dirsi, della decina di foto caricate su Getty Images un paio me le hanno pure vendute. E quindi chissà mai che a dargliene qualcun'altra non si riesca a guadagnare qualche soldino).

Non credo ci sia poi molta gente lì fuori che sente la mia mancanza (a parte la Lui, ovvio, sempre sia lodata!), ma nel caso vi stiate chiedendo che fine ho fatto, beh… ora lo sapete.


10 novembre 2009

Letture ottobre 2009


Picture by Iguana Jo.
Don DeLillo - Great Jones Street
La cosa migliore di Great Jones Street è il suo essere un racconto in presa diretta dai tenebrosi anni '70. La cosa peggiore di Great Jones Street? Continuare a essere un romanzo in presa diretta dai rutilanti anni '70.
Gli anni '70 descritti da DeLillo sono proprio come me li immagino: deprimenti, umidi e oscuri. Con quella qualità desaturata dei colori che invece di creare un'atmosfera la demolisce. Il romanzo è brillante, intendiamoci. DeLillo scrive come pochi altri. L'unico limite sta appunto nella scarsa attualità del mondo che descrive. Un mondo che anticipa il nostro ma che nel frattempo è praticamente scomparso, diventando territorio per scrittori nostalgici - e non è il caso di DeLillo - o rockers incurabili. Il mito del rock'n'roll decrittabile dalla vicenda di Great Jones Street (la rockstar in fuga dalla band, la crisi creativa, la droga e il businness) è qualcosa che ormai non esiste più, essendo stato ormai divorato dalla febbre del punk e dalla voracità di MTV. Però è in qualche modo consolante vedere narrare già nel 1973 la devoluzione di quella che all'epoca era ancora un icona rivoluzionaria. Dopotutto, e nonostante tutto, la musica non è finita e forse, da qualche parte, il fantasma di Bucky Wunderlick è ancora vivo, anche se è probabilmente troppo sfatto per combattere insieme a noi.


Roberto Bolaño - Chiamate telefoniche
Roberto Bolaño è il primo scrittore che scopro grazie ad Anobii. Dopo averne sentito decantare le lodi da più di un vicino, m'è venuto voglia di provare a leggerlo. Ho scelto questo volume di racconti un po' perché le antologie mi son sempre piaciute, un po' perché la forma breve mi consente di assaggiare aspetti diversi della sua produzione.
Magari mi sbaglio, ma l'impressione più forte che mi ha lasciato Roberto Bolaño è quella di essere un sopravvissuto (ai terribili anni '70 sudamericani, al talento artistico, al destino dei coetanei scomparsi) e di non riuscire a prescindere dal suo destino di uomo di lettere in esilio, in fuga, in perenne crisi esistenziale. I protagonisti delle sue storie sono sempre solitari, con seri problemi di socializzazione, con un qualche trauma alle spalle cui però non riescono proprio a rinunciare. Sono persone normali che si muovono ai margini del grande mondo la fuori, che non capiscono, che tentano di interpretare, ma che non cercano mai veramente di comprendere.
Ecco, forse il limite di questi racconti è che troppo spesso tra le righe delle storie (diverse, con una varietà di panorami e personaggi e situazioni) si vede l'autore, sempre l'autore, comunque l'autore, che non riesce a farsi da parte, a lasciar vivere autonomamente persone e situazioni, a non far pesare la sua ingombrante presenza, avvolgendo la realtà nelle spire a volte sin troppo soffocanti della creazione letteraria.
I racconti tormentati di Chiamate telefoniche sembrano avere un passato più profondo di quel che realmente hanno. Si collocano volontariamente fuori tempo, ma raggiungono a volte un'intensità rara, specie quando le tensioni tra necessità artistica e storia raccontata si sciolgono in un magistrale equilibrio narrativo.
Non so se leggerò altro di Bolaño, che in fondo non sento troppo vicino, di certo non rimpiango la lettura di questo volume.


Lucius Shepard - Stelle senzienti
Rock'n'roll e fantascienza. In realtà in Stelle senzienti c'è giusto il tempo per una sbirciata dietro le quinte del primo e per una spruzzata veloce della seconda, che poi il romanzo è finito. Però questa storia di Lucius Shepard funziona per l'evidente conoscenza che l'autore ha del sottobosco rock e per la sensibilità e l'affetto che dimostra nel tratteggiare i suoi personaggi, che siano coppie in crisi, bestie musicali o quarantenni rassegnati. La favola della realizzazione del talento potenziale, della sua perdita e delle conseguenze che il contatto con una forza superiore porta con sé sarà anche un tema già letto e riletto, ma questa versione di Shepard è comunque capace di regalare qualche emozione.


Jon Courtenay Grimwood - Pashazade
Perché nessuno mi ha mai parlato di Jon Courtenay Grimwood? Ricordo un'unica citazione di quest'autore ai tempi di ICF, la persona che ne parlava era affidabile e quindi mi ero debitamente segnato il titolo del romanzo. Però da allora son passati quasi 10 anni di assordante silenzio. Possibile che questo scrittore sia così poco conosciuto da 'ste parti?
Me lo chiedo perché Pashazade è una delle cose più interessanti, divertenti e avvincenti lette in ambito fantascientifico negli ultimi anni. Nel romanzo di Jon Courtenay Grimwood c'è un protagonista memorabile che si rivela nella sua complessità man mano che si procede con la lettura; c'è un'ambientazione formidabile: un'Alessandria d'Egitto di un prossimo futuro ucronico in cui le due guerre mondiali non ci sono mai state, ma che non per questo appare meno credibile o reale; c'è un plot avvincente, a metà strada tra mistero della camera chiusa e noir urbano; ci sono una serie di comprimari che si fanno ricordare, colti all'incrocio tra oriente e occidente, in precario equilibrio tra fascinazioni tecnologiche e tradizioni millenarie.
Insomma, in Pashazade c'è tutto quel che serve per divertirsi, tanto che adesso non vedo l'ora di mettere le mani sui due romanzi successivi della serie.


Beppe Fenoglio - Una questione privata
Vedi cosa mi perdo a ignorare scientemente la letteratura italiana? Sì, sono una vittima del sistema scolastico, ma sto cercando di rimediare. Dammi tempo, che un po' alla volta questi grandi autori italiani me li voglio leggere tutti. Un grazie a Chiara, quindi, che mi ha suggerito Beppe Fenoglio.
Nella corposa introduzione al romanzo si spiega come Una questione privata sia IL romanzo della Resistenza. Non so se è davvero così che, per dire, a me era già piaciuto moltissimo La messa dell'uomo disarmato. Di certo nel romanzo di Fenoglio si avverte tutta la fatica, il sudore e il freddo della lotta partigiana, si avverte la furia e la passione condita con la paura, la fame e la noia. Si scorge per un attimo un'Italia complicata e molteplice, uno schieramento tutt'altro che monolitico di fronte al nemico, la violenza improvvisa e accecante ma anche un'onestà che sa davvero d'altri tempi.
Che il tutto abbia la forma di un romanzo d'amore (ma siamo più dalle parti della passione ossessiva e furiosa di Wuthering Heights piuttosto che nel reparto baci-e-consolazione della narrativa romantica) è una specie di arcano, ipnotico ed emozionante e razionalmente quasi incomprensibile, almeno letto qui e ora.
In effetti sono arrivato alla fine di una Una questione privata scosso e stravolto quasi come Milton, il protagonista del romanzo. Non so se è l'insieme di suggestioni evocate dal racconto o se è la capacità di Fenoglio di farci rivivere un momento fondamentale della nostra storia, ma leggere questo libro è stata un'esperienza quasi commovente. In poco più di cento pagine ci rivediamo come eravamo, come saremmo sempre dovuti essere, come forse non saremo mai. E non so se è una fortuna o la più grande disgrazia ci potesse capitare.

04 novembre 2009

Tarantino Kamikaze


Cos'ha Bastardi senza gloria di così poco convincente? Perché per la prima volta dopo aver visto un film di Quentin Tarantino non sono uscito dal cinema entusiasta e saltellante (cavoli, a me era piaciuto un sacco perfino il bistrattato Deathproof…)?

É già qualche giorno che ripenso al film (il che vuol già dire qualcosa). La mia opinione al riguardo ha attraversato tutto lo spettro dei giudizi possibili, che mai come in questo film i colpi di genio si alternano, spesso nel giro di un attimo, addirittura nello stesso spazio/tempo!, a momenti di incomprensibile piattezza, i virtuosismi ai colpi d'accetta.

Per uscire dall'impasse voglio provare a riassumere (e magari trovare un senso) alle svariate impressioni che il film mi ha lasciato.

- ma quant'è bravo 'sto uomo?
La premessa sottintesa agli appunti che seguono è che pochi altri registi sono al momento capaci di fare film di tale caratura tecnica. Al volo mi vengono in mente i fratelli Coen, che però si posizionano ideologicamente agli antipodi di Tarantino. Dal punto di vista della regia, della messa in scena, dei dialoghi, del ritmo e della fotografia credo che pochi film raggiungano il livello di perfezione qualitativa di Bastardi senza gloria. Se c'è un qualche difetto è forse nella sceneggiatura e nel montaggio, ma nel complesso questo è un film decisamente superiore alla media.

- l'intero è inferiore alla somma delle sue parti
Se in un film come Kill Bill la scansione in capitoli della narrazione aveva un senso per accentuare i campi di ritmo e di stile cinematografico che caratterizzavano le varie fasi della vendetta della sposa, ne i Bastardi senza gloria i vari episodi in cui è diviso il film non si distinguono per particolari variazioni sul canone, e sebbene presi da soli siano più o meno tutti memorabili, le improvvise cesure tra un capitolo e l'altro si pongono come indebite interruzioni del flusso della storia, distraendo lo spettatore e costringendolo a ricostruire di volta in volta la vicenda appena ricominciata. Qual è il senso di questa frammentazione? Narrare più storie parallele non è mai stato un problema per Tarantino, come mai in questo caso c'è così poca organicità tra i vari capitoli?

- la questione della lingua
Non c'è intervento in rete che non celebri l'utillizzo delle varie lingue nel corso del film. A me pare che questo aspetto sia stato sopravvalutato. Certo, i passaggi da inglese a tedesco a francese a italiano sono brillanti, l'utilizzo della barriera linguistica come abile escamotage per far passare informazioni selezionate è decisamente funzionale, ma non riesco a levarmi di dosso l'impressione che Tarantino si sia semplicemente divertito a confondere le acque, a darsi un tono e a regalarsi un facile apprezzamento da parte di certa critica.
Lo dico perché in fondo l'utilizzo delle diverse lingue non è funzionale a sottolineare chissà quale differenza culturale, politica, economica - vedi per un confronto Eastern Promises (La promessa dell'assassino) di David Cronenberg - ma rappresenta unicamente una soluzione tecnica (elegante, certo) per fa procedere la vicenda.

- il cinema, soprattutto
Discorso simile a quello della lingua qui sopra. La massiccia presenza di tutta 'sta autoreferenzialità metafilmica alla fine m'è parsa stucchevole e forzata. Gli unici momenti in cui ho avvertito un sincero trasporto per il cinema sono quelli in cui Shoshanna e il suo assistente montano lo spezzone di pellicola nel film di Göbbels. Per il resto il continuo giocare a rimpiattino tra film e cinema a cui si assiste durante la visione m'è sembrato sin troppo spudorato per prenderlo sul serio. Trattandosi di Tarantino, questo aspetto di Inglorious Basterds m'è parso di volta in volta un giochino autocelebrativo, uno zuccherino concesso ai veri credenti, uno specchietto per le allodole attira critici da quotidiano.
(Paradigmatica in questo senso la scena in cui - ta-dan - l'azione si sposta improvvisamente - indebitamente, verrebbe da dire - sul suolo inglese.)
Solo quando i riferimenti sono più sottili emerge il manico del vero regista e del cineasta appassionato. Vedi per esempio la sovrapposizione tra il film nazista e gli avvenimenti in cabina di proiezione. Con lo stesso protagonista nello stesso momento nella medesima situazione. O la proiezione della risata del pre-finale sullo schermo in fiamme. Fortunatamente a Tarantino bastano un paio di scene così per riconciliarti col film.

- la violenza
Tarantino e la violenza. Quante parole sono già state spese al riguardo? Da parte mia posso solo notare come si sia evoluta la rappresentazione della violenza nel corso della sua carriera.
Dall'esaltazione estetizzante dei primi film, al ridicolo di Jacky Brown, all'astrazione di Kill Bill, passando per il grottesco di Deathproof fino alla messa in scena oltremodo reale e dolorosa di questo Bastardi senza gloria.
In effetti quest'ultimo film è forse il primo di Tarantino in cui gli scoppi di violenza sono ridotti al minimo, e proprio per questo decisivi nel trasmettere la realtà delle conseguenze del gesto violento. Il primo in cui lo spettatore è colpito direttamente dall'oltraggio fisico perpetrato alla vittima del caso.
Che si tratti di subire la visione di un cranio spappolato a colpi di mazza da baseball o di assistere allo sforzo bestiale di uno strangolamento, o al contrario di rimanere travolti dall'incomprensibile sparatoria all'interno nel seminterrato (niente slow motion, solo velocità e sangue), la violenza in questo film colpisce per quanto di offensivo (e osceno) risulta immediatamente percepibile allo spettatore. Che è esattamente l'opposto di quanto i blockbuster ci hanno ormai assuefatto ad accettare.
I colpi di Tarantino fanno male. E proprio per questo diventano difficili da mandar giù con indifferenza.

- i buoni e i cattivi
I nazisti sono il male, sceglierli quindi come cattivi vede gli spettatori allineati a priori in un giudizio morale generalmente condiviso. La qualità disturbante di Bastardi senza gloria sta anche nella capacità di Quentin Tarantino di riflettere su questo assunto costringendo il suo pubblico a scendere a patti con una rappresentazione del conflitto in cui i buoni sono personaggi pieni d'odio, che non accettano altra soluzione che quella finale, che sono disposti a immolarsi per la morte del nemico, che dimostrano continuamente un'adesione integrale alla causa, mentre i cattivi sono gli unici che dimostrano qualche sprazzo di umanità, a partire dal capitano tedesco che non capitola, passando per il neo-genitore fiducioso, per arrivare all'eroe innamorato che non manca di mostrare orrore per la sua stessa impresa.
Il tutto senza retorici rovesciamenti di prospettiva (che i nazisti siano il male non è mai in dubbio), ma compiendo un'operazione piuttosto insolita nel cinema popolare di questi decenni: rendere evidenti la complessità e le complicazioni di qualsiasi conflitto. Di nuovo, costringendo lo spettatore a fare i conti con la propria umanità.

- conclusioni
All'inizio dicevo che per la prima volta un film di Tarantino non mi ha entusiasmato. In effetti di tutti i suoi film Bastardi senza gloria è di certo il meno divertente. Ma non è detto che questo sia un difetto. Dopotutto andare al cinema e uscire con più domande di quando si è entrati sarà anche meno rilassante, ma è di certo più stimolante.
S'è parlato un po' ovunque della presunta maturità espressiva raggiunta dal regista, da parte mia credo che un po' rimpiangerò il Tarantino cazzone ed esagerato dei suoi film precedenti, ma sono curioso di vedere dove arriverà con questa sua nuova consapevolezza.
Fino a ieri i suoi film erano solo cinema, d'ora in avanti, chissà…

07 ottobre 2009

Letture settembre 2009


Picture by Iguana Jo.
Ken MacLeod - Engine City
Finalmente ci si diverte! Engine City è il romanzo conclusivo della trilogia degli Engines of Lights i cui precedenti capitoli (La fortezza dei cosmonauti e Luce nera) sono usciti sempre per Urania negli ultimi mesi.
Se nei precedenti romanzi la trama era viziata dall'eccessivo peso dato ai contenuti politici, che seppur interessanti sbilanciavano un po' troppo l'andamento della vicenda, in Engine City MacLeod prende quest'aspetto molto più alla leggera. L'autore sembra anzi prenderci gusto, allenta qualche freno ideologico e si lascia felicemente andare con un racconto decisamente più spigliato e pieno di azione, in cui la politica fa sì capolino, ma non pregiudica mai il godimento della lettura, aggiungendo semmai un ulteriore livello di complessità a una vicenda piena di sorprese. Tra i momenti da ricordare nel romanzo vanno citati almeno il tentativo di guerriglia ontologica messo in piedi da Matt Cairns e i divertiti - e divertenti - interventi alieni. Il finale m'è parso un po' tirato via, ma Ken MacLeodsi fa perdonare grazie al tono brillante di tutta la narrazione, davvero sorprendente, viste almeno le mie precedenti esperienze con i suoi romanzi.


Elmore Leonard - Killshot
Il primo Elmore Leonard non si scorda mai? mmm…
La prima parte di Killshot è effettivamente memorabile, con la presentazione dei due bizzarri criminali protagonisti del romanzo e le conseguenze del loro incontro sulla tranquilla vita dei coniugi Colson. I dialoghi sono perfetti, l'azione scandita col metronomo, l'ambiente reso in modo magistrale con due tocchi di colore.
Poi però la vicenda rischia di spegnersi, trasferendo la tensione della caccia criminale sul terreno dei rapporti familiari in crisi, perdendo per strada molto del bonus accumulato da Leonard nei primi capitoli. Sebbene l'autore si riprenda con un finale perfettamente dosato tra adrenalina, suspense ed emozione, questo non basta certo a risollevare da solo le sorti del volume.
In ogni caso Leonard mi pare degno della fama che lo circonda, e quindi prima o poi un'altra lettura se la merita.
(Consigli? io penso di provare i racconti western, ma se avete altri suggerimenti fatevi avanti!)


David G. Hartwell & Kathryn Cramer (a cura di) - L'altra faccia della realtà
Come ormai da consolidata tradizione il Millemondi estivo presenta l'antologia curata da David G. Hartwell & Kathryn Cramer che raccoglie il meglio della produzione fantascientifica breve pubblicata nel corso dell'anno. Il divario tra l'edizione originale e la sua riproposta in Italia è piuttosto ampio, prepariamoci quindi a un piccolo salto temporale, che i racconti presenti nel volume risalgono tutti al 2005.
L'altra faccia della realtà mi è sembrata decisamente superiore ai suoi omologhi degli ultimi anni. Non so se questo dipenda dall'aver incluso molti dei racconti pubblicati su Nature, che grazie alla loro brevità rendono molto più vario il panorama, o se il 2005 è stato un anno particolarmente fortunato, oppure se ero io stesso particolarmente ben disposto nei confronti del volume dato il livello di altre antologie lette ultimamente, in ogni caso la qualità della narrativa breve ospitata in queste pagine è davvero alta.
Tra i tanti ottimi racconti ne segnalo un paio che per motivi diversi mi hanno conquistato: Guadalupe e Hieronymus Bosch di Rudy Rucker, una demenziale corsa su è giù per lo spazio tempo in compagnia di una coppia di fantasmagorici personaggi e Oltre lo squarcio di aquila di Alistair Reynolds, un racconto disperatamente romantico in cui la realtà si ridisegna ad ogni pagina.
Non so se il Millemondi sia ancora disponibile in edicola, ma se lo trovate non fatevelo sfuggire.


Arthur C. Clarke - Spedizione di soccorso
Tra gli autori che hanno esordito negli anni '40 Arthur C. Clarke è uno di quelli i cui racconti sono invecchiati meglio. In questa raccolta ci sono (quasi) tutti i suoi migliori racconti più qualche episodio minore, che però non fa che confermare il suo personale approccio alla fantascienza. Un punto fermo della narrativa di Clarke è infatti la presenza costante di un profondo senso del meraviglioso che seppur strettamente legato a scienza e tecnologia, trascende il mero tecnicismo per approdare nei dintorni della mistica laica. Ecco quindi l'enormità del cosmo vista come occasione di liberazione piuttosto che come inquietante minaccia, la religione vissuta sempre come zavorra se non come ineluttabile condanna, l'umanità colta costantemente a un passo da un avvenire glorioso. Ma Clarke è anche (o soprattutto) uno scrittore inglese e a sottolinearne le origini non manca qua e là una spruzzata di sottile umorismo di stampo innegabilmente britannico.
Era da tempo che non rileggevo questi racconti, e beh… è stato come ritrovare dei vecchi amici.
Spedizione di soccorso è un'antologia di fantascienza vecchio stampo, un libro pieno di meraviglie, capace però di riservare ottimi spunti anche per il lettore del XXI secolo,.


01 ottobre 2009

L'espertitudine mi uccide.

"se [un libro] ti piace non smette di piacerti perché non piace ad Iguana."
Il senso della citazione qui sopra sarà anche ovvio ma credo che non faccia male ripeterlo. La frase arriva da un recente commento di DanielePase e dice in una riga molto di quello che cerco di spiegare di seguito.
In questo post voglio infatti provare a chiarirmi le idee sulla "critica letteraria" dal basso. Lo so. È un terreno minato. Di più: un terreno minato con un branco di cecchini appostati tutto intorno. Ma io ho la testa dura e sono notoriamente incosciente, per cui ecco qua un tentativo di riflessione senza rete su critica e letteratura, il tutto per il vostro sollazzo (e lo sviluppo intellettuale della nazione).


Originally uploaded by Iguana Jo.

Chi segue il mio blog sa già che le note ai libri che leggo non sono recensioni. Sono semplici appunti pubblici per tener conto e memoria delle mie letture. I miei post letterari non possono chiamarsi recensioni per un motivo che a me pare ovvio: una recensione deve avere una certa forma e una certa struttura. Una recensione non è la semplice espressione di un giudizio, ma deve contenere una valutazione dell'oggetto recensito utile a indirizzare la scelta dell'utente potenziale. Dovrà quindi contenere un accenno alla trama, un accostamento a opere simili, magari un generico riferimento ad altre opere dello stesso autore, una collocazione della stessa all'interno di un panorama più vasto (chessò, il fantasy hard boiled di matrice celtica o l'horror giapponese di ispirazione lovecraftiana), i motivi di originalità eventualmente presenti e, infine, un giudizio sulla qualità globale del testo da parte del recensore.
Nelle mie note non c'è quasi nulla di tutto questo, anche se è altrettanto vero che qui dentro non si lesinano i giudizi, positivi o negativi che siano, sui testi più diversi, a prescindere dalla personale dimestichezza con il singolo autore, la scena in cui si colloca, il genere a cui fa riferimento.

E fin qui direi che siamo tutti concordi.

Le opinioni divergono invece parecchio sul valore da assegnare a tali giudizi.
Nell'ultimo periodo un paio di voci molto autorevoli (almeno secondo il mio modesto parere) si sono lamentate pubblicamente nei rispettivi blog sulla scarsa qualità della scena critica italiana (si faceva riferimento alla letteratura di genere fantastico, in tutte le sue declinazioni), e sull'ingombrante presenza del pubblico dei lettori che senza titolo alcuno si erge a critico o esegeta del tal libro e di tal altro autore.
Come potete immaginare a me 'sta presa di posizione non è che faccia particolarmente piacere.
Io non sono un esperto di alcunché (oddio, qualcosa sulla stampa dovrei ormai averla imparata, ma in questo contesto non c'entra), eppure mi arrogo il diritto di sputar sentenze sui libri che leggo. Dove sbaglio?

Il punto è che esistono pochi settori in cui soggettività, parzialità e partigianeria entrano in gioco così prepotentemente come nell'ambito della cosiddetta "critica letteraria".
Per questo motivo sono convinto che tutti (tutti tutti!) siano legittimati a esprimere giudizi e critiche e suggerimenti e stroncature. Perché se è lapalissiano che chiunque può esprimere un giudizio, è altrettanto vero che di tutte queste osservazioni rimarranno negli occhi e nella memoria del lettore solo quelle in cui gli riuscirà di ritrovare specchiata un'opinione condivisibile. Senza tralasciare l'eventualità, quando va bene, che dalle parole del recensore di turno possa emergere la possibilità di scorgere nell'opera criticata nuovi aspetti trascurati o non immediatamente percepibili, spunti di riflessione che non appena evidenziati diventano trasparenti, informazioni supplementari che il lettore ignorava e che inquadrano meglio quanto letto.

Da questa semplice constatazione deriva l'ovvia conseguenza che il valore della critica sta tutto nella capacità di comunicare efficacemente con il lettore. Se il recensore saprà mettere al servizio del testo le sue competenze, se la sua lettura sarà coerente con l'opera di cui si occupa, se insomma si rivelerà esperto nel capire e rendere partecipe il lettore delle caratteristiche del lavoro che sta analizzando, allora le sue parole saranno certo più efficaci e renderanno al pubblico un servizio indubbiamente migliore.
Quello che voglio arrivare a dire è che non c'è titolo che tenga che possa a priori determinare l'espertitudine di un recensore, ma che solo l'autorevolezza e la reputazione di cui gode tra i propri lettori sono un metro di giudizio valido per valutare la qualità delle sue osservazioni sulla determinata opera.
Per questo motivo credo che irritarsi per la sovrabbondanza di opinioni men che autorevoli presenti in rete sia una totale perdita di tempo e che considerarle addirittura causa dello sfacelo in cui versano le patrie lettere un grosso errore di prospettiva. Le cosiddette recensioni presenti in rete (vedi per esempio Anobii, per un excursus rapido e si spera indolore tra i commenti della domenica che abbondano in quelle pagine) si qualificano per ciò che sono, e in tal modo danno la misura di quel che valgono come "critici" i rispettivi estensori.

Una considerazione per concludere: dopo più di dieci anni di rete sulle spalle dovremmo ormai aver capito che nel web il rumore di fondo è inevitabile - che si parli di libri come di qualsiasi altro argomento - ma anche che armandosi di pazienza e umiltà è sempre possibile intercettare in mezzo a tutto il rumore qualche nota felice. Spegnere il rumore eliminerebbe anche questa possibilità.

27 settembre 2009

Letture luglio/agosto 2009 - terza parte


Picture by Iguana Jo.
Kem Nunn - Surf City
Parlando di questo romanzo sembra sia doveroso citare Un mercoledì da leoni e/o Point Break. Fatto.
Proseguiamo.
Surf City è un romanzo interessante, forse più per il suo valore storico (il romanzo risale alla prima metà degli anni '80 del secolo scorso) che per le sue qualità letterarie. All'epoca dei fatti io non avevo neanche vent'anni, e la California era un mito. Le bande di motociclai americani un'immagine cinematografica, il punk qualcosa che suonava duro e potente dalle cassette nel registratore, il surf erano i Beach Boys e i ragazzoni biondi abbronzati sulla spiaggia. Ero messo insomma più o meno come il giovane protagonista del romanzo.
Poi si cresce e a quel punto le differenze tra la West Coast e il South Tyrol si notano tutte. Ma non divaghiamo. Il punto è che la parte di Surf City dedicata ai turbamenti del giovane Ike Tucker, che da giovane provinciale in missione familiare si trasforma in proto-surfer tutto sesso droga e (poco) rock'n'roll è decisamente superiore alla media. Tanto da dover notare con dispiacere la piega da action-thriller che prendono gli avvenimenti narrati da Nunn nel finale del romanzo. In effetti l'evoluzione della personalità del protagonista è scandita da tutti gli episodi canonici (rituali verrebbe da dire) di un percorso di formazione tipico come questo porta con sé, ma la qualità per cui questo Surf City si fa ricordare è la partecipata tenerezza con cui l'autore segue i suoi personaggi, condita alla resa davvero credibile del mondo delle spiagge californiane divise tra la luce splendente delle culture del surf e l'oscurità di chi da quella stessa luce è rimasto accecato.
Due note a margine del volume: nel libro si fa un gran parlare di punk, però non si cita un gruppo, un disco, una canzone. M'è un po' dispiaciuto, ma credo che l'approccio al punk del romanzo, visto comunque sempre dall'esterno, come stile di vita più che come genere musicale - del resto siamo ancora nella prima metà degli eighties - sia il migliore possibile. Senza ammiccamenti o riferimenti pretestuosi.
I paragoni cinematografici citati all'inizio sono effettivamente perfetti per il romanzo, in un'ideale percorso che dagli anni '60/'70 di Big Wednesday porta agli anni '80 di Surf City, fino ai '90 di Point Break. Però a me piace pensare questo romanzo vicino a un altro film di quegli anni, perchè il Preston del romanzo m'ha ricordato in qualche modo il Motorcycle Boy di Rumble Fish (aka Rusty il selvaggio).
Ah… brutta cosa, la nostalgia.


Lloyd Jones - Il libro della gloria
Se non avessi cominciato a giocare a rugby questo libretto non avrebbe mai attirato la mia attenzione. In effetti l'agiografia laica, trasparente fin dal titolo de Il libro della gloria credo possa suonare ben poco attraente al di fuori del cerchio dei veri credenti per cui il mito del rugby è il pane quotidiano. E invece giudicandolo secondo questo metro mi sarei perso un'ottima lettura.
Il libro della gloria è in effetti un gran bel libro anche per chi di rugby non sa nulla: il viaggio dei primi All Blacks alla conquista delle isole britanniche, raccontato in maniera esemplare da Lloyd Jones, va ben oltre la celebrazione di un mito sportivo. Questo libro ha il sapore della storia quotidiana di un epoca lontanissima, ma è anche un esempio meraviglioso di scrittura appassionata e sobria, luminosa e concreta. Lloyd Jones non si dilunga in descrizioni o racconti, ma narra l'epopea di questi ragazzoni neozelandesi con una serie di istantanee e un ritmo cadenzato fatto di immagini e oggetti e momenti, in cui le ricostruzioni dell'autore e la verità storica di articoli di giornale e resoconti d'epoca si mescolano sulla pagina per rendere indimenticabile la storia di una squadra che grazie al rugby è diventata leggenda.


Vernor Vinge - Universo incostante
Il più famoso romanzo di Vernor Vinge prometto molto, ma arrivati in fondo mantiene poco delle grandiose premesse iniziali. L'inizio di Universo incostante è sfolgorante: il prologo, la presentazione di personaggi e società aliene, la densità di idee e creazioni, tutto l'apparato narrativo-immaginifico messe in campo dall'autore lasciano presagire un romanzo grandioso. Una space opera al livello di un Iain Banks per intenderci, autore che per me rimane la pietra di paragone per simili romanzi.
Purtroppo, man mano che la vicenda procede, l'autore sembra perdere sempre più il controllo sia della materia narrata che della personalità dei suoi attori. Quando appassionandoti a una storia avverti il continuo rimandare lo showdown finale per motivi che ti sembrano via via più pretestuosi, e soprattutto mai all'altezza delle aspettative che l'autore stesso ha saputo creare, arrivi a fine lettura con un po' d'amaro in bocca per quel che un romanzo simile poteva rappresentare.
Di Universo incostante rimangono le ottime idee iniziali: gli Artigli, i cui aggruppi sono davvero un'ottima invenzione, la sorprendente ma credibile divisione del cosmo in regioni caratterizzate da costanti fisiche differenti, i rapporti tra culture e società più o meno evolute.
Ce n'è abbastanza per divertirsi, ma non a sufficienza per entusiasmarsi.


AA.VV. - Bad Prisma
Quando i buoni propositi si scontrano con la dura realtà. Ma non voglio ripetere quando già scritto qui. Se volete approfondire il discorso su Bad Prisma lo spazio commenti di quel post è a vostra disposizione.


17 settembre 2009

Letture luglio/agosto 2009 - seconda parte


Picture by Iguana Jo.
Avevo tutte le intenzioni di aggiornare il blog con maggiore assiduità e invece a causa dell'improvviso picco lavorativo di questo inizio settembre il mio tempo-rete si è drasticamente ridotto e quel poco che m'è rimasto se n'è andato nel tentativo di fronteggiare le reazioni al post su Bad Prisma. Ora che la situazione sembra essersi acquietata rieccomi con la seconda parte dell'elenco delle letture di luglio e agosto. A breve (spero!) la terza e ultima parte.
Prima di iniziare coi libri voglio ricordare Jim Carroll, che se n'è andato la settimana scorsa.
Carroll era un outsider della scena letteraria e musicale americana, ciò nondimeno i suoi Basketball Diaries mi hanno lasciato un ottimo ricordo di 'sto ragazzo strafatto di droga e poesia.

Roger Deakin - Nel cuore della foresta
Esiste una parola per definire la nostalgia per qualcosa che in fondo non ci appartiene? Roger Deakin con questo libro compie un piccolo miracolo: rendere i luogo sconosciuti oggetto delle sue esplorazioni più familiari di quelli che ti circondano quotidianamente. Ci riesce grazie a una combinazione unica di curiosità e competenza, passione e umiltà.
I pezzi che compongono questo volume (dai racconti di viaggio in Kazakistan o nel bosco dietro casa, agli incontri con artisti, ai reportage su mestieri in via d'estinzione) tracciano le coordinate di un mondo verde in costante trasformazione in cui il legno nelle sue più diverse declinazioni, dall'albero alle foreste, agli oggetti di uso più o meno comune, diventa incontrastato protagonista.
Grazie a questo libro ho riscoperto il piacere dell'osservazione curiosa del verde che mi circonda. A fine lettura mi sono ritrovato a guardare gli alberi con una consapevolezza diversa, che fossero gli abeti e i larici di una foresta alpina, i salici e le betulle sulle sponde di un lago o i tigli e le querce di un parco cittadino.
Nel cuore della foresta è un volume pieno di piccole meraviglie, in cui probabilmente l'unico difetto è la mancanza di una mappa che permetta di seguire più agevolmente i vagabondaggi di Deakin, specie quelli tra le foreste britanniche.


Joe R. Lansdale - La morte ci sfida
Ecco il Lansdale che preferisco. Quello che non indaga le profondità dell'animo umano né si attarda nel moralismo da bravo ragazzo del sud, ma che invece mantiene dritta la barra del timone narrativo puntando ai fatti e alle invenzioni, condendo violenza, ritmo e atmosfera in una miscela di generi che colpisce il lettore come un uragano del Texas. Ne La morte ci sfida c'è il West, l'eroe solitario in cerca di pace e redenzione, la bella del villaggio e un sacco di zombie. Allacciatevi le cinture di sicurezza, che qui si viaggia a vista!


Haruki Murakami - La fine del mondo e il paese delle meraviglie
Che fine ha fatto il cyberpunk? Possibile che a distanza di venticinque anni non sia rimasto nient'altro che un unico romanzo a memoria di un movimento che all'epoca sembrava davvero rivoluzionario? Forse che davvero i suoi aspetti visuali e modaioli hanno soppiantato nell'immaginario quanto di buono quegli autori avevano creato a livello letterario? Chi si ricorda fuori dalla cricca fantascientifica di personaggi come Rucker, Maddox, Shirley, Cadigan, Laidlaw?
Eppure qualcosa di buono quegli scrittori devono averlo fatto, che le suggestioni di questo vecchio romanzo di Murakami Haruki arrivano per buona parte dallo stesso brodo primordiale da cui sarebbero emersi più tardi altri autori importanti come Jonathan Lethem o lo stesso David Foster Wallace. Non voglio sopravvalutare la rilevanza dell'input fantascientifico nella creazione del romanzo di Murakami, solo sottolinearne l'importanza per ancorarne il soggetto a un sentire popolare allora molto diffuso. Del resto La fine del mondo e il paese delle meraviglie è una sintesi pressoché perfetta tra opposti attrattori. Così, se il confronto tra scrittura alta e letteratura di genere è uno dei possibili motivi d'interesse del volume (ma non certo il più originale o innovativo), altrettanto interessanti risultano essere le miriadi di dettagli posti in apparente contrasto tra loro e quindi distillati in una visione, questa sì parecchio più originale delle parti di cui è composta.
Nel romanzo la consistenza tecnologica e le meraviglie cibernetiche della Tokyo futura descritta nei capitoli dedicati al Paese delle meraviglie fanno da contraltare alla quiete della misteriosa enclave in perenne e fantastica stasi descritta nelle parti del romanzo ambientate nella terra desolata alla fine del mondo: tanto il primo è un mondo realistico in cui la lotta per la sopravvivenza è all'ordine del giorno, quanto il secondo appare il frutto di un escapismo portato alle estreme conseguenze. Nel mondo "reale" tutta l'azione avviene al coperto, in glaciali palazzi o in oscuri sotterranei, mentre ne la fine del mondo un ambiente naturale, sempre in qualche modo ostile e tenebroso, non manca mai di accompagnare gli spostamenti e le riflessioni del protagonista. Nella città la violenza, i sentimenti e le iniziative personali costituiscono l'humus da cui si originano tutte le storie; nel misteriosa localtà alla Fine del mondo i sogni e le ombre sono le uniche espressioni di umanità residue.
Se il primo è un mondo decisamente fantascientifico, il secondo è assolutamente fantasy (al lettore le riflessioni sui pro e i contro dei relativi universi narrativi). Ma, come scrivevo sopra, Murakami non è uno scrittore di genere. Sebbene le caratteristiche fantastiche siano decisamente funzionali al romanzo e approfondite in maniera esemplare, il nucleo de La fine del mondo e il paese delle meraviglie sta nelle peripezie fisiche e sentimentali del protagonista, sempre in bilico tra un individualismo che lo conduce inevitabilmente alla marginalità sociale ed emotiva e un coinvolgimento sempre più estraniante con il mondo circostante. La ricerca di un equilibrio lo condurrà fino alle estreme conseguenze, nel tentativo radicale di conciliare razionalità ed emozioni, cercando nel frattempo una soluzione al dolore del mondo.
La struttura binaria totalizzante de La fine del mondo e il paese delle meraviglie porta naturalmente con sé il rischio di un eccessivo schematismo. Sebbene in alcuni momenti l'alternarsi tra i due mondi risulti un po' troppo meccanico, la grazia di Murakami Haruki, la scioltezza della sua scrittura, il suo passo lieve ma sicuro, sono tali da incantare il lettore ben oltre l'ultima pagina del romanzo.
Ed è quasi un dispiacere notare che successivamente anche Murakami ha in qualche modo normalizzato, se non la scrittura, quasi sempre ad altissimo livello, almeno gli aspetti più fantastici del suo orizzonte narrativo.

03 settembre 2009

Bad Bad Prisma


Picture by Iguana Jo.
Interrompo per un momento l'elenco delle letture estive per un post dedicato all'ultimo libro letto nel torrido agosto 2009.
Certo, potevo inserire queste note nell'elenco insieme alle altre, ma credo che Bad Prisma meriti un trattamento privilegiato. Non è forse vero, fantasy a parte, che la letteratura di genere in Italia ha vita difficilissima? Che i pochi coraggiosi autori che si dilettano a creare storie e personaggi più o meno spaventosi hanno vita grama quasi quanto quelli che insistono a scrivere fantascienza? Che gli sbocchi editoriali si contano sulla dita di una mano mozza?
Bad Prisma poteva essere l'Occasione per rompere il muro. Un'antologia pubblicata da un Grande Editore distribuita in migliaia di copie in tutta la penisola. Un libro per il Grande Pubblico, finalmente in grado di apprezzare l'arte altrimenti sotterranea di questa schiera di grandi Autori nostrani.

Beh… dopo aver letto fino all'ultima pagina Bad Prisma mi chiedo se le colpe della scarsa considerazione di cui gode la scena horror / fantascientifica italiana siano solo degli editori. O se non sia invece cosa buona e giusta stendere un velo pietoso sulle capacità di comporre narrativa non dico memorabile, ma almeno interessante, di questi virgulti del gotico nazionale.

Ancor prima di accennare ai racconti sarà il caso di sottolineare che a mio parere Bad Prisma è indecente (sì sì, ho scritto proprio indecente) soprattutto in quanto prodotto editoriale nel suo complesso. Dalla lettura del volume non ho ben capito chi sia il responsabile ultimo dell'operazione. Chi ha scelto i racconti, chi li ha letti, chi li ha controllati. Il nome di Danilo Arona è speso abbondantemente, ma non sono sicuro che sia lui l'unico responsabile dello sfacelo. In ogni caso, chiunque sia stato a occuparsene, vorrei che sapesse che dal punto di vista della cura editoriale credo che questa sia la peggiore antologia mi sia mai capitato di leggere.

Pensate che sia troppo drastico? Che qualche oscuro preconcetto abbia offuscato il mio giudizio? Allora vediamo di entrare nel cuore di questo prisma molto molto cattivo. Parliamo dei racconti. La qualità generale è davvero bassa. Di racconti buoni ce n'è uno: Il tratto nero (Giacomo Cacciatore, che ci fai in mezzo a 'sto pastrocchio?). Un altro si salva per il notevole capovolgimento finale (l'autore è Gianfranco Nerozzi, che evidentemente non è l'ultimo arrivato), ma la maggior parte dei partecipanti si accontenta del compitino più o meno dignitoso, più o meno - solitamente molto meno - originale.
La caratteristica di Bad Prisma che però mi ha davvero indisposto nei confronti del volume è la sequela incredibile di errori grossolani, ignoranza spicciola, pressapochismo dilagante e incuria che caratterizza la maggior parte dei racconti.
Abbiamo personaggi che nel giro di un paio d'anni raddoppiano la loro età, un settantenne che da bambino - negli anni 40/50 del secolo scorso - indossa t-shirt dell'Uomo Ragno mentre assiste il padre rimasto vittima di un incidente sulla A13 (già…), racconti che passano con noncuranza dalla prima alla terza persona e ritorno. In altri racconti, peraltro interessanti (penso a la La forcella del diavolo) si dimostrano conoscenze per lo meno approssimative di storia e geografia. In un altro, Melissa Project, probabilmente il racconto peggiore dell'intero volume (e non era facile!), il cumulo di illogicità, la crassa ignoranza della materia narrata e la pura e semplice incapacità compositiva raggiunge l'acme con una storia di fantascienza che solo a ripensarci c'ho i conati.
Poi c'è il grande nome, ovvero Alan D. Altieri, con un racconto che spacca il culo ai passeri you blooda muthafucka (cioè, ok… era per adeguarmi al suo stile) ma che insomma mi ha lasciato un paio di dubbi: perché i suoi personaggi passano con tanta disinvoltura dall'italiano all'americano? A 'sto punto non era meglio lasciare tutti i dialoghi in lingua?. E poi per quale motivo in un racconto il cui fulcro è il pessimismo apocalittico di una realtà devastata dall'intervento armato dell'uomo si presentano armi e tecnologie belliche con tanto declamatorio entusiasmo? Sono l'unico che avverte una qualche morbosa contraddizione?

Di esempi altrettanto edificanti sul valore medio dei racconti di Bad Prisma ce ne sarebbero ancora a pacchi, ve li risparmio (e me ne risparmio la rilettura, che ho già dato). La cosa più sconvolgente, a dimostrazione di una mancanza di professionalità fuori misura, è che la maggior parte di questi, chiamiamoli passi falsi, in cui si incappa nel corso della lettura è immediatamente percepibile. Com'è possibile che un progetto programmaticamente ambizioso come questo venga mandato alle stampe e distribuito in queste condizioni?

Ma lì in Mondadori non avete proprio nessuna vergogna?

31 agosto 2009

Letture luglio/agosto 2009 - prima parte


Picture by Iguana Jo.
Mauro Antonio Miglieruolo - Come ladro di notte
Del romanzo di Mauro Antonio Miglieruolo ho già parlato in questo post, con abbondante seguito nello spazio commenti. Se volete aggiungere la vostra opinione sarete i benvenuti.

Alicia Giménez-Bartlett - Riti di morte
Secondo me in Riti di morte manca qualcosa di importante. Non so se la mia impressione sia dovuta alla scarsissima empatia che tutti i personaggi sembrano provare per i loro compagni di strada, o se magari è causata dall'assenza del pur minimo accenno alla sfera sessuale di protagonisti e comprimari, che la freddezza fisica ed emotiva che avvolge il romanzo ha un che di inquietante, o se invece dipenda dalla sensazione più volte ribadita nel corso della lettura che i rapporti di coppia si riducano a una partita doppia dove quel che davvero conta sono gli utili, i debiti, le dipendenze e le ricompense.
Ecco, il romanzo di Alicia Giménez-Bartlett m'è sembrato da un lato emotivamente frigido, dall'altro oltremodo cinico, nel complesso quindi molto lontano da quel che apprezzo solitamente in una storia come questa.
Del resto se metti in scena le avventure di una poliziotta che si distingue per il suo essere donna, per l'aver mollato due mariti e per la sua totale inesperienza investigativa, la chiave ipercinica che adotti per raccontarne le relazioni non mi pare la più adatta per interessare il lettore (questo lettore almeno). Soprattutto se all'antipatia viscerale che si inizia a nutrire in fretta per la protagonista non si accompagna una storia gialla non dico memorabile, ma almeno almeno un filo appassionante. Invece la vicenda narrata in Riti di morte continua a sbandare tra un approccio pseudo sociologico (la vita da strada, l'emarginazione urbana, il ruolo dei media) e un realismo hard boiled virato al femminile (gli interrogatori, i rapporti tra colleghi), cercando di mantenere la rotta grazie alla già citata abbondante patina di cinismo. Il che non sarebbe necessariamente un male se alla fine non fosse la trama stessa a risultare poco convincente, un po' troppo prevedibile e scontata, pur con tutti i volenterosi tentativi di distrarre il lettore adottati dall'autrice in corso d'opera.
Ma forse, molto più semplicemente, Alicia Giménez-Bartlett non è una scrittrice che fa per me.


Stephen King - Terre desolate
Terza tappa del lungo viaggio di Roland e compagni verso la Torre Nera. Dopo un inizio traballante (la prima parte è piuttosto noiosa e inconcludente) la vicenda del neo formato Ka-tet evolve in una storia venata di inquietudini e terrori urbani per poi esplodere in una seconda parte all'insegna della fantascienza post-apocalittica con tanto di intelligenze artificiali, tribù in guerra da sempre, palazzi in rovina e splendori sotterranei. Come per i romanzi precedenti del ciclo anche in questo Terre desolate non ci si annoia (quasi) mai e il finale non lesina in effetti speciali e panorami infernali, lasciando il lettore col fiato sospeso nell'attesa della prossima tappa del viaggio.


Jean-Claude Izzo - Casino totale
Ma voi ci andreste a vivere a Marsiglia? Non è una domanda retorica. In questo romanzo Marsiglia è più di un luogo: è memoria, esempio di civiltà (e barbarie), specchio dei tempi, incrocio di esistenze e destini. E se Marsiglia è marcia, forse non rimane niente da salvare.
Casino totale è un romanzo dal sapore d'altri tempi, una storia che fa della nostalgia il suo nucleo forte. Un libro che nonostante racconti la contemporaneità di una grande città alle prese con la difficile convivenza tra i sopravvissuti e i sopravviventi delle varie ondate migratorie, è sempre pronto a gettare un'occhiata indietro, a notare quello che s'è perso lungo la strada piuttosto che quel che di nuovo è spuntato all'orizzonte.
Come spesso accade in questo genere di romanzo, mi è rimasta l'impressione di una certa miopia nello sguardo dell'autore. La scrittura di Jean-Claude Izzo arriva a essere davvero entusiasmante quando il suo occhio cade sui più immediati dintorni (le storie d'onore e d'amicizia, la solitudine salvifica del disadattato e la sua immediata rovina alle prese con il consesso civile), decisamente meno memorabile quando la sua città e il suo protagonista si devono far da parte per lasciar procedere la storia. In effetti l'unico dettaglio carente in Casino totale è la trama gialla che costituisce lo scheletro del romanzo. Una vicenda di poliziotti e malavita in cui tutti (ma proprio tutti tutti) i dettagli sono parte di un unico quadro criminale, una sequenza di avvenimenti in cui Izzo si lascia andare a morti assurde e narrativamente inutili salvo che per far sprofondare ancor più nella melma il clima generale. Quasi che la realtà non sia già abbastanza nera di suo, Izzo sembra voglia non lasciare alcun dubbio al lettore, rischiando a volte di perdere il controllo sul pedale dell'amarezza e della facile commozione. Ma nonostante tutto il protagonista del romanzo è un tizio che si fa ricordare: Fabio Montale è romanzesco quanto basta per diventare un'icona del noir, ma è anche sufficientemente realistico da non far rimpiangere il tempo speso a seguirlo per le strade di Marsiglia.
Casino totale è il primo volume della trilogia che Izzo ha dedicato alla sua città. Io non so se vivrei mai a Marsiglia, ma se mi capiterà di volerci fare un giro è molto probabile che a farmi compagnia sarà un altro romanzo di Jean-Claude Izzo.


25 agosto 2009

Riprendiamo le trasmissioni


Picture by Iguana Jo.
Dove eravamo rimasti? Ah sì, l'allunaggio, la fantascienza (italiana, almeno stavolta) e sì, le vacanze.
Dopo aver passato una dozzina di giorni in val Pusteria, trascorsi in gran parte in giro per sentieri tra le montagne, i boschi, i laghi e i rifugi delle dolomiti di Sesto, è difficile tornare alla vita quotidiana, e il caldo torrido di queste ultime settimane non ha certo aiutato.
Comunque sia, ora sono di nuovo qua, ritornato al tran tran quotidiano, al lavoro e, dulcis in fundo, alla rete. Di cose in un mese ne succedono parecchie, dentro e fuori il mio piccolo mondo virtuale: amici che postano come forsennati altri che scompaiono improvvisamente, foto delle vacanze a gogo e chiacchiere estive (ma Bolt lo avete visto???).
Io sto cercando di rimettermi in pari. Cercando di ritagliarmi un po' di tempo per riordinare le idee e postare qualche nota interessante su questo ultimo periodo.
Per ora sono ragionevolmente certo che nei prossimi giorni qui dentro si parlerà di libri e serie televisive, mentre per quanto riguarda le montagne dovrete accontentarvi delle foto.
Rimanete sintonizzati.

27 luglio 2009

Perdiamoci di vista


Let's Get Lost
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Nelle prossime settimane saremo persi tra boschi e montagne. Ci si rilegge tra qualche giorno, nel frattempo fate a modo e divertitevi, sia che andiate anche voi in vacanza sia che restiate a casa.
A presto!


24 luglio 2009

Si salvi chi può. (Cinque, anzi sei, titoli di fantascienza italiana da ricordare)


Picture by Iguana Jo.
Dato che pare io ce l'abbia a morte con la fantascienza italiana, mi sembra corretto citare almeno qualche titolo che seppur senza farmi saltare dalla sedia per l'entusiasmo non m'è affatto dispiaciuto. Viste le premesse (vedi post precedenti) è inutile dire che non è che abbia letto tantissimi titoli classificabili, quindi è più che probabile che dal mio elenco manchino volumi fondamentali.
Se frequentate questo blog dovreste esservi fatti un'idea dei miei gusti, ogni suggerimento di lettura è quindi benvenuto.
(Una nota particolare riguardo l'assenza di Stefano Benni da questa lista. Quando l'autore bolognese scriveva ancora romanzi originali almeno due/tre titoli tra questi avrebbero dovuto comparire di default in classifica. Ho deciso di escluderli perché, primo, il blog è mio e lo gestisco io, e secondo, chi tra voi la fuori non conosce Benni?)
Ecco quindi la mia personalissima top five dedicata alla fantascienza italiana:

Enrica Zunic' - Nessuna giustificazione
A questa raccolta di racconti sono particolarmente affezionato. A parte il valore delle storie di Enrica Zunic', se sono legato a questo volume è anche perché Nessuna giustificazione è stato il mio primo incontro davvero entusiasmante con la fantascienza italiana.
Questo è quello che scrivevo a fine lettura:
I racconti che compongono questa antologia fanno male, raccontano la tortura e il dolore, la sofferenza e la difficile consolazione, ma sono anche immensamente compassionevoli e cosa ancor più difficile visto il contesto, riescono a lasciare accesa la scintilla della speranza.
Per raggiungere questo straordinario risultato Enrica Zunic' non ricorre ad alcun artificio retorico, a scene melodrammatiche, non evoca qualche ridondante pietismo, non va mai sopra le righe. Se colpisce e se fa male è proprio per lo stile asciutto e levigato, talmente terso da far emerge la verità nuda e cruda di quello che racconta: la verità crudele, atroce e terribilmente reale del dolore inflitto da umani ad altri umani.
Come dice Enrica Zunic': "Immagina che un amico ti dica 'Questa notte è morto mio padre'. T'accorgeresti di colpo di quante poche parole tu abbia da dirgli e quante poche parole lui dirà. E di quanto poche saranno anche le parole con cui tenterai di raccontare il suo dolore ad altri. E se tentassi forse annaspando di fare discorsi lunghi accumuleresti frasi senza aggiungere nulla che valga o serva di più. Ciò che vorrai fare e farai se potrai sarà abbracciarlo forte in silenzio e poi trasmettere come sai e puoi agli altri il dolore che hai per lui."
Ecco, i racconti di Nessuna giustificazione sono dei forti abbracci, non eliminano il dolore, ma almeno ne accolgono una parte e forse forse lo rendono più sopportabile.
Ma i racconti presentati nell'antologia sono soprattutto delle superbe storie di fantascienza.
Nonostante l'intento dichiaratamente morale non sono mai didascalici anzi, colpiscono proprio per la forza delle vicende narrate, in cui il contesto fantascientifico non è una semplice patina futuribile ma assolve a precise necessità narrative. Al momento sono tra i migliori racconti di fantascienza italiana che abbia mai letto.
Delle sei storie che compongono il volume quelle che più mi sono rimaste impressi sono Il dolore del marmo, Cronaca Manichea, La memoria di Eren. Appena un gradino sotto Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo. Gli altri non sono certo inferiori stilisticamente o per altro (anzi, per certi versi sono anche meglio) però non mi hanno colpito altrettanto... più avanti provo a spiegarmi.
Il dolore del marmo, il primo racconto della raccolta, è stato come una mazzata data con una clava imbottita d'ovatta. Non fa male subito: man mano che capisci cosa sta succedendo (e cosa è già successo) ti si rizzano i capelli in testa. Poi, per fortuna, c'è un minimo di consolazione, ma il danno è fatto. Col senno di poi non poteva esserci un racconto migliore per aprire il volume. Il progressivo rovesciarsi della prospettiva, la presa di coscienza del narratore, le condizioni sempre più insostenibili di Kalis, la speranza nell'ultima frase... beh c'è già tutto quello che Enrica scriverà più avanti. Magari non sarà il racconto stilisticamente migliore, ma certo come apripista è davvero un buon lavoro.
Cronaca Manichea è quello che mi ha dato più da pensare. Forse la sua forza sta proprio nelle sue imperfezioni (o almeno tali mi sono parse): costringono il lettore (o per meglio dire: mi hanno indotto) a riflettere sul senso di quanto andavo leggendo, sulle implicazioni, sul riverbero che ha sul mondo il comportamento di pochi, sulla colpa e la punizione, su quale sia la risposta migliore e la peggiore a certi comportamenti, su quali siano i prezzi da pagare, etc etc. Oltre al disagio per il tanto, troppo odio che sprizza fuori dalla pagina c'è il conforto della figura di Nithael. In definitiva come fonte di emozioni, stimoli, e pensieri mi è sembrato perfetto.
La memoria di Eren mi ha sorpreso. Non mi aspettavo una sterzata così poco fantascientifica. Mi hanno colpito il punto di vista familiare, la sensibilità nell'affrontare dal punto di vista di una bambina la detenzione e tutto quello che comporta in termini di dolore, assenza e conseguenze. L'esito fantastico della vicenda seppur incredibile m'è parso doveroso (quasi un risarcimento) senza togliere un grammo al peso della vicenda.
Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo (a proposito: eccezionale questo titolo!) mi è indimenticabile per Ain, non credo serva dire altro. Ma oltre ad Ain anche per i tanti personaggi che appaiono nel racconto, che rimangono tutti immediatamente impressi, che con pochi cenni già si capisce che persone siano. Non dev'essere stato facile.
Gli altri racconti sono dei gran bei racconti, sono perfetti, non so perché mi abbiano colpito di meno, ma tant'è. Una nota particolare per La discesa interrotta dal rosa e dal blu: avevo tanto sentito parlare di questo racconto che le mie aspettative erano davvero elevate. E non sono rimasto deluso. Forse il motivo per cui non è tra quelli che più mi hanno emozionato è che in definitiva la discesa è la cronaca di una vittoria. Ain e soci hanno vinto una battaglia contro gli infami carcerieri, e questo è molto bello, il senso di esaltazione quando si scoprono le carte è davvero grandioso. Ma purtroppo l'euforia per la vittoria è un'emozione veloce, non rimane dentro come la compassione (non pietà, spero sia chiaro che per me sono due cose ben diverse) per le vittime che esprimono le altre storie, e soprattutto questo racconto m'è parso il più incredibile tra tutti quelli che compongono Nessuna Giustificazione, quello da cui è più facile nascano beate illusioni sulle possibilità di salvezza per le vittime, ovunque siano rinchiuse...


Giampaolo Proni - La dea digitale
Nonostante La dea digitale sia un romanzo indubbiamente fantascientifico, non è stato pubblicato in una collana di genere ma, cosa piuttosto insolita, da Fazi Editore (quello di Eureka Street, tanto per citare un titolo piuttosto noto) che non mi pare abbia altri titoli di genere in catalogo.
La dea digitale è un incrocio tra cyberpunk e hard sf abbastanza originale da meritare una lettura. Nel romanzo di Giampaolo Proni c'è una storia appassionante, idee in abbondanza e pure l'aspetto scientifico non è da sottovalutare. Quello che manca è forse una maggiore profondità e consapevolezza nei personaggi e, soprattutto, nei dialoghi. In ogni caso questo romanzo è decisamente superiore alla produzione media fantascientifica che ci viene proposta dalle case editrici specializzate.
Peccato sia passato per le librerie praticamente ignorato, sia dal pubblico generalista, sia da quello più attento alla produzione di genere.


Alberto Cola - Goliath
Il romanzo di Alberto Cola era, al momento in cui lo lessi, il primo esempio di valida fantascienza italiana leggera in cui mi imbattevo.
Per fantascienza leggera intendo quel tipo di romanzi che non ambiscono a svelare la Verità sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto, ma che si accontentano, molto più discretamente, di intrattenere il lettore divertendolo e appassionandolo fino all'ultima pagina.
In questo senso Goliath è stata una gran bella sorpresa.
Ecco quello che scrivevo all'epoca:
Nonostante non ami particolarmente le storie di superuomini, Goliath fila che è una meraviglia, si legge d'un fiato, è appassionante e divertente.
Alcune osservazioni: Goliath è consigliabile a chi in un romanzo di sf cerca soprattutto l'azione, ambientazioni esotiche, rapidi cambi di scena, ninja assassini cattivissimi, scienziati e miliardari (più o meno) pazzi, scenari apocalittici, violenza e redenzione... insomma tutto l'armamentario del buon vecchio pulp di razza.
Se l'autore invece di chiamarsi Alberto Cola si chiamasse Albert Cole (o qualcosa di simile) immagino avrebbe tutt'altro seguito, ma tant'è...
A dirla tutta mi sarebbe piaciuta una prospettiva un po' più allargata: lo scenario rimane un po' troppo sullo sfondo per privilegiare personaggi e scorrere, frenetico, degli avvenimenti. Le descrizioni di Cola sono affascinanti (vedi per esempio la Torino di inizio romanzo), ma rimangono troppo isolate nel proseguio della vicenda. Altra cosa che m'è dispiaciuta è il destino dell'unico personaggio italiano di un certo peso nel racconto. 
Ma sono dettagli, che la storia si legge comunque con piacere.


AA.VV. - Frammenti di una rosa quantica
Di questa antologia che ambisce a presentare il meglio della nuova fantascienza italiana ho già parlato abbondantemente nel blog un anno e mezzo fa (il post è questo).
La qualità media dei racconti presenti non sarà forse all'altezza di una top five che si rispetti. Però tra le pagine di questo volume ci sono almeno 3 o 4 racconti che secondo me sono davvero memorabili, e si collocano abbondantemente sopra la media della produzione sf nostrana.
E poi scusate, le avete viste le illustrazioni che corredano i racconti? (lo so lo so, non dovrei fare 'ste cose, ma quando mi ricapita l'occasione?)


Dario Tonani - Infect@
Giovanni De Matteo - Sezione π²
Al quinto posto di questa classifica metto due titoli ad ex-aequo. Potete trovare qualche nota più approfondita sui due romanzi più indietro nel blog (rispettivamente qui per Infect@ e qui per Sezione π²).
Nessuno dei due volumi è un romanzo perfetto. Però se devo segnalare qualche titolo che mi dia qualche speranza per il futuro della fantascienza nostrana non mi vengono in mente esempi migliori.
Sia Dario Tonani che Giovanni De Matteo hanno le qualità per comporre (finalmente!) un romanzo italiano di fantascienza degno di posizionarsi tra i vertici del genere. Speriamo che nonostante la situazione editoriale nostrana sia davvero tragica i nostri non si perdano d'animo e insistano a battere la pista per le stelle. Io faccio il tifo per voi.

21 luglio 2009

La luna sopra Marzaglia


Picture by Iguana Jo.
L'avvenimento è stato celebrato in tutte le salse, raccontato in ogni dettaglio, analizzato in ogni sfumatura. Gli eroici astronauti hanno avuto il giusto riconoscimento, come tutto lo staff tecnico che ha messo in piedi quest'impresa straordinaria. Tutto è andato come doveva andare insomma, ma a me di questi giorni è rimasto soprattutto il sapore di un enorme rimpianto. Come se il quarantennale dello sbarco sulla luna si fosse trasformato da celebrazione dello spirito umano nell'epitaffio definitivo di un'epoca in cui l'idealismo trovava ancora il modo di coniugarsi pragmaticamente con la realtà, in cui si riusciva a concepire (e realizzare!) l'impossibile. Un periodo in cui la speranza di un futuro migliore era ancora ben presente nell'immaginario di tutti noi.

Ieri siamo sbarcati sulla luna, oggi siamo ancora qua. Decisamente più realisti, forse più cinici, indubbiamente più consapevoli dei nostri limiti. Rassegnati ad alimentare il fuoco della speranza in un luogo piccolo e segreto dentro di noi, che non è più tempo di sogni collettivi.
Consapevoli che non è vero che sperare non costa nulla, ma che l'alternativa è decisamente peggiore.
In attesa di compiere il prossimo grande balzo.

15 luglio 2009

La parusia


Picture by Iguana Jo.
Sgombriamo il campo dagli equivoci. In questo blog non si pubblicano recensioni (che siano di romanzi, di film o di quel che vi pare). Le recensioni sono roba ben più seria delle note che trovate scorrendo i contenuti di queste pagine. Io mi limito a leggere qualche libro e a riportarne poi un'impressione. Se qualcuno la trova utile, bene, altrimenti va bene lo stesso, che lo scopo principale di questi post è chiarirmi meglio le idee. Questo ovviamente non significa che il contributo degli eventuali visitatori non sia considerato, anzi!
Scrivere mi costringe a pensare, ma è grazie ai i vostri commenti che sono costretto a pensare meglio e di più!

Vedi per esempio Come ladro di notte, esaltato un po' ovunque come il capolavoro introvabile della fantascienza italiana, che è appena uscito in una nuova edizione per Urania Collezione. Erano anni che sentivo parlare di questo romanzo. I pochi (che le edizioni precedenti del romanzo sono praticamente introvabili) ma agguerriti sostenitori dell'opera di Miglieruolo non perdevano occasione di rilanciare il suo nome tra gli autori che bisognava assolutamente ristampare. Io non potevo certo ignorare tante insistite perorazioni, ma ora che l'ho letto ho le idee parecchio confuse.

Da dove partiamo? Da una genericissima disanima della fantascienza italiana secondo me? Va bene, so che mi vado a infilare in un altro ginepraio, ma almeno proviamoci.
Mi sono ripromesso di stare sul generico, quindi diciamolo subito: in generale la fantascienza italiana non mi piace.
Se la mia avversione verso la produzione sf nostrana si è trasformata a tutti gli effetti in un pregiudizio, lo si deve probabilmente a quelli che ho riscontrato essere i suoi tratti caratteristici: la mancanza pressoché assoluta del senso del meraviglioso, l'incapacità di uscire dalla dipendenza da modelli preesistenti, il disperato quanto futile bisogno dell'autore di sovrastare la storia con la propria voce, la propria arte (pfui!), l'assenza di grinta e coraggio e leggerezza, il grigiore generale di cui sono permeati racconti e romanzi.
Questi difetti sono tanto più evidenti quanto più si risale il corso del tempo, tanto che quando qualche anno fa m'è capitato di leggere il primo volume di fantascienza italiana che non mi ha deluso (per i curiosi si trattava di Nessuna giustificazione di Enrica Zunic) credevo sinceramente fosse finalmente arrivato il tempo della maturità anche per la nostra fantascienza. Poi è saltato fuori che mi sbagliavo, che se in effetti da quel momento in poi qualcosa di buono ogni tanto l'ho trovato, si tratta ancora di primi passi, altro che maturità.
Questa però è un'altra storia.

Torniamo dunque a Mauro Antonio Miglieruolo e al suo romanzo.
Non faccio nessuna fatica ad immaginare le reazioni entusiaste di Aldani prima, e di Curtoni e Montanari poi, alla lettura del manoscritto di Miglieruolo. Siamo intorno al 1970 e per lo standard dell'epoca (si legga ad esempio l'antologia Universo e dintorni che offre un panorama della produzione italiana degli anni '70) Come ladro di notte si colloca davvero in un'altra dimensione.
Io però il romanzo l'ho letto solo ora, e mi chiedo se a quarant'anni di distanza quell'entusiasmo sia ancora giustificato.

Partiamo con le note positive.
Più ancora della storia quello che mi ha colpito nella space opera di Miglieruolo è la struttura del romanzo, che se ne frega della linearità della narrazione e si sviluppa per addizione di quadri ed episodi, lasciando al lettore il compito di orientarsi tra personaggi, ambienti, sequenze temporali e avvenimenti. Una struttura simile, per quanto tutt'altro che perfetta, soprattutto per la sovrabbondanza di dettagli narrativi che non vengono approfonditi, è qualcosa di profondamente diverso da quanto offriva la fantascienza dell'epoca. A questa struttura si aggancia l'ambizioso intento dell'autore di voler raccontare una storia profondamente (definitivamente?) politica. Anche se questo aspetto del romanzo mi ha lasciato piuttosto freddo (se non francamente irritato, vedi per esempio la sovrapponibilità perfetta tra teoria e pratica dell'ideologia - e fanculo a tutte le persone prese in mezzo - e la frattura evidente tra questo approccio e la vita vera) non è in realtà un vero difetto, che molto dipende dall'approccio politico del lettore. Bisogna inoltre tener presente che questo è un romanzo figlio degli anni '60 e qualcosa bisognerà pur concedergli.
Sullo sfondo di Come ladro di notte, a sostenere attivamente la vicenda, c'è un universo che per le dimensioni esagerate e i valori numerari che entrano in gioco non ha uguali nella storia della fantascienza italiana: miliardi di astronavi (elencate per classi, ordini, armamenti, equipaggi e dislocazioni che nemmeno un Carlo Emilio Gadda in pieno trip spaziale), sistemi stellari a gogò, pianeti artificiali per tutti i gusti e dimensioni, elenchi su elenchi di materiali, tutto spianato davanti agli occhi del lettore allo scopo di travolgerlo con la potenza di fuoco della semplice aritmetica. Un gigantismo sfrenato che se da un lato fa sorridere, dall'altro rende bene l'idea dell'enorme macchina burocratica messa al servizio della distruzione dell'uomo (sì, avete letto bene, nel romanzo non si perde tempo in futili problemi esistenziali - non solo almeno - ma si racconta degli ispirati preparativi per terminare la vita umana nell'universo. Mica quisquilie.).
L'impianto narrativo di Come ladro di notte non farà urlare al capolavoro, ma è decisamente più interessante di quanto capita solitamente di leggere negli stretti ambiti della fantascienza nostrana. I problemi del romanzo sono altri, e iniziano sin dalla prima riga. L'italiano che Miglieruolo utilizza per raccontare la sua storia è quanto di meno leggibile mi sia mai capitato di incontrare. Io non sono un esperto di sintassi, la grammatica non è certo il mio forte, ma ho la presunzione di saper distinguere un italiano volutamente complesso, con frasi articolate e composizioni ardite (prima citavo Gadda mica così tanto per dire) da un italiano che ambisce a certe altezze e che si deve invece accontentare di essere una copia maldestra di tale complessità. La lingua utilizzata dall'autore m'è parsa esageratamente barocca e leziosa, talmente finta, teatrale e altisonante che arrivare a fine romanzo è stata davvero una fatica. La cosa che mi ha più sorpreso è che nessuno sembra averci fato caso: nè nella postfazione di Lippi, né nelle parole di presentazione di Curtoni & Montanari si fa più di un vago cenno alla scrittura di MIglieruolo. Nemmeno nei pochi commenti letti in rete la questione del linguaggio viene mai menzionata. Eppure a me è sembrata davvero una cosa evidente! Mah… forse sono davvero io che non capisco, ma non credo che certe scelte stilistiche siano casuali. Se Miglieruolo ha scelto un certo regitro avrà avuto i suoi motivi. Mi piacerebbe solo conoscerli! Che se non fosse per questa incomprensione, il romanzo non sarebbe stato niente male.

Se qualcuno volesse illuminarmi, prego, si accomodi.


09 luglio 2009

Paolo Nori e la fantascienza


Picture by Iguana Jo.
Qualche giorno fa Paolo Nori ha tenuto a Modena un discorso pubblico sulla fantascienza.
L'evento era abbastanza curioso da attirare la mia attenzione, dato che i due soggetti (Nori e la letteratura di genere) non hanno praticamente nulla in comune.
Ma forse è preferibile fare un passo indietro per inquadrare meglio la situazione.
Paolo Nori è un curioso scrittore emiliano che nel giro di una decina d'anni ha pubblicato una valanga di volumi (io ne ho letto solo uno, ne parlo qui). Paolo Nori ha un fedele e appassionato seguito di lettori, grazie anche alla fama di intrattenitore di cui gode (non saprei come altro definire la sua attitudine alla lettura pubblica di testi vari). Paolo Nori è un bel tipo, la fantascienza mi interessa, val quindi la pena di andare fino a Modena ad ascoltarlo.

La serata parte bene, c'è un sacco di gente (oh… saranno 100/150 persone, decisamente tante per uno scrittore, no?) che nell'attesa del discorso di Nori si ritrova ad ascoltare il chitarrista (sorry, non ricordo il suo nome…) che accompagna live la voce registrata di Emidio Clementi che legge un racconto di Carlo Fruttero (che insieme a Lucentini sarà il vero protagonista della serata, ma non precorriamo i tempi).
Il racconto è L'affare Herzog , che solo molto più tardi mi sarei reso conto di aver già letto, qualche anno fa, evidentemente senza rimanerne particolarmente colpito. Sentirselo però raccontare mi ha fatto uno strano effetto. Non so se sia dipeso dalla capacità evocativa della voce di Clementi (onore al merito, nonostante i Massimo volume non li regga proprio, Clementi m'è proprio piaciuto), dall'atmosfera surreale della situazione (pensateci: un centinaio di persone in religioso silenzio radunate in un ex ospedale nel bel mezzo di una mostra d'installazioni artistiche - non ve l'avevo ancora detto? vabbé, è un dettaglio - ad ascoltare tutti insieme la voce registrata di un uomo che legge un racconto di fantascienza mentre una chitarra elettrica con delle pretese accompagna dal vivo il tutto, what a performance!) o se le qualità del racconto sono finalmente emerse alla mia attenzione (raramente capita di imbattersi in una storia capace di ribaltare tante volte la prospettiva e le aspettative del lettore), ma, chitarrista escluso - se avesse abbassato un po' il volume non sarebbe stato male - la lettura del racconto è stata decisamente un'esperienza positiva.

Arriviamo a Nori, al mistero della sua partecipazione a un simile evento. (Che poi quale mistero: secondo me Nori è quel che si dice una simpatica canaglia, buono a inventarsi qualsiasi scusa per non lavorare. Neanche da dire che solo per questo merita il massimo rispetto, eh!)
Nori parte bene, mettendo le mani avanti e dicendo che lui di fantascienza non ci capisce un tubo, ma ha preso l'impegno di tenere 'sto discorso e quindi s'è preparato. E qui forse arriva la parte più interessante per gli appassionati di sf in ascolto.
Cosa ha scelto Nori per prepararsi un minimo sulla sf? Ha scelto di leggersi i capitoli dedicati alla fantascienza ne I ferri del mestiere della premiata ditta Fruttero & Lucentini.
(Qui potrebbero partire - e sono partiti, vedi sotto - tutta una serie di corto circuiti con i discorsi fatti negli ultimi giorni in calce a questo post. Del resto mica mi metterei a parlare solo oggi di Nori e sf se non arrivassi da una estenuante discussione sui rapporti tra fantascienza & mainstream, no?)
Una volta fatta la scelta del testo di riferimento l'apporto personale di Paolo Nori alla serata è (quasi) secondario: ci mette la simpatia e lo spirito, ci mette la cornice narrativa del discorso pubblico, ci mette la sua capacità affabulatoria, ma le parole importanti pronunciate nel corso della serata sono tutte di Fruttero & Lucentini.
Il primo corto circuito, davvero sconvolgente, avviene al momento della declamazione di una frase del tutto secondaria nel contesto della lettura, ma dall'effetto davvero dirompente a sentirla oggi a 30 anni di distanza - il saggio da cui è tratta è del 1978. La domanda è posta dall'esterno a F&L, esperti dell'argomento: "perché la fantascienza ha tanto successo?" (minuto 3:04 della registrazione del discorso linkata sopra). Possibile che in trent'anni abbiamo perso tutto 'sto terreno?
Io non ho (ancora?) letto I ferri del mestiere, ma se gli scorci intravisti nel discorso di Nori sono significativi allora bisognerà riconsiderare l'antipatia che ho sempre nutrito verso il dinamico duo. Sì, certo, l'idea che si tratti di due snob, di due dotti signori cui ogni tanto piaceva sporcarsi le mani con gli scritti del volgo non mi lascerà mai, però m'è sembrato di scorgere una sincera simpatia, di più, un rispetto, per il genere "fantascienza" che nei salotti delle belle lettere è tuttora merce rarissima.
Se l'eccezionalità del loro atteggiamento è il secondo dei corti circuiti in cui m'imbatto, un altro è quello sull'idea del pubblico dei lettori di fantascienza - di Urania, ma non solo - che emerge dalle parole di F&L mediate da Nori: un pubblico esigente ma estremamente rigido e conservatore, lettori ipercritici e appassionati, ma lettori verso cui ci si sente responsabili e su cui esercitare un placido paternalismo per tutelarne l'indubbia per quanto particolare ingenuità letteraria (questo in realtà non è stato detto, ma oh… la sensazione che fosse il fondamento della proposta editoriale uranica ai tempi è risuonata piuttosto forte tra le righe).
Mentre io son li perso tra i miei pensieri Nori procede nella sua personale esplorazione del genere fantascienza, con divagazioni, salti e reiterazioni di passaggi retorici che mi hanno fatto capire il perché lo scrittore abbia un tal seguito di pubblico, fino a terminare in bellezza il suo discorso con un finale virato al surreale che riesce a essere al contempo divertente, apologetico e pure un po' fantascientifico.
Nel complesso una degna conclusione per un piacevole discorso pubblico. Ma alla fine un dubbio m'è comunque rimasto: possibile che per il mondo esterno siano ancora Fruttero & Lucentini i referenti seri per un discorso sulla fantascienza in Italia? E poi mi venite a dire che non è Urania, magari nella sua incarnazione classica e ormai superata, il riferimento ideale per chi si immagina - da fuori, sempre da fuori - cosa sia mai la fantascienza?

Per non farla troppo lunga (ascoltatevi il discorso che comunque è divertente), la serata m'è piaciuta: Nori non s'è spacciato per quello che non è, e ha dimostrato un gran bel disinteresse per la fantascienza. Sì sì, ho scritto disinteresse, che Paolo Nori ha fatto una cosa che non capita tutti i giorni: ha trattato la fantascienza come un argomento qualsiasi, ne ha parlato in modo normalmente divertente, ha dimostrato che anche chi non frequenta il genere vi si può avvicinare senza boria o ocondiscendenza, e già questo per me è un piccolo successo. Certo, Paolo Nori non è la maggioranza del pubblico mainstream, ma di questi tempi noi qui ai margini del ghetto ci accontentiamo di poco.