Nelle prossime settimane saremo persi tra boschi e montagne. Ci si rilegge tra qualche giorno, nel frattempo fate a modo e divertitevi, sia che andiate anche voi in vacanza sia che restiate a casa.
A presto!
…
27 luglio 2009
24 luglio 2009
Si salvi chi può. (Cinque, anzi sei, titoli di fantascienza italiana da ricordare)
Dato che pare io ce l'abbia a morte con la fantascienza italiana, mi sembra corretto citare almeno qualche titolo che seppur senza farmi saltare dalla sedia per l'entusiasmo non m'è affatto dispiaciuto. Viste le premesse (vedi post precedenti) è inutile dire che non è che abbia letto tantissimi titoli classificabili, quindi è più che probabile che dal mio elenco manchino volumi fondamentali.
Se frequentate questo blog dovreste esservi fatti un'idea dei miei gusti, ogni suggerimento di lettura è quindi benvenuto.
(Una nota particolare riguardo l'assenza di Stefano Benni da questa lista. Quando l'autore bolognese scriveva ancora romanzi originali almeno due/tre titoli tra questi avrebbero dovuto comparire di default in classifica. Ho deciso di escluderli perché, primo, il blog è mio e lo gestisco io, e secondo, chi tra voi la fuori non conosce Benni?)
Ecco quindi la mia personalissima top five dedicata alla fantascienza italiana:
Enrica Zunic' - Nessuna giustificazione
A questa raccolta di racconti sono particolarmente affezionato. A parte il valore delle storie di Enrica Zunic', se sono legato a questo volume è anche perché Nessuna giustificazione è stato il mio primo incontro davvero entusiasmante con la fantascienza italiana.
Questo è quello che scrivevo a fine lettura:
I racconti che compongono questa antologia fanno male, raccontano la tortura e il dolore, la sofferenza e la difficile consolazione, ma sono anche immensamente compassionevoli e cosa ancor più difficile visto il contesto, riescono a lasciare accesa la scintilla della speranza. Per raggiungere questo straordinario risultato Enrica Zunic' non ricorre ad alcun artificio retorico, a scene melodrammatiche, non evoca qualche ridondante pietismo, non va mai sopra le righe. Se colpisce e se fa male è proprio per lo stile asciutto e levigato, talmente terso da far emerge la verità nuda e cruda di quello che racconta: la verità crudele, atroce e terribilmente reale del dolore inflitto da umani ad altri umani. Come dice Enrica Zunic': "Immagina che un amico ti dica 'Questa notte è morto mio padre'. T'accorgeresti di colpo di quante poche parole tu abbia da dirgli e quante poche parole lui dirà. E di quanto poche saranno anche le parole con cui tenterai di raccontare il suo dolore ad altri. E se tentassi forse annaspando di fare discorsi lunghi accumuleresti frasi senza aggiungere nulla che valga o serva di più. Ciò che vorrai fare e farai se potrai sarà abbracciarlo forte in silenzio e poi trasmettere come sai e puoi agli altri il dolore che hai per lui." Ecco, i racconti di Nessuna giustificazione sono dei forti abbracci, non eliminano il dolore, ma almeno ne accolgono una parte e forse forse lo rendono più sopportabile.
Ma i racconti presentati nell'antologia sono soprattutto delle superbe storie di fantascienza. Nonostante l'intento dichiaratamente morale non sono mai didascalici anzi, colpiscono proprio per la forza delle vicende narrate, in cui il contesto fantascientifico non è una semplice patina futuribile ma assolve a precise necessità narrative. Al momento sono tra i migliori racconti di fantascienza italiana che abbia mai letto.
Delle sei storie che compongono il volume quelle che più mi sono rimaste impressi sono Il dolore del marmo, Cronaca Manichea, La memoria di Eren. Appena un gradino sotto Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo. Gli altri non sono certo inferiori stilisticamente o per altro (anzi, per certi versi sono anche meglio) però non mi hanno colpito altrettanto... più avanti provo a spiegarmi.
Il dolore del marmo, il primo racconto della raccolta, è stato come una mazzata data con una clava imbottita d'ovatta. Non fa male subito: man mano che capisci cosa sta succedendo (e cosa è già successo) ti si rizzano i capelli in testa. Poi, per fortuna, c'è un minimo di consolazione, ma il danno è fatto. Col senno di poi non poteva esserci un racconto migliore per aprire il volume. Il progressivo rovesciarsi della prospettiva, la presa di coscienza del narratore, le condizioni sempre più insostenibili di Kalis, la speranza nell'ultima frase... beh c'è già tutto quello che Enrica scriverà più avanti. Magari non sarà il racconto stilisticamente migliore, ma certo come apripista è davvero un buon lavoro.
Cronaca Manichea è quello che mi ha dato più da pensare. Forse la sua forza sta proprio nelle sue imperfezioni (o almeno tali mi sono parse): costringono il lettore (o per meglio dire: mi hanno indotto) a riflettere sul senso di quanto andavo leggendo, sulle implicazioni, sul riverbero che ha sul mondo il comportamento di pochi, sulla colpa e la punizione, su quale sia la risposta migliore e la peggiore a certi comportamenti, su quali siano i prezzi da pagare, etc etc. Oltre al disagio per il tanto, troppo odio che sprizza fuori dalla pagina c'è il conforto della figura di Nithael. In definitiva come fonte di emozioni, stimoli, e pensieri mi è sembrato perfetto.
La memoria di Eren mi ha sorpreso. Non mi aspettavo una sterzata così poco fantascientifica. Mi hanno colpito il punto di vista familiare, la sensibilità nell'affrontare dal punto di vista di una bambina la detenzione e tutto quello che comporta in termini di dolore, assenza e conseguenze. L'esito fantastico della vicenda seppur incredibile m'è parso doveroso (quasi un risarcimento) senza togliere un grammo al peso della vicenda.
Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo (a proposito: eccezionale questo titolo!) mi è indimenticabile per Ain, non credo serva dire altro. Ma oltre ad Ain anche per i tanti personaggi che appaiono nel racconto, che rimangono tutti immediatamente impressi, che con pochi cenni già si capisce che persone siano. Non dev'essere stato facile.
Gli altri racconti sono dei gran bei racconti, sono perfetti, non so perché mi abbiano colpito di meno, ma tant'è. Una nota particolare per La discesa interrotta dal rosa e dal blu: avevo tanto sentito parlare di questo racconto che le mie aspettative erano davvero elevate. E non sono rimasto deluso. Forse il motivo per cui non è tra quelli che più mi hanno emozionato è che in definitiva la discesa è la cronaca di una vittoria. Ain e soci hanno vinto una battaglia contro gli infami carcerieri, e questo è molto bello, il senso di esaltazione quando si scoprono le carte è davvero grandioso. Ma purtroppo l'euforia per la vittoria è un'emozione veloce, non rimane dentro come la compassione (non pietà, spero sia chiaro che per me sono due cose ben diverse) per le vittime che esprimono le altre storie, e soprattutto questo racconto m'è parso il più incredibile tra tutti quelli che compongono Nessuna Giustificazione, quello da cui è più facile nascano beate illusioni sulle possibilità di salvezza per le vittime, ovunque siano rinchiuse...
Giampaolo Proni - La dea digitale
Nonostante La dea digitale sia un romanzo indubbiamente fantascientifico, non è stato pubblicato in una collana di genere ma, cosa piuttosto insolita, da Fazi Editore (quello di Eureka Street, tanto per citare un titolo piuttosto noto) che non mi pare abbia altri titoli di genere in catalogo.
La dea digitale è un incrocio tra cyberpunk e hard sf abbastanza originale da meritare una lettura. Nel romanzo di Giampaolo Proni c'è una storia appassionante, idee in abbondanza e pure l'aspetto scientifico non è da sottovalutare. Quello che manca è forse una maggiore profondità e consapevolezza nei personaggi e, soprattutto, nei dialoghi. In ogni caso questo romanzo è decisamente superiore alla produzione media fantascientifica che ci viene proposta dalle case editrici specializzate.
Peccato sia passato per le librerie praticamente ignorato, sia dal pubblico generalista, sia da quello più attento alla produzione di genere.
Alberto Cola - Goliath
Il romanzo di Alberto Cola era, al momento in cui lo lessi, il primo esempio di valida fantascienza italiana leggera in cui mi imbattevo.
Per fantascienza leggera intendo quel tipo di romanzi che non ambiscono a svelare la Verità sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto, ma che si accontentano, molto più discretamente, di intrattenere il lettore divertendolo e appassionandolo fino all'ultima pagina.
In questo senso Goliath è stata una gran bella sorpresa.
Ecco quello che scrivevo all'epoca:
Nonostante non ami particolarmente le storie di superuomini, Goliath fila che è una meraviglia, si legge d'un fiato, è appassionante e divertente.
Alcune osservazioni: Goliath è consigliabile a chi in un romanzo di sf cerca soprattutto l'azione, ambientazioni esotiche, rapidi cambi di scena, ninja assassini cattivissimi, scienziati e miliardari (più o meno) pazzi, scenari apocalittici, violenza e redenzione... insomma tutto l'armamentario del buon vecchio pulp di razza. Se l'autore invece di chiamarsi Alberto Cola si chiamasse Albert Cole (o qualcosa di simile) immagino avrebbe tutt'altro seguito, ma tant'è... A dirla tutta mi sarebbe piaciuta una prospettiva un po' più allargata: lo scenario rimane un po' troppo sullo sfondo per privilegiare personaggi e scorrere, frenetico, degli avvenimenti. Le descrizioni di Cola sono affascinanti (vedi per esempio la Torino di inizio romanzo), ma rimangono troppo isolate nel proseguio della vicenda. Altra cosa che m'è dispiaciuta è il destino dell'unico personaggio italiano di un certo peso nel racconto. Ma sono dettagli, che la storia si legge comunque con piacere.
AA.VV. - Frammenti di una rosa quantica
Di questa antologia che ambisce a presentare il meglio della nuova fantascienza italiana ho già parlato abbondantemente nel blog un anno e mezzo fa (il post è questo).
La qualità media dei racconti presenti non sarà forse all'altezza di una top five che si rispetti. Però tra le pagine di questo volume ci sono almeno 3 o 4 racconti che secondo me sono davvero memorabili, e si collocano abbondantemente sopra la media della produzione sf nostrana.
E poi scusate, le avete viste le illustrazioni che corredano i racconti? (lo so lo so, non dovrei fare 'ste cose, ma quando mi ricapita l'occasione?)
Dario Tonani - Infect@
Giovanni De Matteo - Sezione π²
Al quinto posto di questa classifica metto due titoli ad ex-aequo. Potete trovare qualche nota più approfondita sui due romanzi più indietro nel blog (rispettivamente qui per Infect@ e qui per Sezione π²).
Nessuno dei due volumi è un romanzo perfetto. Però se devo segnalare qualche titolo che mi dia qualche speranza per il futuro della fantascienza nostrana non mi vengono in mente esempi migliori.
Sia Dario Tonani che Giovanni De Matteo hanno le qualità per comporre (finalmente!) un romanzo italiano di fantascienza degno di posizionarsi tra i vertici del genere. Speriamo che nonostante la situazione editoriale nostrana sia davvero tragica i nostri non si perdano d'animo e insistano a battere la pista per le stelle. Io faccio il tifo per voi.
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Se frequentate questo blog dovreste esservi fatti un'idea dei miei gusti, ogni suggerimento di lettura è quindi benvenuto.
(Una nota particolare riguardo l'assenza di Stefano Benni da questa lista. Quando l'autore bolognese scriveva ancora romanzi originali almeno due/tre titoli tra questi avrebbero dovuto comparire di default in classifica. Ho deciso di escluderli perché, primo, il blog è mio e lo gestisco io, e secondo, chi tra voi la fuori non conosce Benni?)
Ecco quindi la mia personalissima top five dedicata alla fantascienza italiana:
Enrica Zunic' - Nessuna giustificazione
A questa raccolta di racconti sono particolarmente affezionato. A parte il valore delle storie di Enrica Zunic', se sono legato a questo volume è anche perché Nessuna giustificazione è stato il mio primo incontro davvero entusiasmante con la fantascienza italiana.
Questo è quello che scrivevo a fine lettura:
I racconti che compongono questa antologia fanno male, raccontano la tortura e il dolore, la sofferenza e la difficile consolazione, ma sono anche immensamente compassionevoli e cosa ancor più difficile visto il contesto, riescono a lasciare accesa la scintilla della speranza. Per raggiungere questo straordinario risultato Enrica Zunic' non ricorre ad alcun artificio retorico, a scene melodrammatiche, non evoca qualche ridondante pietismo, non va mai sopra le righe. Se colpisce e se fa male è proprio per lo stile asciutto e levigato, talmente terso da far emerge la verità nuda e cruda di quello che racconta: la verità crudele, atroce e terribilmente reale del dolore inflitto da umani ad altri umani. Come dice Enrica Zunic': "Immagina che un amico ti dica 'Questa notte è morto mio padre'. T'accorgeresti di colpo di quante poche parole tu abbia da dirgli e quante poche parole lui dirà. E di quanto poche saranno anche le parole con cui tenterai di raccontare il suo dolore ad altri. E se tentassi forse annaspando di fare discorsi lunghi accumuleresti frasi senza aggiungere nulla che valga o serva di più. Ciò che vorrai fare e farai se potrai sarà abbracciarlo forte in silenzio e poi trasmettere come sai e puoi agli altri il dolore che hai per lui." Ecco, i racconti di Nessuna giustificazione sono dei forti abbracci, non eliminano il dolore, ma almeno ne accolgono una parte e forse forse lo rendono più sopportabile.
Ma i racconti presentati nell'antologia sono soprattutto delle superbe storie di fantascienza. Nonostante l'intento dichiaratamente morale non sono mai didascalici anzi, colpiscono proprio per la forza delle vicende narrate, in cui il contesto fantascientifico non è una semplice patina futuribile ma assolve a precise necessità narrative. Al momento sono tra i migliori racconti di fantascienza italiana che abbia mai letto.
Delle sei storie che compongono il volume quelle che più mi sono rimaste impressi sono Il dolore del marmo, Cronaca Manichea, La memoria di Eren. Appena un gradino sotto Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo. Gli altri non sono certo inferiori stilisticamente o per altro (anzi, per certi versi sono anche meglio) però non mi hanno colpito altrettanto... più avanti provo a spiegarmi.
Il dolore del marmo, il primo racconto della raccolta, è stato come una mazzata data con una clava imbottita d'ovatta. Non fa male subito: man mano che capisci cosa sta succedendo (e cosa è già successo) ti si rizzano i capelli in testa. Poi, per fortuna, c'è un minimo di consolazione, ma il danno è fatto. Col senno di poi non poteva esserci un racconto migliore per aprire il volume. Il progressivo rovesciarsi della prospettiva, la presa di coscienza del narratore, le condizioni sempre più insostenibili di Kalis, la speranza nell'ultima frase... beh c'è già tutto quello che Enrica scriverà più avanti. Magari non sarà il racconto stilisticamente migliore, ma certo come apripista è davvero un buon lavoro.
Cronaca Manichea è quello che mi ha dato più da pensare. Forse la sua forza sta proprio nelle sue imperfezioni (o almeno tali mi sono parse): costringono il lettore (o per meglio dire: mi hanno indotto) a riflettere sul senso di quanto andavo leggendo, sulle implicazioni, sul riverbero che ha sul mondo il comportamento di pochi, sulla colpa e la punizione, su quale sia la risposta migliore e la peggiore a certi comportamenti, su quali siano i prezzi da pagare, etc etc. Oltre al disagio per il tanto, troppo odio che sprizza fuori dalla pagina c'è il conforto della figura di Nithael. In definitiva come fonte di emozioni, stimoli, e pensieri mi è sembrato perfetto.
La memoria di Eren mi ha sorpreso. Non mi aspettavo una sterzata così poco fantascientifica. Mi hanno colpito il punto di vista familiare, la sensibilità nell'affrontare dal punto di vista di una bambina la detenzione e tutto quello che comporta in termini di dolore, assenza e conseguenze. L'esito fantastico della vicenda seppur incredibile m'è parso doveroso (quasi un risarcimento) senza togliere un grammo al peso della vicenda.
Ain: del nome dei numeri e della riparazione del cielo (a proposito: eccezionale questo titolo!) mi è indimenticabile per Ain, non credo serva dire altro. Ma oltre ad Ain anche per i tanti personaggi che appaiono nel racconto, che rimangono tutti immediatamente impressi, che con pochi cenni già si capisce che persone siano. Non dev'essere stato facile.
Gli altri racconti sono dei gran bei racconti, sono perfetti, non so perché mi abbiano colpito di meno, ma tant'è. Una nota particolare per La discesa interrotta dal rosa e dal blu: avevo tanto sentito parlare di questo racconto che le mie aspettative erano davvero elevate. E non sono rimasto deluso. Forse il motivo per cui non è tra quelli che più mi hanno emozionato è che in definitiva la discesa è la cronaca di una vittoria. Ain e soci hanno vinto una battaglia contro gli infami carcerieri, e questo è molto bello, il senso di esaltazione quando si scoprono le carte è davvero grandioso. Ma purtroppo l'euforia per la vittoria è un'emozione veloce, non rimane dentro come la compassione (non pietà, spero sia chiaro che per me sono due cose ben diverse) per le vittime che esprimono le altre storie, e soprattutto questo racconto m'è parso il più incredibile tra tutti quelli che compongono Nessuna Giustificazione, quello da cui è più facile nascano beate illusioni sulle possibilità di salvezza per le vittime, ovunque siano rinchiuse...
Giampaolo Proni - La dea digitale
Nonostante La dea digitale sia un romanzo indubbiamente fantascientifico, non è stato pubblicato in una collana di genere ma, cosa piuttosto insolita, da Fazi Editore (quello di Eureka Street, tanto per citare un titolo piuttosto noto) che non mi pare abbia altri titoli di genere in catalogo.
La dea digitale è un incrocio tra cyberpunk e hard sf abbastanza originale da meritare una lettura. Nel romanzo di Giampaolo Proni c'è una storia appassionante, idee in abbondanza e pure l'aspetto scientifico non è da sottovalutare. Quello che manca è forse una maggiore profondità e consapevolezza nei personaggi e, soprattutto, nei dialoghi. In ogni caso questo romanzo è decisamente superiore alla produzione media fantascientifica che ci viene proposta dalle case editrici specializzate.
Peccato sia passato per le librerie praticamente ignorato, sia dal pubblico generalista, sia da quello più attento alla produzione di genere.
Alberto Cola - Goliath
Il romanzo di Alberto Cola era, al momento in cui lo lessi, il primo esempio di valida fantascienza italiana leggera in cui mi imbattevo.
Per fantascienza leggera intendo quel tipo di romanzi che non ambiscono a svelare la Verità sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto, ma che si accontentano, molto più discretamente, di intrattenere il lettore divertendolo e appassionandolo fino all'ultima pagina.
In questo senso Goliath è stata una gran bella sorpresa.
Ecco quello che scrivevo all'epoca:
Nonostante non ami particolarmente le storie di superuomini, Goliath fila che è una meraviglia, si legge d'un fiato, è appassionante e divertente.
Alcune osservazioni: Goliath è consigliabile a chi in un romanzo di sf cerca soprattutto l'azione, ambientazioni esotiche, rapidi cambi di scena, ninja assassini cattivissimi, scienziati e miliardari (più o meno) pazzi, scenari apocalittici, violenza e redenzione... insomma tutto l'armamentario del buon vecchio pulp di razza. Se l'autore invece di chiamarsi Alberto Cola si chiamasse Albert Cole (o qualcosa di simile) immagino avrebbe tutt'altro seguito, ma tant'è... A dirla tutta mi sarebbe piaciuta una prospettiva un po' più allargata: lo scenario rimane un po' troppo sullo sfondo per privilegiare personaggi e scorrere, frenetico, degli avvenimenti. Le descrizioni di Cola sono affascinanti (vedi per esempio la Torino di inizio romanzo), ma rimangono troppo isolate nel proseguio della vicenda. Altra cosa che m'è dispiaciuta è il destino dell'unico personaggio italiano di un certo peso nel racconto. Ma sono dettagli, che la storia si legge comunque con piacere.
AA.VV. - Frammenti di una rosa quantica
Di questa antologia che ambisce a presentare il meglio della nuova fantascienza italiana ho già parlato abbondantemente nel blog un anno e mezzo fa (il post è questo).
La qualità media dei racconti presenti non sarà forse all'altezza di una top five che si rispetti. Però tra le pagine di questo volume ci sono almeno 3 o 4 racconti che secondo me sono davvero memorabili, e si collocano abbondantemente sopra la media della produzione sf nostrana.
E poi scusate, le avete viste le illustrazioni che corredano i racconti? (lo so lo so, non dovrei fare 'ste cose, ma quando mi ricapita l'occasione?)
Dario Tonani - Infect@
Giovanni De Matteo - Sezione π²
Al quinto posto di questa classifica metto due titoli ad ex-aequo. Potete trovare qualche nota più approfondita sui due romanzi più indietro nel blog (rispettivamente qui per Infect@ e qui per Sezione π²).
Nessuno dei due volumi è un romanzo perfetto. Però se devo segnalare qualche titolo che mi dia qualche speranza per il futuro della fantascienza nostrana non mi vengono in mente esempi migliori.
Sia Dario Tonani che Giovanni De Matteo hanno le qualità per comporre (finalmente!) un romanzo italiano di fantascienza degno di posizionarsi tra i vertici del genere. Speriamo che nonostante la situazione editoriale nostrana sia davvero tragica i nostri non si perdano d'animo e insistano a battere la pista per le stelle. Io faccio il tifo per voi.
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21 luglio 2009
La luna sopra Marzaglia
L'avvenimento è stato celebrato in tutte le salse, raccontato in ogni dettaglio, analizzato in ogni sfumatura. Gli eroici astronauti hanno avuto il giusto riconoscimento, come tutto lo staff tecnico che ha messo in piedi quest'impresa straordinaria. Tutto è andato come doveva andare insomma, ma a me di questi giorni è rimasto soprattutto il sapore di un enorme rimpianto. Come se il quarantennale dello sbarco sulla luna si fosse trasformato da celebrazione dello spirito umano nell'epitaffio definitivo di un'epoca in cui l'idealismo trovava ancora il modo di coniugarsi pragmaticamente con la realtà, in cui si riusciva a concepire (e realizzare!) l'impossibile. Un periodo in cui la speranza di un futuro migliore era ancora ben presente nell'immaginario di tutti noi.
Ieri siamo sbarcati sulla luna, oggi siamo ancora qua. Decisamente più realisti, forse più cinici, indubbiamente più consapevoli dei nostri limiti. Rassegnati ad alimentare il fuoco della speranza in un luogo piccolo e segreto dentro di noi, che non è più tempo di sogni collettivi.
Consapevoli che non è vero che sperare non costa nulla, ma che l'alternativa è decisamente peggiore.
In attesa di compiere il prossimo grande balzo.
…
Ieri siamo sbarcati sulla luna, oggi siamo ancora qua. Decisamente più realisti, forse più cinici, indubbiamente più consapevoli dei nostri limiti. Rassegnati ad alimentare il fuoco della speranza in un luogo piccolo e segreto dentro di noi, che non è più tempo di sogni collettivi.
Consapevoli che non è vero che sperare non costa nulla, ma che l'alternativa è decisamente peggiore.
In attesa di compiere il prossimo grande balzo.
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15 luglio 2009
La parusia
Sgombriamo il campo dagli equivoci. In questo blog non si pubblicano recensioni (che siano di romanzi, di film o di quel che vi pare). Le recensioni sono roba ben più seria delle note che trovate scorrendo i contenuti di queste pagine. Io mi limito a leggere qualche libro e a riportarne poi un'impressione. Se qualcuno la trova utile, bene, altrimenti va bene lo stesso, che lo scopo principale di questi post è chiarirmi meglio le idee. Questo ovviamente non significa che il contributo degli eventuali visitatori non sia considerato, anzi!
Scrivere mi costringe a pensare, ma è grazie ai i vostri commenti che sono costretto a pensare meglio e di più!
Vedi per esempio Come ladro di notte, esaltato un po' ovunque come il capolavoro introvabile della fantascienza italiana, che è appena uscito in una nuova edizione per Urania Collezione. Erano anni che sentivo parlare di questo romanzo. I pochi (che le edizioni precedenti del romanzo sono praticamente introvabili) ma agguerriti sostenitori dell'opera di Miglieruolo non perdevano occasione di rilanciare il suo nome tra gli autori che bisognava assolutamente ristampare. Io non potevo certo ignorare tante insistite perorazioni, ma ora che l'ho letto ho le idee parecchio confuse.
Da dove partiamo? Da una genericissima disanima della fantascienza italiana secondo me? Va bene, so che mi vado a infilare in un altro ginepraio, ma almeno proviamoci.
Mi sono ripromesso di stare sul generico, quindi diciamolo subito: in generale la fantascienza italiana non mi piace.
Se la mia avversione verso la produzione sf nostrana si è trasformata a tutti gli effetti in un pregiudizio, lo si deve probabilmente a quelli che ho riscontrato essere i suoi tratti caratteristici: la mancanza pressoché assoluta del senso del meraviglioso, l'incapacità di uscire dalla dipendenza da modelli preesistenti, il disperato quanto futile bisogno dell'autore di sovrastare la storia con la propria voce, la propria arte (pfui!), l'assenza di grinta e coraggio e leggerezza, il grigiore generale di cui sono permeati racconti e romanzi.
Questi difetti sono tanto più evidenti quanto più si risale il corso del tempo, tanto che quando qualche anno fa m'è capitato di leggere il primo volume di fantascienza italiana che non mi ha deluso (per i curiosi si trattava di Nessuna giustificazione di Enrica Zunic) credevo sinceramente fosse finalmente arrivato il tempo della maturità anche per la nostra fantascienza. Poi è saltato fuori che mi sbagliavo, che se in effetti da quel momento in poi qualcosa di buono ogni tanto l'ho trovato, si tratta ancora di primi passi, altro che maturità.
Questa però è un'altra storia.
Torniamo dunque a Mauro Antonio Miglieruolo e al suo romanzo.
Non faccio nessuna fatica ad immaginare le reazioni entusiaste di Aldani prima, e di Curtoni e Montanari poi, alla lettura del manoscritto di Miglieruolo. Siamo intorno al 1970 e per lo standard dell'epoca (si legga ad esempio l'antologia Universo e dintorni che offre un panorama della produzione italiana degli anni '70) Come ladro di notte si colloca davvero in un'altra dimensione.
Io però il romanzo l'ho letto solo ora, e mi chiedo se a quarant'anni di distanza quell'entusiasmo sia ancora giustificato.
Partiamo con le note positive.
Più ancora della storia quello che mi ha colpito nella space opera di Miglieruolo è la struttura del romanzo, che se ne frega della linearità della narrazione e si sviluppa per addizione di quadri ed episodi, lasciando al lettore il compito di orientarsi tra personaggi, ambienti, sequenze temporali e avvenimenti. Una struttura simile, per quanto tutt'altro che perfetta, soprattutto per la sovrabbondanza di dettagli narrativi che non vengono approfonditi, è qualcosa di profondamente diverso da quanto offriva la fantascienza dell'epoca. A questa struttura si aggancia l'ambizioso intento dell'autore di voler raccontare una storia profondamente (definitivamente?) politica. Anche se questo aspetto del romanzo mi ha lasciato piuttosto freddo (se non francamente irritato, vedi per esempio la sovrapponibilità perfetta tra teoria e pratica dell'ideologia - e fanculo a tutte le persone prese in mezzo - e la frattura evidente tra questo approccio e la vita vera) non è in realtà un vero difetto, che molto dipende dall'approccio politico del lettore. Bisogna inoltre tener presente che questo è un romanzo figlio degli anni '60 e qualcosa bisognerà pur concedergli.
Sullo sfondo di Come ladro di notte, a sostenere attivamente la vicenda, c'è un universo che per le dimensioni esagerate e i valori numerari che entrano in gioco non ha uguali nella storia della fantascienza italiana: miliardi di astronavi (elencate per classi, ordini, armamenti, equipaggi e dislocazioni che nemmeno un Carlo Emilio Gadda in pieno trip spaziale), sistemi stellari a gogò, pianeti artificiali per tutti i gusti e dimensioni, elenchi su elenchi di materiali, tutto spianato davanti agli occhi del lettore allo scopo di travolgerlo con la potenza di fuoco della semplice aritmetica. Un gigantismo sfrenato che se da un lato fa sorridere, dall'altro rende bene l'idea dell'enorme macchina burocratica messa al servizio della distruzione dell'uomo (sì, avete letto bene, nel romanzo non si perde tempo in futili problemi esistenziali - non solo almeno - ma si racconta degli ispirati preparativi per terminare la vita umana nell'universo. Mica quisquilie.).
L'impianto narrativo di Come ladro di notte non farà urlare al capolavoro, ma è decisamente più interessante di quanto capita solitamente di leggere negli stretti ambiti della fantascienza nostrana. I problemi del romanzo sono altri, e iniziano sin dalla prima riga. L'italiano che Miglieruolo utilizza per raccontare la sua storia è quanto di meno leggibile mi sia mai capitato di incontrare. Io non sono un esperto di sintassi, la grammatica non è certo il mio forte, ma ho la presunzione di saper distinguere un italiano volutamente complesso, con frasi articolate e composizioni ardite (prima citavo Gadda mica così tanto per dire) da un italiano che ambisce a certe altezze e che si deve invece accontentare di essere una copia maldestra di tale complessità. La lingua utilizzata dall'autore m'è parsa esageratamente barocca e leziosa, talmente finta, teatrale e altisonante che arrivare a fine romanzo è stata davvero una fatica. La cosa che mi ha più sorpreso è che nessuno sembra averci fato caso: nè nella postfazione di Lippi, né nelle parole di presentazione di Curtoni & Montanari si fa più di un vago cenno alla scrittura di MIglieruolo. Nemmeno nei pochi commenti letti in rete la questione del linguaggio viene mai menzionata. Eppure a me è sembrata davvero una cosa evidente! Mah… forse sono davvero io che non capisco, ma non credo che certe scelte stilistiche siano casuali. Se Miglieruolo ha scelto un certo regitro avrà avuto i suoi motivi. Mi piacerebbe solo conoscerli! Che se non fosse per questa incomprensione, il romanzo non sarebbe stato niente male.
Se qualcuno volesse illuminarmi, prego, si accomodi.
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Scrivere mi costringe a pensare, ma è grazie ai i vostri commenti che sono costretto a pensare meglio e di più!
Vedi per esempio Come ladro di notte, esaltato un po' ovunque come il capolavoro introvabile della fantascienza italiana, che è appena uscito in una nuova edizione per Urania Collezione. Erano anni che sentivo parlare di questo romanzo. I pochi (che le edizioni precedenti del romanzo sono praticamente introvabili) ma agguerriti sostenitori dell'opera di Miglieruolo non perdevano occasione di rilanciare il suo nome tra gli autori che bisognava assolutamente ristampare. Io non potevo certo ignorare tante insistite perorazioni, ma ora che l'ho letto ho le idee parecchio confuse.
Da dove partiamo? Da una genericissima disanima della fantascienza italiana secondo me? Va bene, so che mi vado a infilare in un altro ginepraio, ma almeno proviamoci.
Mi sono ripromesso di stare sul generico, quindi diciamolo subito: in generale la fantascienza italiana non mi piace.
Se la mia avversione verso la produzione sf nostrana si è trasformata a tutti gli effetti in un pregiudizio, lo si deve probabilmente a quelli che ho riscontrato essere i suoi tratti caratteristici: la mancanza pressoché assoluta del senso del meraviglioso, l'incapacità di uscire dalla dipendenza da modelli preesistenti, il disperato quanto futile bisogno dell'autore di sovrastare la storia con la propria voce, la propria arte (pfui!), l'assenza di grinta e coraggio e leggerezza, il grigiore generale di cui sono permeati racconti e romanzi.
Questi difetti sono tanto più evidenti quanto più si risale il corso del tempo, tanto che quando qualche anno fa m'è capitato di leggere il primo volume di fantascienza italiana che non mi ha deluso (per i curiosi si trattava di Nessuna giustificazione di Enrica Zunic) credevo sinceramente fosse finalmente arrivato il tempo della maturità anche per la nostra fantascienza. Poi è saltato fuori che mi sbagliavo, che se in effetti da quel momento in poi qualcosa di buono ogni tanto l'ho trovato, si tratta ancora di primi passi, altro che maturità.
Questa però è un'altra storia.
Torniamo dunque a Mauro Antonio Miglieruolo e al suo romanzo.
Non faccio nessuna fatica ad immaginare le reazioni entusiaste di Aldani prima, e di Curtoni e Montanari poi, alla lettura del manoscritto di Miglieruolo. Siamo intorno al 1970 e per lo standard dell'epoca (si legga ad esempio l'antologia Universo e dintorni che offre un panorama della produzione italiana degli anni '70) Come ladro di notte si colloca davvero in un'altra dimensione.
Io però il romanzo l'ho letto solo ora, e mi chiedo se a quarant'anni di distanza quell'entusiasmo sia ancora giustificato.
Partiamo con le note positive.
Più ancora della storia quello che mi ha colpito nella space opera di Miglieruolo è la struttura del romanzo, che se ne frega della linearità della narrazione e si sviluppa per addizione di quadri ed episodi, lasciando al lettore il compito di orientarsi tra personaggi, ambienti, sequenze temporali e avvenimenti. Una struttura simile, per quanto tutt'altro che perfetta, soprattutto per la sovrabbondanza di dettagli narrativi che non vengono approfonditi, è qualcosa di profondamente diverso da quanto offriva la fantascienza dell'epoca. A questa struttura si aggancia l'ambizioso intento dell'autore di voler raccontare una storia profondamente (definitivamente?) politica. Anche se questo aspetto del romanzo mi ha lasciato piuttosto freddo (se non francamente irritato, vedi per esempio la sovrapponibilità perfetta tra teoria e pratica dell'ideologia - e fanculo a tutte le persone prese in mezzo - e la frattura evidente tra questo approccio e la vita vera) non è in realtà un vero difetto, che molto dipende dall'approccio politico del lettore. Bisogna inoltre tener presente che questo è un romanzo figlio degli anni '60 e qualcosa bisognerà pur concedergli.
Sullo sfondo di Come ladro di notte, a sostenere attivamente la vicenda, c'è un universo che per le dimensioni esagerate e i valori numerari che entrano in gioco non ha uguali nella storia della fantascienza italiana: miliardi di astronavi (elencate per classi, ordini, armamenti, equipaggi e dislocazioni che nemmeno un Carlo Emilio Gadda in pieno trip spaziale), sistemi stellari a gogò, pianeti artificiali per tutti i gusti e dimensioni, elenchi su elenchi di materiali, tutto spianato davanti agli occhi del lettore allo scopo di travolgerlo con la potenza di fuoco della semplice aritmetica. Un gigantismo sfrenato che se da un lato fa sorridere, dall'altro rende bene l'idea dell'enorme macchina burocratica messa al servizio della distruzione dell'uomo (sì, avete letto bene, nel romanzo non si perde tempo in futili problemi esistenziali - non solo almeno - ma si racconta degli ispirati preparativi per terminare la vita umana nell'universo. Mica quisquilie.).
L'impianto narrativo di Come ladro di notte non farà urlare al capolavoro, ma è decisamente più interessante di quanto capita solitamente di leggere negli stretti ambiti della fantascienza nostrana. I problemi del romanzo sono altri, e iniziano sin dalla prima riga. L'italiano che Miglieruolo utilizza per raccontare la sua storia è quanto di meno leggibile mi sia mai capitato di incontrare. Io non sono un esperto di sintassi, la grammatica non è certo il mio forte, ma ho la presunzione di saper distinguere un italiano volutamente complesso, con frasi articolate e composizioni ardite (prima citavo Gadda mica così tanto per dire) da un italiano che ambisce a certe altezze e che si deve invece accontentare di essere una copia maldestra di tale complessità. La lingua utilizzata dall'autore m'è parsa esageratamente barocca e leziosa, talmente finta, teatrale e altisonante che arrivare a fine romanzo è stata davvero una fatica. La cosa che mi ha più sorpreso è che nessuno sembra averci fato caso: nè nella postfazione di Lippi, né nelle parole di presentazione di Curtoni & Montanari si fa più di un vago cenno alla scrittura di MIglieruolo. Nemmeno nei pochi commenti letti in rete la questione del linguaggio viene mai menzionata. Eppure a me è sembrata davvero una cosa evidente! Mah… forse sono davvero io che non capisco, ma non credo che certe scelte stilistiche siano casuali. Se Miglieruolo ha scelto un certo regitro avrà avuto i suoi motivi. Mi piacerebbe solo conoscerli! Che se non fosse per questa incomprensione, il romanzo non sarebbe stato niente male.
Se qualcuno volesse illuminarmi, prego, si accomodi.
…
09 luglio 2009
Paolo Nori e la fantascienza
Qualche giorno fa Paolo Nori ha tenuto a Modena un discorso pubblico sulla fantascienza.
L'evento era abbastanza curioso da attirare la mia attenzione, dato che i due soggetti (Nori e la letteratura di genere) non hanno praticamente nulla in comune.
Ma forse è preferibile fare un passo indietro per inquadrare meglio la situazione.
Paolo Nori è un curioso scrittore emiliano che nel giro di una decina d'anni ha pubblicato una valanga di volumi (io ne ho letto solo uno, ne parlo qui). Paolo Nori ha un fedele e appassionato seguito di lettori, grazie anche alla fama di intrattenitore di cui gode (non saprei come altro definire la sua attitudine alla lettura pubblica di testi vari). Paolo Nori è un bel tipo, la fantascienza mi interessa, val quindi la pena di andare fino a Modena ad ascoltarlo.
La serata parte bene, c'è un sacco di gente (oh… saranno 100/150 persone, decisamente tante per uno scrittore, no?) che nell'attesa del discorso di Nori si ritrova ad ascoltare il chitarrista (sorry, non ricordo il suo nome…) che accompagna live la voce registrata di Emidio Clementi che legge un racconto di Carlo Fruttero (che insieme a Lucentini sarà il vero protagonista della serata, ma non precorriamo i tempi).
Il racconto è L'affare Herzog , che solo molto più tardi mi sarei reso conto di aver già letto, qualche anno fa, evidentemente senza rimanerne particolarmente colpito. Sentirselo però raccontare mi ha fatto uno strano effetto. Non so se sia dipeso dalla capacità evocativa della voce di Clementi (onore al merito, nonostante i Massimo volume non li regga proprio, Clementi m'è proprio piaciuto), dall'atmosfera surreale della situazione (pensateci: un centinaio di persone in religioso silenzio radunate in un ex ospedale nel bel mezzo di una mostra d'installazioni artistiche - non ve l'avevo ancora detto? vabbé, è un dettaglio - ad ascoltare tutti insieme la voce registrata di un uomo che legge un racconto di fantascienza mentre una chitarra elettrica con delle pretese accompagna dal vivo il tutto, what a performance!) o se le qualità del racconto sono finalmente emerse alla mia attenzione (raramente capita di imbattersi in una storia capace di ribaltare tante volte la prospettiva e le aspettative del lettore), ma, chitarrista escluso - se avesse abbassato un po' il volume non sarebbe stato male - la lettura del racconto è stata decisamente un'esperienza positiva.
Arriviamo a Nori, al mistero della sua partecipazione a un simile evento. (Che poi quale mistero: secondo me Nori è quel che si dice una simpatica canaglia, buono a inventarsi qualsiasi scusa per non lavorare. Neanche da dire che solo per questo merita il massimo rispetto, eh!)
Nori parte bene, mettendo le mani avanti e dicendo che lui di fantascienza non ci capisce un tubo, ma ha preso l'impegno di tenere 'sto discorso e quindi s'è preparato. E qui forse arriva la parte più interessante per gli appassionati di sf in ascolto.
Cosa ha scelto Nori per prepararsi un minimo sulla sf? Ha scelto di leggersi i capitoli dedicati alla fantascienza ne I ferri del mestiere della premiata ditta Fruttero & Lucentini.
(Qui potrebbero partire - e sono partiti, vedi sotto - tutta una serie di corto circuiti con i discorsi fatti negli ultimi giorni in calce a questo post. Del resto mica mi metterei a parlare solo oggi di Nori e sf se non arrivassi da una estenuante discussione sui rapporti tra fantascienza & mainstream, no?)
Una volta fatta la scelta del testo di riferimento l'apporto personale di Paolo Nori alla serata è (quasi) secondario: ci mette la simpatia e lo spirito, ci mette la cornice narrativa del discorso pubblico, ci mette la sua capacità affabulatoria, ma le parole importanti pronunciate nel corso della serata sono tutte di Fruttero & Lucentini.
Il primo corto circuito, davvero sconvolgente, avviene al momento della declamazione di una frase del tutto secondaria nel contesto della lettura, ma dall'effetto davvero dirompente a sentirla oggi a 30 anni di distanza - il saggio da cui è tratta è del 1978. La domanda è posta dall'esterno a F&L, esperti dell'argomento: "perché la fantascienza ha tanto successo?" (minuto 3:04 della registrazione del discorso linkata sopra). Possibile che in trent'anni abbiamo perso tutto 'sto terreno?
Io non ho (ancora?) letto I ferri del mestiere, ma se gli scorci intravisti nel discorso di Nori sono significativi allora bisognerà riconsiderare l'antipatia che ho sempre nutrito verso il dinamico duo. Sì, certo, l'idea che si tratti di due snob, di due dotti signori cui ogni tanto piaceva sporcarsi le mani con gli scritti del volgo non mi lascerà mai, però m'è sembrato di scorgere una sincera simpatia, di più, un rispetto, per il genere "fantascienza" che nei salotti delle belle lettere è tuttora merce rarissima.
Se l'eccezionalità del loro atteggiamento è il secondo dei corti circuiti in cui m'imbatto, un altro è quello sull'idea del pubblico dei lettori di fantascienza - di Urania, ma non solo - che emerge dalle parole di F&L mediate da Nori: un pubblico esigente ma estremamente rigido e conservatore, lettori ipercritici e appassionati, ma lettori verso cui ci si sente responsabili e su cui esercitare un placido paternalismo per tutelarne l'indubbia per quanto particolare ingenuità letteraria (questo in realtà non è stato detto, ma oh… la sensazione che fosse il fondamento della proposta editoriale uranica ai tempi è risuonata piuttosto forte tra le righe).
Mentre io son li perso tra i miei pensieri Nori procede nella sua personale esplorazione del genere fantascienza, con divagazioni, salti e reiterazioni di passaggi retorici che mi hanno fatto capire il perché lo scrittore abbia un tal seguito di pubblico, fino a terminare in bellezza il suo discorso con un finale virato al surreale che riesce a essere al contempo divertente, apologetico e pure un po' fantascientifico.
Nel complesso una degna conclusione per un piacevole discorso pubblico. Ma alla fine un dubbio m'è comunque rimasto: possibile che per il mondo esterno siano ancora Fruttero & Lucentini i referenti seri per un discorso sulla fantascienza in Italia? E poi mi venite a dire che non è Urania, magari nella sua incarnazione classica e ormai superata, il riferimento ideale per chi si immagina - da fuori, sempre da fuori - cosa sia mai la fantascienza?
Per non farla troppo lunga (ascoltatevi il discorso che comunque è divertente), la serata m'è piaciuta: Nori non s'è spacciato per quello che non è, e ha dimostrato un gran bel disinteresse per la fantascienza. Sì sì, ho scritto disinteresse, che Paolo Nori ha fatto una cosa che non capita tutti i giorni: ha trattato la fantascienza come un argomento qualsiasi, ne ha parlato in modo normalmente divertente, ha dimostrato che anche chi non frequenta il genere vi si può avvicinare senza boria o ocondiscendenza, e già questo per me è un piccolo successo. Certo, Paolo Nori non è la maggioranza del pubblico mainstream, ma di questi tempi noi qui ai margini del ghetto ci accontentiamo di poco.
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L'evento era abbastanza curioso da attirare la mia attenzione, dato che i due soggetti (Nori e la letteratura di genere) non hanno praticamente nulla in comune.
Ma forse è preferibile fare un passo indietro per inquadrare meglio la situazione.
Paolo Nori è un curioso scrittore emiliano che nel giro di una decina d'anni ha pubblicato una valanga di volumi (io ne ho letto solo uno, ne parlo qui). Paolo Nori ha un fedele e appassionato seguito di lettori, grazie anche alla fama di intrattenitore di cui gode (non saprei come altro definire la sua attitudine alla lettura pubblica di testi vari). Paolo Nori è un bel tipo, la fantascienza mi interessa, val quindi la pena di andare fino a Modena ad ascoltarlo.
La serata parte bene, c'è un sacco di gente (oh… saranno 100/150 persone, decisamente tante per uno scrittore, no?) che nell'attesa del discorso di Nori si ritrova ad ascoltare il chitarrista (sorry, non ricordo il suo nome…) che accompagna live la voce registrata di Emidio Clementi che legge un racconto di Carlo Fruttero (che insieme a Lucentini sarà il vero protagonista della serata, ma non precorriamo i tempi).
Il racconto è L'affare Herzog , che solo molto più tardi mi sarei reso conto di aver già letto, qualche anno fa, evidentemente senza rimanerne particolarmente colpito. Sentirselo però raccontare mi ha fatto uno strano effetto. Non so se sia dipeso dalla capacità evocativa della voce di Clementi (onore al merito, nonostante i Massimo volume non li regga proprio, Clementi m'è proprio piaciuto), dall'atmosfera surreale della situazione (pensateci: un centinaio di persone in religioso silenzio radunate in un ex ospedale nel bel mezzo di una mostra d'installazioni artistiche - non ve l'avevo ancora detto? vabbé, è un dettaglio - ad ascoltare tutti insieme la voce registrata di un uomo che legge un racconto di fantascienza mentre una chitarra elettrica con delle pretese accompagna dal vivo il tutto, what a performance!) o se le qualità del racconto sono finalmente emerse alla mia attenzione (raramente capita di imbattersi in una storia capace di ribaltare tante volte la prospettiva e le aspettative del lettore), ma, chitarrista escluso - se avesse abbassato un po' il volume non sarebbe stato male - la lettura del racconto è stata decisamente un'esperienza positiva.
Arriviamo a Nori, al mistero della sua partecipazione a un simile evento. (Che poi quale mistero: secondo me Nori è quel che si dice una simpatica canaglia, buono a inventarsi qualsiasi scusa per non lavorare. Neanche da dire che solo per questo merita il massimo rispetto, eh!)
Nori parte bene, mettendo le mani avanti e dicendo che lui di fantascienza non ci capisce un tubo, ma ha preso l'impegno di tenere 'sto discorso e quindi s'è preparato. E qui forse arriva la parte più interessante per gli appassionati di sf in ascolto.
Cosa ha scelto Nori per prepararsi un minimo sulla sf? Ha scelto di leggersi i capitoli dedicati alla fantascienza ne I ferri del mestiere della premiata ditta Fruttero & Lucentini.
(Qui potrebbero partire - e sono partiti, vedi sotto - tutta una serie di corto circuiti con i discorsi fatti negli ultimi giorni in calce a questo post. Del resto mica mi metterei a parlare solo oggi di Nori e sf se non arrivassi da una estenuante discussione sui rapporti tra fantascienza & mainstream, no?)
Una volta fatta la scelta del testo di riferimento l'apporto personale di Paolo Nori alla serata è (quasi) secondario: ci mette la simpatia e lo spirito, ci mette la cornice narrativa del discorso pubblico, ci mette la sua capacità affabulatoria, ma le parole importanti pronunciate nel corso della serata sono tutte di Fruttero & Lucentini.
Il primo corto circuito, davvero sconvolgente, avviene al momento della declamazione di una frase del tutto secondaria nel contesto della lettura, ma dall'effetto davvero dirompente a sentirla oggi a 30 anni di distanza - il saggio da cui è tratta è del 1978. La domanda è posta dall'esterno a F&L, esperti dell'argomento: "perché la fantascienza ha tanto successo?" (minuto 3:04 della registrazione del discorso linkata sopra). Possibile che in trent'anni abbiamo perso tutto 'sto terreno?
Io non ho (ancora?) letto I ferri del mestiere, ma se gli scorci intravisti nel discorso di Nori sono significativi allora bisognerà riconsiderare l'antipatia che ho sempre nutrito verso il dinamico duo. Sì, certo, l'idea che si tratti di due snob, di due dotti signori cui ogni tanto piaceva sporcarsi le mani con gli scritti del volgo non mi lascerà mai, però m'è sembrato di scorgere una sincera simpatia, di più, un rispetto, per il genere "fantascienza" che nei salotti delle belle lettere è tuttora merce rarissima.
Se l'eccezionalità del loro atteggiamento è il secondo dei corti circuiti in cui m'imbatto, un altro è quello sull'idea del pubblico dei lettori di fantascienza - di Urania, ma non solo - che emerge dalle parole di F&L mediate da Nori: un pubblico esigente ma estremamente rigido e conservatore, lettori ipercritici e appassionati, ma lettori verso cui ci si sente responsabili e su cui esercitare un placido paternalismo per tutelarne l'indubbia per quanto particolare ingenuità letteraria (questo in realtà non è stato detto, ma oh… la sensazione che fosse il fondamento della proposta editoriale uranica ai tempi è risuonata piuttosto forte tra le righe).
Mentre io son li perso tra i miei pensieri Nori procede nella sua personale esplorazione del genere fantascienza, con divagazioni, salti e reiterazioni di passaggi retorici che mi hanno fatto capire il perché lo scrittore abbia un tal seguito di pubblico, fino a terminare in bellezza il suo discorso con un finale virato al surreale che riesce a essere al contempo divertente, apologetico e pure un po' fantascientifico.
Nel complesso una degna conclusione per un piacevole discorso pubblico. Ma alla fine un dubbio m'è comunque rimasto: possibile che per il mondo esterno siano ancora Fruttero & Lucentini i referenti seri per un discorso sulla fantascienza in Italia? E poi mi venite a dire che non è Urania, magari nella sua incarnazione classica e ormai superata, il riferimento ideale per chi si immagina - da fuori, sempre da fuori - cosa sia mai la fantascienza?
Per non farla troppo lunga (ascoltatevi il discorso che comunque è divertente), la serata m'è piaciuta: Nori non s'è spacciato per quello che non è, e ha dimostrato un gran bel disinteresse per la fantascienza. Sì sì, ho scritto disinteresse, che Paolo Nori ha fatto una cosa che non capita tutti i giorni: ha trattato la fantascienza come un argomento qualsiasi, ne ha parlato in modo normalmente divertente, ha dimostrato che anche chi non frequenta il genere vi si può avvicinare senza boria o ocondiscendenza, e già questo per me è un piccolo successo. Certo, Paolo Nori non è la maggioranza del pubblico mainstream, ma di questi tempi noi qui ai margini del ghetto ci accontentiamo di poco.
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07 luglio 2009
Letture giugno 2009 - seconda parte
Haruki Murakami - L'elefante scomparso e altri racconti
È passato qualche anno da quando, dopo aver letto L'uccello che girava le viti del mondo, mi chiedevo quali fossero i motivi per cui Murakami Haruki mi piace così tanto. Dopo quello splendido romanzo molte altre pagine son passate sotto i miei occhi, ma Murakami è rimasto lì, in una sorta di limbo, dove gli scrittori amati rimangono in attesa di tempi migliori.
Nel frattempo Einaudi ha continuato a proporre al pubblico italiano le opere dello scrittore giapponese, che fossero nuovi romanzi o nuove edizioni di vecchi libri già editi in precedenza (e chissà che prima o poi non riproponga l'ormai mitologico Sotto il segno della pecora). Tra i volumi riproposti è uscito anche L'elefante scomparso, una raccolta della produzione breve di Murakami.
Leggendo questo volume non potevo fare a meno di chiedermi, di nuovo, cosa ci fosse di tanto affascinante nella scrittura di questo autore. Insomma, è ormai parecchio tempo che le storie che raccontano le vicissitudini di giovani annoiati e/o senza destinazione, i racconti pseudo-autobiografici traboccanti birra e vecchie canzoni, le menate esistenziali di impiegati più o meno frustrati hanno smesso di attirarmi. Eppure…
Eppure, nonostante i personaggi di Murakami ricadano spesso nei cliché summenzionati le sue storie hanno una qualità speciale che non solo mi fa digerire tranquillamente le caratteristiche dei protagonisti, ma mi lascia pure sazio ed emozionato come solo raramente contesti simili sono capaci di fare. Cos'è questa qualità speciale? Non saprei davvero come definirla: forse la Murakamità è data dalla strana alchimia che si genera dall'esasperata omologazione dell'ambiente che stride e deraglia sotto le spinte centrifughe dei personaggi che animano i racconti, o forse è prodotta dal sottile sfiorarsi del fantastico (inquietante, onirico e mai consolatorio) con la malinconia del vivere giapponese. Ma più probabilmente lo spirito che anima la scrittura di Murakami è più semplicemente la capacità di offrire al lettore uno sguardo su una diversa normalità. Una normalità che riesce a fondere un individualismo che ha perso finanche l'idea di una ribellione, con la consapevolezza che l'emarginazione che produce più che una condanna, è forse l'unica liberazione.
Arto Paasilinna - L'anno della lepre
L'estremo nord scandinavo mi ha sempre affascinato. Saranno le letture dell'infanzia (ci sarà sempre un posticino nel mio cuore per il piccolo Nils Holgersson, come pure per tutti quei libri di Astrid Lindgren letti tanta tanti anni fa) o forse più semplicemente sono quelle enormi distese di boschi e laghi e montagne, del cui fascino sono succube da sempre. Quale che sia il motivo L'anno della lepre mi ha confermato ancora una volta che io prima o poi in Scandinavia ci devo proprio andare. Le avventure di Vatanen su e giù per la Finlandia sono un ottimo (e divertente!) pretesto per un immersione nella natura gelida e ostile e bellissima del grande nord, per il confronto tra civiltà e barbarie dei villaggi sperduti, ritrovati dal protagonista nel suo vagabondaggio, e la metropoli abbandonata precipitosamente alla prima occasione, per una - forse facile, ma mai inutile - riconsiderazione delle priorità che ci muovono.
Prima di questo fortuito incontro non avevo mai letto nulla di Arto Paasilinna, credo non mancherò di approfondirne la conoscenza.
Stefano Liberti - A sud di Lampedusa
A sud di Lampedusa c'è il rischio di perdersi, non tanto a causa della geografia complessa delle migrazioni, ben raccontata nel volume, quanto piuttosto per il percorso ineguale dei tempi, (che siano gli anni che separano i viaggi dell'autore nelle varie località o gli intervalli, i tempi morti, le accelerazioni, i ritardi e insomma tutte le complicate vicissitudini che la vita del viaggiatore più o meno obbligato porta con se). E poi c'è il rischio più grande, quello di smarrirsi nel gioco di specchi che il confronto con la realtà riportata a casa da Stefano Liberti si trascina inevitabilmente dietro.
Parlare di gioco di specchi per un libro che affronta il tema difficilissimo dell'immigrazione può suonare stonato. Ma lo stesso autore ne è ben consapevole: raccontando storie di cui nessuno parla, calandovisi anima e corpo, si rischia di perdere la distanza necessaria all'obiettività, che per quanto utopistica, dovrebbe comunque rappresentare il faro di riferimento per il giornalista. Quando poi in gioco ci sono differenze così estreme tra chi racconta e chi viene raccontato, il rischio di confondere l'interesse professionale con la motivazione personale, con l'impegno civile, il rischio di diventare addirittura parte (quasi) inconsapevole del motore che macina le vite di tutte queste persone che tentano quotidianamente la via del nord, beh… credo che facendo seriamente un mestiere come quello del reporter i dubbi ricorrenti sulla propria identità e il proprio dovere professionale più che un rischio diventano una certezza, forse addirittura una strategia di sopravvivenza.
Senza questa consapevolezza il racconto che fa l'autore delle persone, e ancor più dei luoghi che costituiscono le tappe delle rotte migratorie verso l'Europa, forse è altrettanto illuminante, ma rende meno l'idea dell'enorme confusione esistente sotto il cielo, che sia d'Africa, d'Asia o d'Europa.
Stefano Liberti è molto bravo a raccontare una realtà tanto aliena, a lasciare che sia il racconto stesso a prender forma di denuncia, con la voce dell'autore ben presente, certo, ma più per avvertire il lettore dei rischi cui accennavo sopra, che per puntare il dito verso il cattivo di turno.
A sud di Lampedusa è una lettura consigliatissima per avere un'idea seppur minima dell'inferno del viaggio migratorio, correndo magari il rischio che la figura del giornalista-narratore, che non esita ad abbandonare le comodità per recarsi novello esploratore nel deserto, tra popoli diversi e diverse civiltà per riportare a casa la gemma preziosa di una conoscenza esotica, risulti alla fine anche più interessante del contenuto vero e proprio del volume.
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È passato qualche anno da quando, dopo aver letto L'uccello che girava le viti del mondo, mi chiedevo quali fossero i motivi per cui Murakami Haruki mi piace così tanto. Dopo quello splendido romanzo molte altre pagine son passate sotto i miei occhi, ma Murakami è rimasto lì, in una sorta di limbo, dove gli scrittori amati rimangono in attesa di tempi migliori.
Nel frattempo Einaudi ha continuato a proporre al pubblico italiano le opere dello scrittore giapponese, che fossero nuovi romanzi o nuove edizioni di vecchi libri già editi in precedenza (e chissà che prima o poi non riproponga l'ormai mitologico Sotto il segno della pecora). Tra i volumi riproposti è uscito anche L'elefante scomparso, una raccolta della produzione breve di Murakami.
Leggendo questo volume non potevo fare a meno di chiedermi, di nuovo, cosa ci fosse di tanto affascinante nella scrittura di questo autore. Insomma, è ormai parecchio tempo che le storie che raccontano le vicissitudini di giovani annoiati e/o senza destinazione, i racconti pseudo-autobiografici traboccanti birra e vecchie canzoni, le menate esistenziali di impiegati più o meno frustrati hanno smesso di attirarmi. Eppure…
Eppure, nonostante i personaggi di Murakami ricadano spesso nei cliché summenzionati le sue storie hanno una qualità speciale che non solo mi fa digerire tranquillamente le caratteristiche dei protagonisti, ma mi lascia pure sazio ed emozionato come solo raramente contesti simili sono capaci di fare. Cos'è questa qualità speciale? Non saprei davvero come definirla: forse la Murakamità è data dalla strana alchimia che si genera dall'esasperata omologazione dell'ambiente che stride e deraglia sotto le spinte centrifughe dei personaggi che animano i racconti, o forse è prodotta dal sottile sfiorarsi del fantastico (inquietante, onirico e mai consolatorio) con la malinconia del vivere giapponese. Ma più probabilmente lo spirito che anima la scrittura di Murakami è più semplicemente la capacità di offrire al lettore uno sguardo su una diversa normalità. Una normalità che riesce a fondere un individualismo che ha perso finanche l'idea di una ribellione, con la consapevolezza che l'emarginazione che produce più che una condanna, è forse l'unica liberazione.
Arto Paasilinna - L'anno della lepre
L'estremo nord scandinavo mi ha sempre affascinato. Saranno le letture dell'infanzia (ci sarà sempre un posticino nel mio cuore per il piccolo Nils Holgersson, come pure per tutti quei libri di Astrid Lindgren letti tanta tanti anni fa) o forse più semplicemente sono quelle enormi distese di boschi e laghi e montagne, del cui fascino sono succube da sempre. Quale che sia il motivo L'anno della lepre mi ha confermato ancora una volta che io prima o poi in Scandinavia ci devo proprio andare. Le avventure di Vatanen su e giù per la Finlandia sono un ottimo (e divertente!) pretesto per un immersione nella natura gelida e ostile e bellissima del grande nord, per il confronto tra civiltà e barbarie dei villaggi sperduti, ritrovati dal protagonista nel suo vagabondaggio, e la metropoli abbandonata precipitosamente alla prima occasione, per una - forse facile, ma mai inutile - riconsiderazione delle priorità che ci muovono.
Prima di questo fortuito incontro non avevo mai letto nulla di Arto Paasilinna, credo non mancherò di approfondirne la conoscenza.
Stefano Liberti - A sud di Lampedusa
A sud di Lampedusa c'è il rischio di perdersi, non tanto a causa della geografia complessa delle migrazioni, ben raccontata nel volume, quanto piuttosto per il percorso ineguale dei tempi, (che siano gli anni che separano i viaggi dell'autore nelle varie località o gli intervalli, i tempi morti, le accelerazioni, i ritardi e insomma tutte le complicate vicissitudini che la vita del viaggiatore più o meno obbligato porta con se). E poi c'è il rischio più grande, quello di smarrirsi nel gioco di specchi che il confronto con la realtà riportata a casa da Stefano Liberti si trascina inevitabilmente dietro.
Parlare di gioco di specchi per un libro che affronta il tema difficilissimo dell'immigrazione può suonare stonato. Ma lo stesso autore ne è ben consapevole: raccontando storie di cui nessuno parla, calandovisi anima e corpo, si rischia di perdere la distanza necessaria all'obiettività, che per quanto utopistica, dovrebbe comunque rappresentare il faro di riferimento per il giornalista. Quando poi in gioco ci sono differenze così estreme tra chi racconta e chi viene raccontato, il rischio di confondere l'interesse professionale con la motivazione personale, con l'impegno civile, il rischio di diventare addirittura parte (quasi) inconsapevole del motore che macina le vite di tutte queste persone che tentano quotidianamente la via del nord, beh… credo che facendo seriamente un mestiere come quello del reporter i dubbi ricorrenti sulla propria identità e il proprio dovere professionale più che un rischio diventano una certezza, forse addirittura una strategia di sopravvivenza.
Senza questa consapevolezza il racconto che fa l'autore delle persone, e ancor più dei luoghi che costituiscono le tappe delle rotte migratorie verso l'Europa, forse è altrettanto illuminante, ma rende meno l'idea dell'enorme confusione esistente sotto il cielo, che sia d'Africa, d'Asia o d'Europa.
Stefano Liberti è molto bravo a raccontare una realtà tanto aliena, a lasciare che sia il racconto stesso a prender forma di denuncia, con la voce dell'autore ben presente, certo, ma più per avvertire il lettore dei rischi cui accennavo sopra, che per puntare il dito verso il cattivo di turno.
A sud di Lampedusa è una lettura consigliatissima per avere un'idea seppur minima dell'inferno del viaggio migratorio, correndo magari il rischio che la figura del giornalista-narratore, che non esita ad abbandonare le comodità per recarsi novello esploratore nel deserto, tra popoli diversi e diverse civiltà per riportare a casa la gemma preziosa di una conoscenza esotica, risulti alla fine anche più interessante del contenuto vero e proprio del volume.
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06 luglio 2009
Ancora su Urania e la fantascienza.
Oggi in teoria avrei dovuto postare la seconda parte dei commenti riguardo le mie letture di giugno, ma nel frattempo mi sono impegolato in una interessante discussione sotto questo post di X.
Si parlava, tanto per cambiare, dei pregi e dei difetti di Urania, argomento su cui ho espresso la mia opinione qualche tempo fa (vedi qui).
danielepase risponde punto per punto alle mie critiche alla rivista Mondadori e si interroga su una questione su cui forse non mi sono dilungato a sufficienza:
Se la presenza di urania non “ingombrava” il mercato e non dequalificava i gusti dei lettori allora, non si capisce perchè dovrebbe farlo ora.
Da lettore di fantascienza il discorso mi interessa, provo quindi a frullare insieme qualche concetto già espresso in precedenza per provare a dare una risposta a questo dilemma (per chi ravvisasse brani già comparsi altrove, beh… questo è quello che passa il convento. Tocca accontentarsi).
La rarefazione delle uscite fantascientifiche in libreria avviene a partire dalla fine degli anni '80. Prima sembra che anche per la sf le librerie italiane fossero il paese di bengodi. Ma cos'è successo negli ultimi vent'anni da rendere la fantascienza merce sempre più rara?
Io credo che sia più o meno da quel periodo in avanti che la fantascienza si sia progressivamente trasformata da genere popolare (con tutto quel che significa in termini di vendite e quantità/qualità della proposta) in genere sempre più esclusivo, sempre più di nicchia. Urania di questa trasformazione pare non essersene proprio accorta (salvo forse per i numeri - di vendite, di uscite, di lettori - che si son fatti via via sempre più esigui).
In effetti Urania è l'ultimo alfiere di una concezione editoriale che vede nel genere fantascienza un prodotto di massa. Perfetto quindi per raggiungere il grande pubblico delle edicole. Non c'è dubbio che la fantascienza abbia le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie erano dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa dover rinunciare a personaggi più veri o ad ambientazioni più credibili). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico, lo stesso senso del meraviglioso in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer). Eppure nonostante i decenni sulle spalle Urania è ancora a tutti gli effetti una rivista pulp.
Non è inevitabile che i suoi lettori siano in costante calo?
Del resto credo che senza le spalle coperte da un editore come Mondadori Urania avrebbe già chiuso da un pezzo. Non conosco le cifre in gioco, ma ho la sensazione che almeno ultimi anni la chiusura in pareggio sia già un buon risultato.
Chi altri potrebbe mantenere in piedi un prodotto simile se non un'editore che possa avvantaggiarsi di indubbie economie di scala? In questa situazione che spazio c'è per chi volesse continuare a proporre fantascienza a prezzi competitivi?
La risposta è sotto gli occhi di tutti. Basta entrare in qualsiasi libreria italiana.
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Si parlava, tanto per cambiare, dei pregi e dei difetti di Urania, argomento su cui ho espresso la mia opinione qualche tempo fa (vedi qui).
danielepase risponde punto per punto alle mie critiche alla rivista Mondadori e si interroga su una questione su cui forse non mi sono dilungato a sufficienza:
Se la presenza di urania non “ingombrava” il mercato e non dequalificava i gusti dei lettori allora, non si capisce perchè dovrebbe farlo ora.
Da lettore di fantascienza il discorso mi interessa, provo quindi a frullare insieme qualche concetto già espresso in precedenza per provare a dare una risposta a questo dilemma (per chi ravvisasse brani già comparsi altrove, beh… questo è quello che passa il convento. Tocca accontentarsi).
La rarefazione delle uscite fantascientifiche in libreria avviene a partire dalla fine degli anni '80. Prima sembra che anche per la sf le librerie italiane fossero il paese di bengodi. Ma cos'è successo negli ultimi vent'anni da rendere la fantascienza merce sempre più rara?
Io credo che sia più o meno da quel periodo in avanti che la fantascienza si sia progressivamente trasformata da genere popolare (con tutto quel che significa in termini di vendite e quantità/qualità della proposta) in genere sempre più esclusivo, sempre più di nicchia. Urania di questa trasformazione pare non essersene proprio accorta (salvo forse per i numeri - di vendite, di uscite, di lettori - che si son fatti via via sempre più esigui).
In effetti Urania è l'ultimo alfiere di una concezione editoriale che vede nel genere fantascienza un prodotto di massa. Perfetto quindi per raggiungere il grande pubblico delle edicole. Non c'è dubbio che la fantascienza abbia le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie erano dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa dover rinunciare a personaggi più veri o ad ambientazioni più credibili). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico, lo stesso senso del meraviglioso in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer). Eppure nonostante i decenni sulle spalle Urania è ancora a tutti gli effetti una rivista pulp.
Non è inevitabile che i suoi lettori siano in costante calo?
Del resto credo che senza le spalle coperte da un editore come Mondadori Urania avrebbe già chiuso da un pezzo. Non conosco le cifre in gioco, ma ho la sensazione che almeno ultimi anni la chiusura in pareggio sia già un buon risultato.
Chi altri potrebbe mantenere in piedi un prodotto simile se non un'editore che possa avvantaggiarsi di indubbie economie di scala? In questa situazione che spazio c'è per chi volesse continuare a proporre fantascienza a prezzi competitivi?
La risposta è sotto gli occhi di tutti. Basta entrare in qualsiasi libreria italiana.
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02 luglio 2009
Letture giugno 2009 - prima parte
James Ellroy - American Tabloid
American Tabloid è violento, esagerato e frenetico come un pulp che si rispetti dovrebbe sempre essere. James Ellroy rivolta come un calzino l'ideale americano rivelando in un colpo solo tutto il marcio nascosto sotto il tappeto mediatico dalla propaganda a stelle e strisce. Non si salva nessuno, e nessuno merita di essere salvato.
Ma il capolavoro di James Ellroy è molto di più di una cinica macchina spezzaillusioni. American Tabloid oltre a essere estremamente avvincente è pure sguaiatamente illuminante, come solo un racconto che incrocia impunemente realtà e finzione, pettegolezzo e cronaca, mafia e denaro e politica può essere. Procedendo nella lettura si viene travolti dall'iperattività di Pete Bondurant e Kemper Boyd, i due ragazzoni protagonisti del romanzo, che attraversano come due schiacciasassi senza rimorsi e senza riserve quel fondamentale tratto di storia americana che va dalla fine degli anni '50 al fatidico 22 novembre del '63 non mancando di spargere sangue e merda a ogni pié sospinto. Il risultato della loro opera è sotto gli occhi di tutti, non è altro che il mondo come noi lo conosciamo.
La narrativa si è sempre cibata della storia, con American Tabloid sembra essere arrivato il momento di invertire i ruoli.
John Myers Myers - Silverlock
Sembra incredibile che al di fuori di una piccola cerchia di iniziati che lo adorano questo romanzo del 1949 sia praticamente sconosciuto. E dire che tra le pagine di Silverlock c'è tutto quel che serve per affascinare il lettore più esigente: c'è l'avventura, la classica quest attraverso un mondo sconosciuto, c'è il racconto di formazione, con l'eroe che si trasforma da cinico mezzemaniche in rotta col mondo a consapevole protagonista della propria vita, c'è il divertimento, che il tono del racconto si mantiene sempre leggero, tra trovate stravaganti, boutade e ovvie smargiassate, e c'è soprattutto un mondo che non ha uguali nella mia esperienza di lettore, un mondo in cui si incrocia tutto l'universo narrativo occidentale, dal folklore britannico all'inferno dantesco, da Omero a Shakespeare, dai miti nordici alle leggende popolari. All'interno del Commonwealth capita di navigare sulla zattera di Huck Finn o di incontrare Circe e Robin Hood, Sir Gavain e Amleto. Del resto il romanzo è letteralmente pieno di personaggi straordinari e parte del divertimento sta anche nel riconoscere luoghi e personaggi che John Myers Myers inserisce senza soluzione di continuità nel corso della vicenda.
Insomma, se vi volete immergere in una vicenda che riscrive in qualche centinaio di pagine la storia dell'immaginario occidentale dell'ultima trentina di secoli Silverlock è il romanzo che fa per voi, se invece siete tra quelli che storcono il naso a sentir parlare di fantasy, tenete presente che se questo romanzo di John Myers Myers non fosse così ostinatamente ancorato al canone fantastico potrebbe benissimo essere riconosciuto quale romanzo post-moderno ante litteram, con il suo libero mescolare cultura alta e popolare, con la superba costruzione allegorica che si fonde al pragmatismo yankee, con il continuo rimestare tra sesso e intelletto, con il tono sfrontatamente farsesco di tutta la vicenda.
(un sentito ringraziamento a Davide Mana che mi ha segnalato questo straordinario romanzo sul suo blog)
Robert J. Sawyer - Origine dell'ibrido
Terza e ultima parte del ciclo del Neanderthal Parallax ovvero il momento di riannodare tutti i capi del racconto e arrivare a una degna conclusione.
Il romanzo non si discosta qualitativamente dai due precedenti, le speculazioni fantascientifiche sono sempre ottimamente gestite, e la trama è sufficientemente interessante da tenere il lettore avvinto al romanzo. Come già scritto per gli episodi precedenti la fantascienza di Sawyer è di quella classica che non osa spingersi là dove nessun autore è mai giunto prima, ma che si lascia comunque leggere con soddisfazione. Intrattenimento intelligente, con il difetto, almeno in questo capitolo conclusivo della trilogia, di un doppio finale tendente all'apocalittico che risulta poco credibile nella prima parte e quanto meno affrettato nella conclusione definitiva della storia.
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25 giugno 2009
Emergenza morale
Credo diventerà un appuntamento fisso.
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22 giugno 2009
15 libri
Un'amica mi ha infettato via facebook con questo virus metaletterario. Dato che frequento poco quella sponda della rete preferisco trasferire il giochino sul blog.
Ecco le mie risposte alle 15 domande che seguono:
1. Sei maschio o femmina?
Il nuovo sesso: Cowgirl (T. Robbins)
2. Descriviti:
Terra rossa e pioggia scrosciante (V. Chandra)
3. Cosa provano le persone quando stanno con te?
Good Omens (T.Pratchett & N. Gaiman)
4. Descrivi la tua relazione precedente:
Triste, solitario y final (O. Soriano)
5. Descrivi la tua relazione corrente:
La schiuma dei giorni (B. Vian)
6. Dove vorresti trovarti?
Ristorante al termine dell’universo (D. Adams)
7. Come ti senti nei riguardi dell'amore?
Sulla strada (J. Kerouac)
8. Com'è la tua vita?
L'anno del sole quieto (W. Tucker)
9. Che cosa chiederesti se avessi a disposizione un solo desiderio?
Bolle d'infinito (J. Varley)
10. Di' qualcosa di saggio...
Solo il mimo canta al limitare del bosco (W. Tevis)
11. Una musica:
Il canto della neve silenziosa (H. Selby)
12. Chi o cosa temi?
Guerra eterna (J. Haldeman)
13. Un rimpianto:
Gesti indelebili (A.L. Kennedy)
14. Un consiglio per chi è più giovane:
Volgi lo sguardo al vento (I. Banks)
15. Da evitare accuratamente:
Fame (K. Hamsun)
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Ecco le mie risposte alle 15 domande che seguono:
1. Sei maschio o femmina?
Il nuovo sesso: Cowgirl (T. Robbins)
2. Descriviti:
Terra rossa e pioggia scrosciante (V. Chandra)
3. Cosa provano le persone quando stanno con te?
Good Omens (T.Pratchett & N. Gaiman)
4. Descrivi la tua relazione precedente:
Triste, solitario y final (O. Soriano)
5. Descrivi la tua relazione corrente:
La schiuma dei giorni (B. Vian)
6. Dove vorresti trovarti?
Ristorante al termine dell’universo (D. Adams)
7. Come ti senti nei riguardi dell'amore?
Sulla strada (J. Kerouac)
8. Com'è la tua vita?
L'anno del sole quieto (W. Tucker)
9. Che cosa chiederesti se avessi a disposizione un solo desiderio?
Bolle d'infinito (J. Varley)
10. Di' qualcosa di saggio...
Solo il mimo canta al limitare del bosco (W. Tevis)
11. Una musica:
Il canto della neve silenziosa (H. Selby)
12. Chi o cosa temi?
Guerra eterna (J. Haldeman)
13. Un rimpianto:
Gesti indelebili (A.L. Kennedy)
14. Un consiglio per chi è più giovane:
Volgi lo sguardo al vento (I. Banks)
15. Da evitare accuratamente:
Fame (K. Hamsun)
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10 giugno 2009
Letture - Maggio 2009
Don DeLillo - Underworld
Quante cose si potrebbero scrivere su Underworld! La malinconia e il vuoto che la genera, il ricordo come fondamento di intere esistenze che va insieme alla rimozione sistematica del passato, l'eterna ricerca di un padre perduto e l'omologazione asettica dei sentimenti, la violenza nell'epoca della sua riproducibilità mediatica e l'arte come redenzione personale e misterioso atto politico. Mi piacerebbe riuscire a riassumere in un discorso sensato il cumulo di suggestioni che un libro come questo si porta dietro, purtroppo vi dovete accontentare di queste poche note a margine (però potete sempre leggervi il romanzo, eh!).
La vena malinconica e la quieta rassegnazione che percorrono tutto il testo sono a mio avviso il primo gancio per legare indissolubilmente il lettore all'assenza che sta al cuore di Underworld. Il viaggio nella memoria collettiva americana alla ricerca di ciò che è andato perduto lungo la strada è una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. La scrittura di DeLillo è densa, ritmata, fluida e potente: l'ideale per scandire il percorso del lettore a ritroso nel tempo, perfetta per suggerire le progressive rimozioni personali (di sentimenti, di passioni e di significati) e per rivelare la trasformazione della ricchezza apparente in scarti e rifiuti (l'essenza distillata del sogno americano). Illuminante in questo senso la visione della montagna di immondizia - che è anche e soprattutto cumulo di ricordi a perdere - a dominare il panorama nel tramonto della East Coast. Poco importa se la ricerca della singolarità storica che ha prodotto il nostro presente ha come unico risultato l'impossibilità di dare un senso compiuto al tempo trascorso. In fondo la sopravvivenza sembra essere l'unica aspettativa, quasi una speranza.
Un altro tratto forte di Underworld - sovrastimato, forse, a causa della cronaca quotidiana di sbarchi e respingimenti dei giorni in cui lo leggevo - è il suo essere anche romanzo di formazione e di immigrazione, di omologazione e rinuncia. Con la ricchezza di odori e sapori (e di lingua e di relazioni) della piccola Italia di New York che si stempera nell'omogeneità forzata del monoblocco ideologico statunitense, basato sulla paura (della bomba prima, della degenerazione urbana poi), esaltato dall'abbondanza generalizzata di merce e intrattenimento.
Ma, come dicevo più sopra, i motivi d'interesse in un romanzo con una tale densità e profondità di scrittura sono davvero molteplici (e diversi per ogni lettore, credo). Del resto Underworld è un capolavoro. Un viaggio nel purgatorio americano in compagnia di self-made men e famiglie disgregate, di artisti visionari e suore feroci, di monomaniaci e manager dei rifiuti. Da leggere e rileggere.
Stephen J. Gould - Risplendi grande lucciola
Ognuno di noi ha il suo pantheon personale, un luogo virtuale dove ricordare i proprio eroi. Nel mio un posto sarà sempre riservato a Stephen J. Gould, scienziato americano, paleontologo e storico della scienza.
La mia conoscenza di Stephen J. Gould si limita a una manciata di testi, ma basta leggere uno qualsiasi dei suoi libri (per lo più, come nel caso di questo Risplendi grande lucciola, raccolte degli articoli che Gould ha pubblicato instancabilmente per quasi trent'anni) per rendersi conto della grandezza dell'uomo, della sua capacità di affrontare i più diversi argomenti con il piglio del vero scienziato, senza appoggiarsi ad alcuna verità rivelata, ma con la forza della ragione e un sano scetticismo, condito sempre con una buona dose di senso dell'umorismo.
Mi rendo conto che non sono molto obiettivo quando parlo di autori come Gould, ma provate a leggere un volume come Intelligenza e pregiudizio e poi forse condividerete il mio entusiasmo.
Charles Stross - Universo distorto
Molte idee ma confuse. Universo distorto è un concentrato di fantascienza per tutti i gusti, in poche decine di pagine si incontrano i temi classici del genere: dall'ucronia alla storia d'invasione, dall'avventura d'esplorazione alla space opera, dal primo contatto agli universi paralleli, il tutto frullato con un esagitato citazionismo pop (anche divertente, eh!) e una virata finale nella paranoia che è forse l'unica cosa seria del racconto.
Non so qual è stata la genesi di questa storia. L'impressione è che sia stato scritto come pastiche senza pretese, spingendo all'inverosimile sul pedale dell'immaginario di genere nel tentativo di arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima, giocando con omaggi e citazioni giusto per farsi qualche risata tra iniziati. In questa prospettiva Universo distorto può risultare godibile. A me però ha dato soprattutto l'idea di una gran confusione, un racconto-armadio con tanti brani interessanti gettati alla rinfusa a simulare un po' di ordine in casa, con un ospite importante già sulla soglia. Questo scorcio di universo Strossiano non è proprio da buttar via, meritava piuttosto ben altro approfondimento, un passaggio d'aspirapolvere e qualche giro al lavasecco. Che dite, chiamiamo la madre di Stross a tirargli le orecchie?
James E. Gunn - I fabbricanti di felicità
Perché mi ostino a leggere 'sto genere di romanzi? So già che alla fine ci rimango male, che qui e ora, XXI secolo, le ingenuità, i pregiudizi e la prosopopea di cui si alimentano queste storie sono decisamente indigesti. Il fatto è che mi piacerebbe almeno una volta rimanere stupito, e trovare qualche risposta sorprendente alle domande per nulla scontate e certo interessanti che animano questo genere di romanzi. Invece mi ritrovo con un altro libro di fantascienza d'epoca che, senza volerlo, racconta molto di più del clima socio-politico degli anni in cui è stato scritto che del futuro che vorrebbe anticipare.
Francesco Dimitri - La ragazza dei miei sogni
È qualche tempo che sento parlare di Francesco Dimitri e sempre in termini piuttosto lusinghieri. Molto di quello che ho letto rispetto alla sua attività di scrittore si riferisce a Pan, romanzo pubblicato nel 2008, ma neppure questo La ragazza dei miei sogni è stato trattato male da lettori e critica di genere (per quel che vale). Incuriosito da paragoni altisonanti (Gaiman, soprattutto) e dal fatto che a quanto pare Dimitri ha trovato un'originale via nazionale all'horror soprannaturale ho deciso di dargli una letta.
In effetti la La ragazza dei miei sogni è un buon romanzo. I personaggi sono credibili (vabbé, Dagon mica tanto, ma si sopravvive), l'emersione del soprannaturale nella vicenda è gestita in maniera sopraffina e la progressione narrativa non soffre di cali di tensione. La scrittura di Dimitri è sempre controllata, perfettamente calibrata sui vari stati d'animo del protagonista. La Roma piovosa e notturna che fa da sfondo alla vicenda è resa in maniera credibile ed è perfettamente funzionale al clima della vicenda.
Il problema è che a me 'ste storie di quasi trentenni sfigati e segaioli m'hanno ormai frantumato i cabasisi. Per quanto Dimitri ne La ragazza dei miei sogni sia assolutamente onesto e tratteggi in maniera credibile (e quindi ancor più insopportabile) il suo protagonista, io ormai questo genere di ambiente post-studentesco pseudo-universitario col contrasto fighetto/alternativo sempre sullo sfondo non lo reggo più. E per quanto la progressiva entrata in scena del soprannaturale sia davvero efficace, l'avrei apprezzata molto di più in un contesto diverso. Ma come dicevo il problema è mio, non del romanzo, e Dimitri mi ha lasciato con motivi più che sufficienti per voler leggere anche Pan.
Stephen King - La chiamata dei tre
Secondo capitolo de La torre nera, e nuove grandi soddisfazioni di lettura. A me pare che la qualità migliore di King sia la sua capacità incredibile di raccontare storie. Il potere della parola messa al servizio della narrazione, con niente (NIENTE!) di più importante dei personaggi, delle loro azioni e soprattutto dell'atmosfera e dell'ambiente che accoglie e sottolinea le loro relazioni.
Poco importa se alla fine la ripartizione in tre atti della vicenda risulta forse un po' troppo meccanica: gli incontri che si fanno accompagnando Roland nel suo cammino ripagano abbondantemente il rischio di scorgere dietro le quinte il telaio su cui King intesse la vicenda.
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Quante cose si potrebbero scrivere su Underworld! La malinconia e il vuoto che la genera, il ricordo come fondamento di intere esistenze che va insieme alla rimozione sistematica del passato, l'eterna ricerca di un padre perduto e l'omologazione asettica dei sentimenti, la violenza nell'epoca della sua riproducibilità mediatica e l'arte come redenzione personale e misterioso atto politico. Mi piacerebbe riuscire a riassumere in un discorso sensato il cumulo di suggestioni che un libro come questo si porta dietro, purtroppo vi dovete accontentare di queste poche note a margine (però potete sempre leggervi il romanzo, eh!).
La vena malinconica e la quieta rassegnazione che percorrono tutto il testo sono a mio avviso il primo gancio per legare indissolubilmente il lettore all'assenza che sta al cuore di Underworld. Il viaggio nella memoria collettiva americana alla ricerca di ciò che è andato perduto lungo la strada è una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. La scrittura di DeLillo è densa, ritmata, fluida e potente: l'ideale per scandire il percorso del lettore a ritroso nel tempo, perfetta per suggerire le progressive rimozioni personali (di sentimenti, di passioni e di significati) e per rivelare la trasformazione della ricchezza apparente in scarti e rifiuti (l'essenza distillata del sogno americano). Illuminante in questo senso la visione della montagna di immondizia - che è anche e soprattutto cumulo di ricordi a perdere - a dominare il panorama nel tramonto della East Coast. Poco importa se la ricerca della singolarità storica che ha prodotto il nostro presente ha come unico risultato l'impossibilità di dare un senso compiuto al tempo trascorso. In fondo la sopravvivenza sembra essere l'unica aspettativa, quasi una speranza.
Un altro tratto forte di Underworld - sovrastimato, forse, a causa della cronaca quotidiana di sbarchi e respingimenti dei giorni in cui lo leggevo - è il suo essere anche romanzo di formazione e di immigrazione, di omologazione e rinuncia. Con la ricchezza di odori e sapori (e di lingua e di relazioni) della piccola Italia di New York che si stempera nell'omogeneità forzata del monoblocco ideologico statunitense, basato sulla paura (della bomba prima, della degenerazione urbana poi), esaltato dall'abbondanza generalizzata di merce e intrattenimento.
Ma, come dicevo più sopra, i motivi d'interesse in un romanzo con una tale densità e profondità di scrittura sono davvero molteplici (e diversi per ogni lettore, credo). Del resto Underworld è un capolavoro. Un viaggio nel purgatorio americano in compagnia di self-made men e famiglie disgregate, di artisti visionari e suore feroci, di monomaniaci e manager dei rifiuti. Da leggere e rileggere.
Stephen J. Gould - Risplendi grande lucciola
Ognuno di noi ha il suo pantheon personale, un luogo virtuale dove ricordare i proprio eroi. Nel mio un posto sarà sempre riservato a Stephen J. Gould, scienziato americano, paleontologo e storico della scienza.
La mia conoscenza di Stephen J. Gould si limita a una manciata di testi, ma basta leggere uno qualsiasi dei suoi libri (per lo più, come nel caso di questo Risplendi grande lucciola, raccolte degli articoli che Gould ha pubblicato instancabilmente per quasi trent'anni) per rendersi conto della grandezza dell'uomo, della sua capacità di affrontare i più diversi argomenti con il piglio del vero scienziato, senza appoggiarsi ad alcuna verità rivelata, ma con la forza della ragione e un sano scetticismo, condito sempre con una buona dose di senso dell'umorismo.
Mi rendo conto che non sono molto obiettivo quando parlo di autori come Gould, ma provate a leggere un volume come Intelligenza e pregiudizio e poi forse condividerete il mio entusiasmo.
Charles Stross - Universo distorto
Molte idee ma confuse. Universo distorto è un concentrato di fantascienza per tutti i gusti, in poche decine di pagine si incontrano i temi classici del genere: dall'ucronia alla storia d'invasione, dall'avventura d'esplorazione alla space opera, dal primo contatto agli universi paralleli, il tutto frullato con un esagitato citazionismo pop (anche divertente, eh!) e una virata finale nella paranoia che è forse l'unica cosa seria del racconto.
Non so qual è stata la genesi di questa storia. L'impressione è che sia stato scritto come pastiche senza pretese, spingendo all'inverosimile sul pedale dell'immaginario di genere nel tentativo di arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima, giocando con omaggi e citazioni giusto per farsi qualche risata tra iniziati. In questa prospettiva Universo distorto può risultare godibile. A me però ha dato soprattutto l'idea di una gran confusione, un racconto-armadio con tanti brani interessanti gettati alla rinfusa a simulare un po' di ordine in casa, con un ospite importante già sulla soglia. Questo scorcio di universo Strossiano non è proprio da buttar via, meritava piuttosto ben altro approfondimento, un passaggio d'aspirapolvere e qualche giro al lavasecco. Che dite, chiamiamo la madre di Stross a tirargli le orecchie?
James E. Gunn - I fabbricanti di felicità
Perché mi ostino a leggere 'sto genere di romanzi? So già che alla fine ci rimango male, che qui e ora, XXI secolo, le ingenuità, i pregiudizi e la prosopopea di cui si alimentano queste storie sono decisamente indigesti. Il fatto è che mi piacerebbe almeno una volta rimanere stupito, e trovare qualche risposta sorprendente alle domande per nulla scontate e certo interessanti che animano questo genere di romanzi. Invece mi ritrovo con un altro libro di fantascienza d'epoca che, senza volerlo, racconta molto di più del clima socio-politico degli anni in cui è stato scritto che del futuro che vorrebbe anticipare.
Francesco Dimitri - La ragazza dei miei sogni
È qualche tempo che sento parlare di Francesco Dimitri e sempre in termini piuttosto lusinghieri. Molto di quello che ho letto rispetto alla sua attività di scrittore si riferisce a Pan, romanzo pubblicato nel 2008, ma neppure questo La ragazza dei miei sogni è stato trattato male da lettori e critica di genere (per quel che vale). Incuriosito da paragoni altisonanti (Gaiman, soprattutto) e dal fatto che a quanto pare Dimitri ha trovato un'originale via nazionale all'horror soprannaturale ho deciso di dargli una letta.
In effetti la La ragazza dei miei sogni è un buon romanzo. I personaggi sono credibili (vabbé, Dagon mica tanto, ma si sopravvive), l'emersione del soprannaturale nella vicenda è gestita in maniera sopraffina e la progressione narrativa non soffre di cali di tensione. La scrittura di Dimitri è sempre controllata, perfettamente calibrata sui vari stati d'animo del protagonista. La Roma piovosa e notturna che fa da sfondo alla vicenda è resa in maniera credibile ed è perfettamente funzionale al clima della vicenda.
Il problema è che a me 'ste storie di quasi trentenni sfigati e segaioli m'hanno ormai frantumato i cabasisi. Per quanto Dimitri ne La ragazza dei miei sogni sia assolutamente onesto e tratteggi in maniera credibile (e quindi ancor più insopportabile) il suo protagonista, io ormai questo genere di ambiente post-studentesco pseudo-universitario col contrasto fighetto/alternativo sempre sullo sfondo non lo reggo più. E per quanto la progressiva entrata in scena del soprannaturale sia davvero efficace, l'avrei apprezzata molto di più in un contesto diverso. Ma come dicevo il problema è mio, non del romanzo, e Dimitri mi ha lasciato con motivi più che sufficienti per voler leggere anche Pan.
Stephen King - La chiamata dei tre
Secondo capitolo de La torre nera, e nuove grandi soddisfazioni di lettura. A me pare che la qualità migliore di King sia la sua capacità incredibile di raccontare storie. Il potere della parola messa al servizio della narrazione, con niente (NIENTE!) di più importante dei personaggi, delle loro azioni e soprattutto dell'atmosfera e dell'ambiente che accoglie e sottolinea le loro relazioni.
Poco importa se alla fine la ripartizione in tre atti della vicenda risulta forse un po' troppo meccanica: gli incontri che si fanno accompagnando Roland nel suo cammino ripagano abbondantemente il rischio di scorgere dietro le quinte il telaio su cui King intesse la vicenda.
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28 maggio 2009
A proposito di vampiri
Per una curiosa coincidenza (see…) m'è capitato nel giro di pochi giorni di vedere due riproposizioni recenti del mito vampiresco. Ambedue sono fedeli al canone che vede i vampiri come creature che si alimentano di sangue umano, fotofobiche, metamorfiche, con forza e caratteristiche sovrumane, limitate nei loro movimenti (nel senso che per entrare in casa di un umano devono essere invitate), etc etc…
Le premesse che fanno da fondamento a queste due vicende sono dunque molto simili, eppure gli esiti non potrebbero essere più diversi.
Certo, uno è un prodotto televisivo, l'altro una pellicola cinematografica, il primo è decisamente americano mentre il secondo viene dalla periferia d'Europa, e se la differenza di medium è importante, decisamente più significativa m'è parsa la distanza geografica dei due progetti. Ça va sans dire che il confronto tra due visioni così diverse (praticamente agli antipodi) dello stesso mito è stato decisamente interessante.
True Blood è una nuova serie appena arrivata sui canali satellitari nostrani. Dopo averne sentito parlare bene più o meno ovunque ho deciso di dargli un'occhiata.
Ho visto le prime tre puntate e sono rimasto piuttosto deluso. Mi aspettavo una visione disincantata, inquieta e in qualche modo demenziale di un mondo in cui vampiri e umani tentano di coesistere più o meno pacificamente, mi aspettavo qualche torrida vampata di umori sudisti vista l'ambientazione nella periferia rurale della Louisiana. E invece mi sono ritrovato sommerso da un profluvio di luoghi comuni e da una sequela di personaggi finto-trasgressivi, il tutto condito da tette e buoni sentimenti con giusto qualche tocco di violenza tanto per gradire.
Travestito da telefilm cattivo True Blood è un tripudio di conservatorismo spicciolo e di facili moralismi. Che i diversi in questo caso siano vampiri invece che mutanti superumani o omini verdi da un altro pianeta è solo un dettaglio che fa molto colore ma che per il resto risulta del tutto superfluo.
A chi apprezza un po' di sangue e frattaglie e inquietudini varie nel formato televisivo consiglio di continuare a gustarsi Dexter che viaggia decisamente su altri livelli.
Lasciami entrare è un curioso film svedese del 2008 che mescola amabilmente la tradizione del vampiro cinematografico con i turbamenti della preadolescenza.
Tanto True Blood è saturo e grossolano (nei colori, nei dettagli, nella sovrabbondanza di chiacchiere e nelle cose che succedono) tanto questa pellicola è algida, rarefatta e dilatata. Il ritmo è assolutamente scandinavo (astenersi action movie-dipendenti), quindi privo di tutta la vacua frenesia della serie americana di cui sopra, e le improvvise esplosioni di violenza che scandiscono la vicenda risultano per questo ancora più efficaci a sottolineare i momenti decisivi del film.
La cosa migliore di Lasciami entrare sono senza dubbio i due giovani protagonisti. La relazione che stabiliscono, nata da impulsi propriamenti infantili e gestita in maniera mirabile dagli autori, si sviluppa nel corso della storia in un rapporto sempre più esclusivo tanto da permettere al regista di strutturare in senso circolare l'intera vicenda. I due attori (Kåre Hedebrant è Oskar, Lina Leandersson è Eli) sono perfetti nel ruolo: lui vittima predestinata con un disarmante bisogno di affetto; lei, giovane vampira in difficoltà ("Ho dodici anni ma li ho da un sacco di tempo."), riesce credibilmente a trasformarsi da giovane fanciulla sofferente a spietata assassina sovrumana regalando allo spettatore indimenticabili momenti di dolcezza e fascino soft-gore.
Lasciami entrare non è un film perfetto. La giustapposizione dei momenti dedicati ai due protagonisti alle sequenze in cui entra in gioco il gruppo degli adulti del quartiere m'è parsa forzata e fuori sincrono (per quanto necessaria ai fini della storia). Idem per il tenore dei dialoghi: sempre indovinati quando in scena ci sono Oskar ed Eli, decisamente più fiacchi negli altri casi. Anche il finale, o per meglio dire la serie di pre-finali messi in scena progressivamente, a mio parere non risulta del tutto convincenti. Mi riferisco soprattutto alla scena decisiva della piscina che per quanto liberatoria (e divertente!), rischia da sola di compromettere il delicato equilibrio del film a favore di una risoluzione troppo (in)credibile e trasparente di una parte della vicenda che poteva considerarsi già risolta in precedenza.
Nonostante questi difetti il film è decisamente apprezzabile: oltre a offrire un punto di vista piuttosto originale sul genere vampiri Lasciami entrare è girato in maniera mirabile, con scelte cinematografiche che privilegiano scientemente il vuoto (degli spazi) e la separazione (tra i personaggi) con improvvisi e brucianti scarti di ritmo a demolire mortalmente l'isolamento degli individui; con una fotografia che esalta i toni freddi dell'inverno e i colori dimessi e desolati della periferia; con una colonna sonora che mescola inascoltabili brani pop scandinavi (e struggenti, forse proprio per la loro improponibilità) ai silenzi dei boschi innevati e dei gelidi cortili nella notte svedese.
Guardatelo, e poi magari fatemi sapere cosa ne pensate.
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Le premesse che fanno da fondamento a queste due vicende sono dunque molto simili, eppure gli esiti non potrebbero essere più diversi.
Certo, uno è un prodotto televisivo, l'altro una pellicola cinematografica, il primo è decisamente americano mentre il secondo viene dalla periferia d'Europa, e se la differenza di medium è importante, decisamente più significativa m'è parsa la distanza geografica dei due progetti. Ça va sans dire che il confronto tra due visioni così diverse (praticamente agli antipodi) dello stesso mito è stato decisamente interessante.
True Blood è una nuova serie appena arrivata sui canali satellitari nostrani. Dopo averne sentito parlare bene più o meno ovunque ho deciso di dargli un'occhiata.
Ho visto le prime tre puntate e sono rimasto piuttosto deluso. Mi aspettavo una visione disincantata, inquieta e in qualche modo demenziale di un mondo in cui vampiri e umani tentano di coesistere più o meno pacificamente, mi aspettavo qualche torrida vampata di umori sudisti vista l'ambientazione nella periferia rurale della Louisiana. E invece mi sono ritrovato sommerso da un profluvio di luoghi comuni e da una sequela di personaggi finto-trasgressivi, il tutto condito da tette e buoni sentimenti con giusto qualche tocco di violenza tanto per gradire.
Travestito da telefilm cattivo True Blood è un tripudio di conservatorismo spicciolo e di facili moralismi. Che i diversi in questo caso siano vampiri invece che mutanti superumani o omini verdi da un altro pianeta è solo un dettaglio che fa molto colore ma che per il resto risulta del tutto superfluo.
A chi apprezza un po' di sangue e frattaglie e inquietudini varie nel formato televisivo consiglio di continuare a gustarsi Dexter che viaggia decisamente su altri livelli.
Lasciami entrare è un curioso film svedese del 2008 che mescola amabilmente la tradizione del vampiro cinematografico con i turbamenti della preadolescenza.
Tanto True Blood è saturo e grossolano (nei colori, nei dettagli, nella sovrabbondanza di chiacchiere e nelle cose che succedono) tanto questa pellicola è algida, rarefatta e dilatata. Il ritmo è assolutamente scandinavo (astenersi action movie-dipendenti), quindi privo di tutta la vacua frenesia della serie americana di cui sopra, e le improvvise esplosioni di violenza che scandiscono la vicenda risultano per questo ancora più efficaci a sottolineare i momenti decisivi del film.
La cosa migliore di Lasciami entrare sono senza dubbio i due giovani protagonisti. La relazione che stabiliscono, nata da impulsi propriamenti infantili e gestita in maniera mirabile dagli autori, si sviluppa nel corso della storia in un rapporto sempre più esclusivo tanto da permettere al regista di strutturare in senso circolare l'intera vicenda. I due attori (Kåre Hedebrant è Oskar, Lina Leandersson è Eli) sono perfetti nel ruolo: lui vittima predestinata con un disarmante bisogno di affetto; lei, giovane vampira in difficoltà ("Ho dodici anni ma li ho da un sacco di tempo."), riesce credibilmente a trasformarsi da giovane fanciulla sofferente a spietata assassina sovrumana regalando allo spettatore indimenticabili momenti di dolcezza e fascino soft-gore.
Lasciami entrare non è un film perfetto. La giustapposizione dei momenti dedicati ai due protagonisti alle sequenze in cui entra in gioco il gruppo degli adulti del quartiere m'è parsa forzata e fuori sincrono (per quanto necessaria ai fini della storia). Idem per il tenore dei dialoghi: sempre indovinati quando in scena ci sono Oskar ed Eli, decisamente più fiacchi negli altri casi. Anche il finale, o per meglio dire la serie di pre-finali messi in scena progressivamente, a mio parere non risulta del tutto convincenti. Mi riferisco soprattutto alla scena decisiva della piscina che per quanto liberatoria (e divertente!), rischia da sola di compromettere il delicato equilibrio del film a favore di una risoluzione troppo (in)credibile e trasparente di una parte della vicenda che poteva considerarsi già risolta in precedenza.
Nonostante questi difetti il film è decisamente apprezzabile: oltre a offrire un punto di vista piuttosto originale sul genere vampiri Lasciami entrare è girato in maniera mirabile, con scelte cinematografiche che privilegiano scientemente il vuoto (degli spazi) e la separazione (tra i personaggi) con improvvisi e brucianti scarti di ritmo a demolire mortalmente l'isolamento degli individui; con una fotografia che esalta i toni freddi dell'inverno e i colori dimessi e desolati della periferia; con una colonna sonora che mescola inascoltabili brani pop scandinavi (e struggenti, forse proprio per la loro improponibilità) ai silenzi dei boschi innevati e dei gelidi cortili nella notte svedese.
Guardatelo, e poi magari fatemi sapere cosa ne pensate.
…
19 maggio 2009
XXI Century Icarus
Di solito preferisco tenere separate le cose: qui dentro sono in primo piano le parole, mentre lo spazio per le foto è quello solito su flickr.
Però stavolta faccio un'eccezione, che sono davvero orgoglioso della foto che vedete sopra.
I motivi di soddisfazione legati a quest'Icaro del ventunesimo secolo sono sostanzialmente due.
È da parecchio tempo che le foto che faccio non mi soddisfano del tutto. Non so se è questione di soggetti e di possibilità, o se fotografare ormai quasi esclusivamente per necessità documentativa (le foto del rugby, ma anche i matrimoni) mi abbiano fatto entrare in una routine in cui la curiosità e la sperimentazione sono via via emarginate. Qualunque sia la ragione le mie foto non mi piacciono più come una volta. Fino a oggi, almeno.
L'altro motivo per cui essere soddisfatto è presto detto. I miei sono solitamente scatti estemporanei: vedo qualcosa d'interessante, scatto la foto, cerco di ottenere dall'immagine il massimo di quello che la situazione mi suggerisce. In questo caso invece il setting e la foto sono stati studiati e preparati, cercando di non lasciare nulla al caso. Sono pochissimi i miei scatti nati da situazioni simili. Normalmente preferisco cogliere la spontaneità del momento, o riuscire a trasmettere a chi guarda le sensazioni evocate da un luogo, da una luce particolare, da uno sguardo diverso dal solito.
In questo caso il risultato ripaga ampiamente lo sforzo.
(un grazie al mio collega Cristiano che si è prestato come modello)
…
17 maggio 2009
Che cos'è un fascista, ora?
È già qualche giorno che rimugino sulla questione, che rimando il momento del confronto, ma oh… a un certo punto certe cose bisogna proprio chiarirsele.
C'è questo ragazzo, vent'anni, atleta, allenatore, studente universitario. Lo conosco ormai da più di un anno e in questo periodo ho avuto modo di apprezzarne le qualità. L'ho visto lavorare con i ragazzini, l'ho visto relazionarsi con gli adulti, l'ho visto con gli amici: entusiasta, gentile, disponibile. Massimo rispetto insomma.
Poi scopro inavvertitamente che oltre a tutte 'ste belle qualità il nostro è pure un irriducibile e nostalgico fascista. Roba da busto del duce in cameretta e gite a Predappio, roba da Faccetta nera e compagnia bella.
Passato il momento di sorpresa e sconforto ho iniziato a chiedermi come fosse possibile.
Il fatto è che per me è semplicemente inconcepibile che a vent'anni si possa avere nostalgia di un periodo in cui nemmeno i tuoi genitori erano ancora nati. Per me i vent'anni sono ancora sinonimo di ricerca e ribellione, per questo motivo arrivare a immaginare, a desiderare anzi, un'entità di controllo pesante e totalitaria come il fascismo a dominare la vita quotidiana mi risulta davvero intollerabile.
Ma va bene, il mondo è bello perché è vario. E allora ho cercato di capire cos'è per me un fascista oggi (no, tranquilli, niente trattati socio-politici o analisi dell'attualità, solo sensazioni).
Io credo che uno diventi fascista nel 2009 fondamentalmente perché se la fa sotto.
Perché è spaventato a morte dal ritmo del cambiamento, perché è convinto che si stava meglio quando si stava peggio, perché ha paura dello straniero, del diverso, di tutto ciò che non riesce a capire, perché avere il minimo dubbio è sempre un errore e una gretta ignoranza è sempre preferibile al non avere risposte adeguate alle domande che la realtà ci rovescia addosso.
La paura è l'unica spiegazione che riesco a darmi, che altrimenti non riesco proprio a capire la retorica della difesa della patria (se sei convinto che la tua cultura, la tua razza sia migliore, più forte, sia insomma superiore alle altre, che timore puoi mai avere di perdere l'identità nazionale? Solo uno sciocco sceglie l'opzione peggiorativa, o no?), non capisco l'appello alla tradizione (ma vi siete mai chiesti da dove nasca una tradizione? se sia davvero immutabile? e le tradizioni più vecchie che fine fanno?), non riesco a capire perché per riaffermare la propria superiorità si ricorra sempre alla violenza dei tanti contro uno.
Poi magari mi sbaglio e il fascismo è semplicemente una morale diversa, che non riconosce le persone, ma solo le categorie; è la necessità animale di avere una gerarchia nel branco, è la brama di potere da esercitare anche nel più piccolo ambito, è la certezza di essere i migliori e quindi, inevitabilmente, in grado di decidere il destino di tutti.
Da quanto sopra si sarà capito come io non abbia alcuna stima dell'ideologia fascista, di quanto provi ribrezzo per certe posizione fondamentaliste, per un credo politico che predica la sopprafazione di qualunque controparte. Resta però il fatto che ho conosciuto e conosco persone che nel fascismo si riconoscono, e che queste persone non sono necessariamente brutte persone. Dunque, se c'è qualche fascista ragionevole in zona, ha mica voglia di spiegarmi qual è il senso di una scelta di questo tipo? Grazie.
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C'è questo ragazzo, vent'anni, atleta, allenatore, studente universitario. Lo conosco ormai da più di un anno e in questo periodo ho avuto modo di apprezzarne le qualità. L'ho visto lavorare con i ragazzini, l'ho visto relazionarsi con gli adulti, l'ho visto con gli amici: entusiasta, gentile, disponibile. Massimo rispetto insomma.
Poi scopro inavvertitamente che oltre a tutte 'ste belle qualità il nostro è pure un irriducibile e nostalgico fascista. Roba da busto del duce in cameretta e gite a Predappio, roba da Faccetta nera e compagnia bella.
Passato il momento di sorpresa e sconforto ho iniziato a chiedermi come fosse possibile.
Il fatto è che per me è semplicemente inconcepibile che a vent'anni si possa avere nostalgia di un periodo in cui nemmeno i tuoi genitori erano ancora nati. Per me i vent'anni sono ancora sinonimo di ricerca e ribellione, per questo motivo arrivare a immaginare, a desiderare anzi, un'entità di controllo pesante e totalitaria come il fascismo a dominare la vita quotidiana mi risulta davvero intollerabile.
Ma va bene, il mondo è bello perché è vario. E allora ho cercato di capire cos'è per me un fascista oggi (no, tranquilli, niente trattati socio-politici o analisi dell'attualità, solo sensazioni).
Io credo che uno diventi fascista nel 2009 fondamentalmente perché se la fa sotto.
Perché è spaventato a morte dal ritmo del cambiamento, perché è convinto che si stava meglio quando si stava peggio, perché ha paura dello straniero, del diverso, di tutto ciò che non riesce a capire, perché avere il minimo dubbio è sempre un errore e una gretta ignoranza è sempre preferibile al non avere risposte adeguate alle domande che la realtà ci rovescia addosso.
La paura è l'unica spiegazione che riesco a darmi, che altrimenti non riesco proprio a capire la retorica della difesa della patria (se sei convinto che la tua cultura, la tua razza sia migliore, più forte, sia insomma superiore alle altre, che timore puoi mai avere di perdere l'identità nazionale? Solo uno sciocco sceglie l'opzione peggiorativa, o no?), non capisco l'appello alla tradizione (ma vi siete mai chiesti da dove nasca una tradizione? se sia davvero immutabile? e le tradizioni più vecchie che fine fanno?), non riesco a capire perché per riaffermare la propria superiorità si ricorra sempre alla violenza dei tanti contro uno.
Poi magari mi sbaglio e il fascismo è semplicemente una morale diversa, che non riconosce le persone, ma solo le categorie; è la necessità animale di avere una gerarchia nel branco, è la brama di potere da esercitare anche nel più piccolo ambito, è la certezza di essere i migliori e quindi, inevitabilmente, in grado di decidere il destino di tutti.
Da quanto sopra si sarà capito come io non abbia alcuna stima dell'ideologia fascista, di quanto provi ribrezzo per certe posizione fondamentaliste, per un credo politico che predica la sopprafazione di qualunque controparte. Resta però il fatto che ho conosciuto e conosco persone che nel fascismo si riconoscono, e che queste persone non sono necessariamente brutte persone. Dunque, se c'è qualche fascista ragionevole in zona, ha mica voglia di spiegarmi qual è il senso di una scelta di questo tipo? Grazie.
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11 maggio 2009
Rapporto letture - Aprile 2009 - seconda parte
AA.VV. - Alia [Italia]
Alia è una pubblicazione piuttosto anomale nel panorama editoriale nostrano. Edita da un pugno di disperati appassionati di letteratura Alia è un'antologia che si fa in tre per fornire al lettore affamato di meraviglie una buona dose di racconti fantastici. Alia infatti esce ormai da qualche anno in tre volumi annuali dedicati ognuno a un distinto orizzonte geografico/culturale: italiano, anglosassone, giapponese.
Il volume che m'è capitato di leggere è quello dedicato alla produzione italiana uscito nel 2007 . I 10 racconti, raccolti e presentati da Vittorio Catani, Massimo Citi e Silvia Treves offrono una visione molto variegata delle possibilità che ha il fantastico di far capolino tra le righe di racconti che spaziano dall'orrore alla fantascienza, dal (quasi) mainstream al fantasy borderline.
Un'antologia tanto eterogenea ha l'indubbio vantaggio di mostrare aspetti molto diversi dell'universo narrativo fantastico nostrano, ma porta inevitabilmente con sé il rischio di confondere il lettore per la varietà di stili e soggetti presenti (non che questo sia necessariamente un difetto). In effetti ciò che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è la qualità media della proposta, molto più alta di quella rintracciabile mediamente in prodotti analoghi (oh… non che ce ne siano molti, ma mi sembra valido per tutti il confronto con Robot). Certo, non tutti i racconti sono memorabili, anzi, ce ne sono un paio che proprio non ho digerito. Ma questo fa parte del gioco, e leggendo un'antologia è quasi inevitabile. D'altro canto basterebbe un racconto come Gli anni del tuono per rendere indimenticabile qualsiasi raccolta lo contenesse, tanto brillante sorprendente e meravigliosa è la storia di Davide Mana.
Tra gli altri racconti da ricordare nel volume vanno senz'altro citati Ola e Olb di Massimo Citi, fantascienza classica condita con un po' d'inquietudine grazie a una voce narrante piuttosto sorprendente, e Pater di Mario Giorgi che se non soffrisse di un'eccesso di verbosità costituirebbe davvero una pietra miliare nella fantascienza nostrana, abile com'è a giostrare tra realtà indubbiamente italiana, utopia sociale e passioni individuali.
Per me questa era la prima volta con Alia, ora si tratta solo di recuperare gli altri numeri. Se la qualità è analoga a questo credo ne valga assolutamente la pena. Se interessa anche a voi vi consiglio di fare un giro sul sito dell'editore.
Ken MacLeod - Luce nera
Con la pubblicazione su Urania di Luce nera prosegue il ciclo narrativo cominciato con il precedente La fortezza dei cosmonauti (vedi relativo post di febbraio).
Luce nera si lascia leggere senza opporre resistenza, a patto di non porsi troppi dubbi. L'inserimento della trama politica (con un conflitto sociale che rieccheggia quelli di fine 800) è piuttosto curioso e se ha un certo valore pedagogico a me è parso un filo forzato per il contesto space-operistico nel quale ci si trova catapultati. Ma va bene così, che ormai questo è un marchio di fabbrica di MacLeod. Dispiace solo che a farne le spese sia la trama più propriamente cosmica del romanzo, che a primo acchito sembrava decisamente più interessante. Il ciclo si dovrebbe concludere con un ultimo romanzo. Staremo a vedere se l'autore riuscirà a risollevare un pochino le sorti della vicenda.
James Graham Ballard - Cocaine Nights
Sono stato molto restio a inoltrarmi per le nuove rotte tracciate da Ballard a partire dagli anni '90. Il Ballard catastrofico di inizio carriera e quello clinico degli anni '70 avevano prodotto già sufficienti suggestioni da marcare indelebilmente il mio immaginario. Però qualche settimana fa Ballard è scomparso e m'è sembrata cosa buona e giusta ricordarlo con un libro che non avevo ancora letto.
Cocaine Nights è il romanzo che più di ogni altro ha ridefinito la sfera d'attenzione di Ballard che da questo momento si sposta dai centri e dalle periferie urbane ai paradisi residenziali per benestanti all'ultimo stadio, alle residenze di lusso per manager dei media, alle enclavi protette che sempre più spesso spuntano nei luoghi più impensati del pianeta. In questo caso l'azione si svolge sulla riviera spagnola, in una comunità di benestanti e baby-pensionati nordeuropei che sta vivendo un improvviso risveglio sociale.
In Cocaine Nights risuonano gli echi della produzione precedente del nostro insieme ai turbamenti caratteristici della fine del XX secolo. Ecco quindi il paradigma ballardiano della comunità chiusa, il sonno tecnoindotto della ragione, la violenza come motore creativo: archetipi consolidati che si innestano questa volta sull'idea patologica della società del tempo libero, modello ideale di devastazione psichica totalmente avulsa dalla realtà. A sottolineare il disagio del lettore alle prese con un romanzo che ha tutte le apparenze di un giallo ma che si trasforma presto un un viaggio senza ritorno nelle esistenze artificiali di un intera comunità ecco le immagini simbolo di Ballard rivisitate alternativamente nella classica atmosfera desolata e corrotta, come anche nell'inconsueta versione immobile e aliena da plastico disneyano: mi riferisco ovviamente alle piscine, alle automobili, ai vari luoghi del disastro che scandiscono il procedere del romanzo.
Ad animare la narrazione Ballard reinventa quello che si potrebbe ben definire il nipotino scapestrato del Robert Vaughan di Crash. Come altro definireste Bobby Crawford, l'alfiere iperatletico del risveglio cognitivo della riviera spagnola? Tanto il primo manifesta la sua deviazione dedicandosi alla meticolosa mutilazione del corpo quanto l'iperattività del secondo agisce sul piano puramente materiale degli oggetti, come se la psiche collettiva di fine secolo avesse compiuto la metamorfosi finale abbandonando ogni speranza corporea per definirsi definitivamente negli ammennicoli tecnologici di cui non mancano di circondarsi i baby-pensionati dell'universo ballardiano. Sia il dottor Vaughan che Bobby il tennista sono motori di distruzione, entrambi sono figure virali in un sistema malato, entrambi esercitano un fascino incontrovertibile sulla realtà che li circonda. Se gli esiti del loro agire sono diversi è perché nei vent'anni che separano le loro azioni la realtà su cui Ballard ha costantemente indagato (quella che un tempo era la borghesia benestante occidentale, il mostro in cui in parte ci siamo tutti trasformati) si è definitivamente opacizzata sintonizzandosi su quello che pare essere ormai un canale morto dell'evoluzione.
…
Alia è una pubblicazione piuttosto anomale nel panorama editoriale nostrano. Edita da un pugno di disperati appassionati di letteratura Alia è un'antologia che si fa in tre per fornire al lettore affamato di meraviglie una buona dose di racconti fantastici. Alia infatti esce ormai da qualche anno in tre volumi annuali dedicati ognuno a un distinto orizzonte geografico/culturale: italiano, anglosassone, giapponese.
Il volume che m'è capitato di leggere è quello dedicato alla produzione italiana uscito nel 2007 . I 10 racconti, raccolti e presentati da Vittorio Catani, Massimo Citi e Silvia Treves offrono una visione molto variegata delle possibilità che ha il fantastico di far capolino tra le righe di racconti che spaziano dall'orrore alla fantascienza, dal (quasi) mainstream al fantasy borderline.
Un'antologia tanto eterogenea ha l'indubbio vantaggio di mostrare aspetti molto diversi dell'universo narrativo fantastico nostrano, ma porta inevitabilmente con sé il rischio di confondere il lettore per la varietà di stili e soggetti presenti (non che questo sia necessariamente un difetto). In effetti ciò che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è la qualità media della proposta, molto più alta di quella rintracciabile mediamente in prodotti analoghi (oh… non che ce ne siano molti, ma mi sembra valido per tutti il confronto con Robot). Certo, non tutti i racconti sono memorabili, anzi, ce ne sono un paio che proprio non ho digerito. Ma questo fa parte del gioco, e leggendo un'antologia è quasi inevitabile. D'altro canto basterebbe un racconto come Gli anni del tuono per rendere indimenticabile qualsiasi raccolta lo contenesse, tanto brillante sorprendente e meravigliosa è la storia di Davide Mana.
Tra gli altri racconti da ricordare nel volume vanno senz'altro citati Ola e Olb di Massimo Citi, fantascienza classica condita con un po' d'inquietudine grazie a una voce narrante piuttosto sorprendente, e Pater di Mario Giorgi che se non soffrisse di un'eccesso di verbosità costituirebbe davvero una pietra miliare nella fantascienza nostrana, abile com'è a giostrare tra realtà indubbiamente italiana, utopia sociale e passioni individuali.
Per me questa era la prima volta con Alia, ora si tratta solo di recuperare gli altri numeri. Se la qualità è analoga a questo credo ne valga assolutamente la pena. Se interessa anche a voi vi consiglio di fare un giro sul sito dell'editore.
Ken MacLeod - Luce nera
Con la pubblicazione su Urania di Luce nera prosegue il ciclo narrativo cominciato con il precedente La fortezza dei cosmonauti (vedi relativo post di febbraio).
Luce nera si lascia leggere senza opporre resistenza, a patto di non porsi troppi dubbi. L'inserimento della trama politica (con un conflitto sociale che rieccheggia quelli di fine 800) è piuttosto curioso e se ha un certo valore pedagogico a me è parso un filo forzato per il contesto space-operistico nel quale ci si trova catapultati. Ma va bene così, che ormai questo è un marchio di fabbrica di MacLeod. Dispiace solo che a farne le spese sia la trama più propriamente cosmica del romanzo, che a primo acchito sembrava decisamente più interessante. Il ciclo si dovrebbe concludere con un ultimo romanzo. Staremo a vedere se l'autore riuscirà a risollevare un pochino le sorti della vicenda.
James Graham Ballard - Cocaine Nights
Sono stato molto restio a inoltrarmi per le nuove rotte tracciate da Ballard a partire dagli anni '90. Il Ballard catastrofico di inizio carriera e quello clinico degli anni '70 avevano prodotto già sufficienti suggestioni da marcare indelebilmente il mio immaginario. Però qualche settimana fa Ballard è scomparso e m'è sembrata cosa buona e giusta ricordarlo con un libro che non avevo ancora letto.
Cocaine Nights è il romanzo che più di ogni altro ha ridefinito la sfera d'attenzione di Ballard che da questo momento si sposta dai centri e dalle periferie urbane ai paradisi residenziali per benestanti all'ultimo stadio, alle residenze di lusso per manager dei media, alle enclavi protette che sempre più spesso spuntano nei luoghi più impensati del pianeta. In questo caso l'azione si svolge sulla riviera spagnola, in una comunità di benestanti e baby-pensionati nordeuropei che sta vivendo un improvviso risveglio sociale.
In Cocaine Nights risuonano gli echi della produzione precedente del nostro insieme ai turbamenti caratteristici della fine del XX secolo. Ecco quindi il paradigma ballardiano della comunità chiusa, il sonno tecnoindotto della ragione, la violenza come motore creativo: archetipi consolidati che si innestano questa volta sull'idea patologica della società del tempo libero, modello ideale di devastazione psichica totalmente avulsa dalla realtà. A sottolineare il disagio del lettore alle prese con un romanzo che ha tutte le apparenze di un giallo ma che si trasforma presto un un viaggio senza ritorno nelle esistenze artificiali di un intera comunità ecco le immagini simbolo di Ballard rivisitate alternativamente nella classica atmosfera desolata e corrotta, come anche nell'inconsueta versione immobile e aliena da plastico disneyano: mi riferisco ovviamente alle piscine, alle automobili, ai vari luoghi del disastro che scandiscono il procedere del romanzo.
Ad animare la narrazione Ballard reinventa quello che si potrebbe ben definire il nipotino scapestrato del Robert Vaughan di Crash. Come altro definireste Bobby Crawford, l'alfiere iperatletico del risveglio cognitivo della riviera spagnola? Tanto il primo manifesta la sua deviazione dedicandosi alla meticolosa mutilazione del corpo quanto l'iperattività del secondo agisce sul piano puramente materiale degli oggetti, come se la psiche collettiva di fine secolo avesse compiuto la metamorfosi finale abbandonando ogni speranza corporea per definirsi definitivamente negli ammennicoli tecnologici di cui non mancano di circondarsi i baby-pensionati dell'universo ballardiano. Sia il dottor Vaughan che Bobby il tennista sono motori di distruzione, entrambi sono figure virali in un sistema malato, entrambi esercitano un fascino incontrovertibile sulla realtà che li circonda. Se gli esiti del loro agire sono diversi è perché nei vent'anni che separano le loro azioni la realtà su cui Ballard ha costantemente indagato (quella che un tempo era la borghesia benestante occidentale, il mostro in cui in parte ci siamo tutti trasformati) si è definitivamente opacizzata sintonizzandosi su quello che pare essere ormai un canale morto dell'evoluzione.
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07 maggio 2009
Rubacuori
Ne parlavo qualche giorno fa, ora con un po' di ritardo rispetto al previsto ecco finalmente Rubacuori, il cortometraggio che abbiamo presentato per l'edizione 2009 di 4 giorni corti.
Prima della proiezione due parole per presentare il concorso organizzato dal Nonantola Film Festival:
Il concorso 4 giorni corti consiste nel realizzare in 4 giorni di lavorazione un cortometraggio della durata massima di 4 minuti.
Il film deve contenere alcuni elementi obbligatori e rispettare il genere assegnato per sorteggio durante la serata di inizio gara.
Quest'anno tali elementi erano:
- un paio di guanti di lattice;
- un clessidra;
- la frase "dipende dai punti di vista".
Per noi è stato estratto il genere sentimentale
Ci risentiamo con qualche nota sul film al termine della visione. Buon divertimento!
I credits del corto, che nei quattro minuti del film non siamo riusciti a farci stare i titoli di coda:

E ora qualche considerazione sparsa:
- con grande rammarico dobbiamo confessare che nonostante la qualità del nostro film (!!!) non siamo riusciti a entrare in finale.
- soffocando la delusione siamo andati fino a Nonantola per assistere alla proiezione dei venti finalisti. Alla fine della serata ci siamo dovuti rassegnare all'idea che non avevamo alcuna speranza di vincere il concorso. (Wolfhound il film horror meritatamente vincitore è di una categoria decisamente superiore - a tutti i livelli - rispetto a tutti gli altri film in concorso, tolto forse uno).
- la qualità media dei finalisti non è comunque molto lontana da quella di Rubacuori. Vedere per credere.
- a nostro avviso i difetti fondamentali del nostro corto sono due: la qualità delle riprese e quella dell'audio. Per il resto, con tutti i nostri limiti, siamo rimasti piuttosto soddisfatti (considerate da dove partivamo!).
- non abbiamo nessuna intenzione di privare il mondo del nostro talento. Siete avvisati.
…
Prima della proiezione due parole per presentare il concorso organizzato dal Nonantola Film Festival:
Il concorso 4 giorni corti consiste nel realizzare in 4 giorni di lavorazione un cortometraggio della durata massima di 4 minuti.
Il film deve contenere alcuni elementi obbligatori e rispettare il genere assegnato per sorteggio durante la serata di inizio gara.
Quest'anno tali elementi erano:
- un paio di guanti di lattice;
- un clessidra;
- la frase "dipende dai punti di vista".
Per noi è stato estratto il genere sentimentale
Ci risentiamo con qualche nota sul film al termine della visione. Buon divertimento!
I credits del corto, che nei quattro minuti del film non siamo riusciti a farci stare i titoli di coda:

E ora qualche considerazione sparsa:
- con grande rammarico dobbiamo confessare che nonostante la qualità del nostro film (!!!) non siamo riusciti a entrare in finale.
- soffocando la delusione siamo andati fino a Nonantola per assistere alla proiezione dei venti finalisti. Alla fine della serata ci siamo dovuti rassegnare all'idea che non avevamo alcuna speranza di vincere il concorso. (Wolfhound il film horror meritatamente vincitore è di una categoria decisamente superiore - a tutti i livelli - rispetto a tutti gli altri film in concorso, tolto forse uno).
- la qualità media dei finalisti non è comunque molto lontana da quella di Rubacuori. Vedere per credere.
- a nostro avviso i difetti fondamentali del nostro corto sono due: la qualità delle riprese e quella dell'audio. Per il resto, con tutti i nostri limiti, siamo rimasti piuttosto soddisfatti (considerate da dove partivamo!).
- non abbiamo nessuna intenzione di privare il mondo del nostro talento. Siete avvisati.
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06 maggio 2009
Rapporto letture - Aprile 2009 - prima parte
Douglas R. Hofstadter - Anelli nell'io
Ci sono domande che a un certo punto smettiamo di porci. Chi c'è dentro la nostra testa? da dove arrivano i pensieri? cosa definisce la nostra identità? se pensassi in modo diverso sarei un'altra persona? etc etc…
Di solito queste sono domande che ci si pone quando si raggiunge la consapevolezza della barriera insormontabile che esiste tra noi stessi e il mondo. Poi si cresce e certi dubbi si lasciano in qualche antico e polveroso cassetto mentale, lasciando che a rispondervi (o almeno a provarci) ci pensino mistici, poeti, filosofi e scrittori di fantascienza, o, con un po' di fortuna, anche qualche scienziato.
Una dozzina d'anni fa Douglas Hofstadter ha illluminato il mio cammino con un'opera fondamentale, un volume che mi ha riavvicinato al piacere del pensiero astratto, alla gioia degli incroci tra arte e matematica, coscienza e letteratura, scienza e paradosso. Gödel, Escher, Bach Un'eterna ghirlanda brillante è uno di quei rari libri capaci da soli di dare un senso nuovo alla nostra esperienza del mondo. Anelli nell'io prosegue il percorso iniziato con quel volume, focalizzando questa volta il discorso in maniera più precisa e approfondita sui meccanismi della coscienza.
Il volume è affascinante per la ricchezza di esempi e la chiarezza di esposizione di Hofstadter, e se anche l'impatto sul lettore non è paragonabile a quello di GEB Anelli nell'io rimane un'ottima lettura, notevole - almeno per il sottoscritto - anche per la costante presenza di molte suggestioni ampiamente esplorate da molta della migliore fantascienza letta negli ultimi anni.
Walter Tevis - Lontano da casa
Lontano da casa è un compendio dell'opera di Walter Tevis.
In bilico tra la fascinazione più propriamente fantascientifica e l'eco fortemente autobiografico che lasciano alcuni racconti, le storie raccolte in questa antologia sono costantemente impegnate a tracciare i nebulosi confini tra emarginazione e conformismo. I protagonisti dei racconti di Tevis sono colti in momenti di solitaria autocommiserazione, spesso con un bicchiere in mano, ma non appaiono mai patetici, piuttosto vittime e complici di un sistema di valori che non comprendono ma che sono convinti vada rispettato. Che si muovano negli oscuri territori nei dintorni dell'incesto o tra le misteriose pieghe dello spazio tempo, gli uomini e le donne di questi racconti viaggiano costantemente con l'immagine di una malinconica apocalisse a dominare il loro panorama psichico, quasi un destino segnato che non li abbandona nemmeno quando un insolito lieto fine arriva a rasserenare gli animi.
Lontano da casa è un vecchio Urania che contiene la produzione breve di Walter Tevis. Non so quanto sia facile reperirlo, se vi capita sotto mano non lasciatevelo sfuggire.
Wu Ming 2 - Guerra agli umani
Divertente Guerra agli umani, un plot ottimamente costruito, personaggi ben delineati e struttura narrativa sufficientemente complessa da non risultare scontata.
Insomma, il romanzo di Wu Ming 2 ha tutti gli ingredienti dosati a meraviglia per piacere a lettore, tanto ben calibrati da rischiare di far risultare in qualche modo stucchevole l'intera operazione. A ben guardare c'è forse da chiedersi cos'ha di così innovativo e rivoluzionario l'approccio adottato da quest'incarrnazione solitaria del collettivo wuminghiano. Perché in Guerra agli umani abbiamo un protagonista che si fa serio portavoce di istanze tanto assurde da apparire ridicole (qualcuno per favore mi aiuti a capire se il troglodita ci è o se ci fa) e un romanzo fantascientifico che scorre parallelamente alla vicenda ed è totalmente fuori registro sia nei riguardi dell'immaginario che dovrebbe raffigurare sia nei confronti della trama che dovrebbe sottolineare?
Ciò che però ho trovato più sorprendente (e francamente irritante) è il sapore vetero-cristiano che domina tutto il romanzo, per cui tutti coloro che peccano verranno puniti in proporzione all'entità della colpa, la natura ottiene la giusta vendetta per lo scempio subito mentre il santo troglodita rimane impassibile e intoccato da qualsivoglia dubbio o conseguenza possa riguardarlo. Questo è il contenuto rivoluzionario che Wu Ming auspica e predica con la sua idea di letteratura?
Da uno degli autori di Q e di 54 mi aspettavo davvero qualcosa di più.
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Ci sono domande che a un certo punto smettiamo di porci. Chi c'è dentro la nostra testa? da dove arrivano i pensieri? cosa definisce la nostra identità? se pensassi in modo diverso sarei un'altra persona? etc etc…
Di solito queste sono domande che ci si pone quando si raggiunge la consapevolezza della barriera insormontabile che esiste tra noi stessi e il mondo. Poi si cresce e certi dubbi si lasciano in qualche antico e polveroso cassetto mentale, lasciando che a rispondervi (o almeno a provarci) ci pensino mistici, poeti, filosofi e scrittori di fantascienza, o, con un po' di fortuna, anche qualche scienziato.
Una dozzina d'anni fa Douglas Hofstadter ha illluminato il mio cammino con un'opera fondamentale, un volume che mi ha riavvicinato al piacere del pensiero astratto, alla gioia degli incroci tra arte e matematica, coscienza e letteratura, scienza e paradosso. Gödel, Escher, Bach Un'eterna ghirlanda brillante è uno di quei rari libri capaci da soli di dare un senso nuovo alla nostra esperienza del mondo. Anelli nell'io prosegue il percorso iniziato con quel volume, focalizzando questa volta il discorso in maniera più precisa e approfondita sui meccanismi della coscienza.
Il volume è affascinante per la ricchezza di esempi e la chiarezza di esposizione di Hofstadter, e se anche l'impatto sul lettore non è paragonabile a quello di GEB Anelli nell'io rimane un'ottima lettura, notevole - almeno per il sottoscritto - anche per la costante presenza di molte suggestioni ampiamente esplorate da molta della migliore fantascienza letta negli ultimi anni.
Walter Tevis - Lontano da casa
Lontano da casa è un compendio dell'opera di Walter Tevis.
In bilico tra la fascinazione più propriamente fantascientifica e l'eco fortemente autobiografico che lasciano alcuni racconti, le storie raccolte in questa antologia sono costantemente impegnate a tracciare i nebulosi confini tra emarginazione e conformismo. I protagonisti dei racconti di Tevis sono colti in momenti di solitaria autocommiserazione, spesso con un bicchiere in mano, ma non appaiono mai patetici, piuttosto vittime e complici di un sistema di valori che non comprendono ma che sono convinti vada rispettato. Che si muovano negli oscuri territori nei dintorni dell'incesto o tra le misteriose pieghe dello spazio tempo, gli uomini e le donne di questi racconti viaggiano costantemente con l'immagine di una malinconica apocalisse a dominare il loro panorama psichico, quasi un destino segnato che non li abbandona nemmeno quando un insolito lieto fine arriva a rasserenare gli animi.
Lontano da casa è un vecchio Urania che contiene la produzione breve di Walter Tevis. Non so quanto sia facile reperirlo, se vi capita sotto mano non lasciatevelo sfuggire.
Wu Ming 2 - Guerra agli umani
Divertente Guerra agli umani, un plot ottimamente costruito, personaggi ben delineati e struttura narrativa sufficientemente complessa da non risultare scontata.
Insomma, il romanzo di Wu Ming 2 ha tutti gli ingredienti dosati a meraviglia per piacere a lettore, tanto ben calibrati da rischiare di far risultare in qualche modo stucchevole l'intera operazione. A ben guardare c'è forse da chiedersi cos'ha di così innovativo e rivoluzionario l'approccio adottato da quest'incarrnazione solitaria del collettivo wuminghiano. Perché in Guerra agli umani abbiamo un protagonista che si fa serio portavoce di istanze tanto assurde da apparire ridicole (qualcuno per favore mi aiuti a capire se il troglodita ci è o se ci fa) e un romanzo fantascientifico che scorre parallelamente alla vicenda ed è totalmente fuori registro sia nei riguardi dell'immaginario che dovrebbe raffigurare sia nei confronti della trama che dovrebbe sottolineare?
Ciò che però ho trovato più sorprendente (e francamente irritante) è il sapore vetero-cristiano che domina tutto il romanzo, per cui tutti coloro che peccano verranno puniti in proporzione all'entità della colpa, la natura ottiene la giusta vendetta per lo scempio subito mentre il santo troglodita rimane impassibile e intoccato da qualsivoglia dubbio o conseguenza possa riguardarlo. Questo è il contenuto rivoluzionario che Wu Ming auspica e predica con la sua idea di letteratura?
Da uno degli autori di Q e di 54 mi aspettavo davvero qualcosa di più.
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04 maggio 2009
Annalisa Goes to Carpi
Il programma della serata prevede un incontro/intervista con l'artista gestito da Amanda Maselli e la proiezioni su maxi-schermo di una selezione di immagini realizzate da Annalisa e divisa in tre distinte sezioni:
- Stagioni. Uno sguardo colorato e non convenzionale sul trascorrere del tempo, sul cambiamento d'animo proprio del ciclo stagionale.
- Il mio nome è Nero. Fotografie elaborate quando l'umore è nero e non si riesce a vedere uno spiraglio di luce. Uno sfogo creativo per lasciare passare rabbia e insofferenza.
- Occhio non vede. Particolari di cose, angoli, porzioni di un insieme. Cose che spesso l’occhio non vede, ma che assumono significato e diventano protagoniste perché contestualizzate in un'inquadratura che le esalta.
L'appuntamento è per le 21.30 presso il Cortiletto Nord del Castello del Pio a Carpi.
Vi aspettiamo numerosi!
Gli incontri di "Destinazione Donna" proseguiranno il 12 e il 19 maggio e avranno per protagoniste Antonella Monzoni e Lorenza Viola Savarese.
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28 aprile 2009
4 giorni corti
Creare. Partire da un'idea vaga e vederla poi evolversi man mano che incontra esperienze diverse, diversi punti di vista. Trasformarla in racconto e poi provare a vederla attraverso una videocamera. Fare cinema insomma.
Questo è quello che abbiamo provato a fare quest'ultimo fine settimana. Ci siamo trovati in una decina di persone, tutte appassionate di cinema, tutte ansiose di provare per una volta a saltare dall'altra parte dello schermo. Tutti decisamente incoscienti di cosa voglia dire davvero realizzare un film. Dilettanti allo sbaraglio, certo, ma con un progetto e tutte le intenzioni di vederlo realizzato.
L'occasione si è presentata con la terza edizione del Nonantola Film Festival che anche quest'anno ha proposto 4 giorni corti, un concorso per cortometraggi di quattro minuti da realizzare in quattro giorni con genere del film e vincoli di messa in scena decisi dalla giuria.
Se nelle edizioni precedenti il sorteggio , almeno sulla carta, ci era stato propizio (fantascienza la prima volta, horror l'anno scorso), quest'anno le premesse non erano le migliori: alla nostra troupe è stato infatti abbinato il genere sentimentale, che non è certo il tipo di cinema che sentiamo più vicino. Ma ci siamo impegnati, abbiamo lavorato duro, e tra giovedì e domenica siamo riusciti a sfornare Rubacuori, un film sentimentale che ci ha lasciati decisamente soddisfatti.
Sulla qualità del cortometraggio non riesco a essere obiettivo. Per capire se siamo riusciti a fare un lavoro decente rimaniamo in attesa del riscontro della giuria (solo venti film tra tutti i partecipanti al concorso - e quest'anno gli iscritti erano 132 - verranno selezionati per la visione pubblica nella serata finale del festival) e del giudizio del pubblico (da lunedì il film sarà disponibile in rete).
L'unica cosa di cui siamo certi è che Rubacuori è decisamente il migliore dei nostri tentativi cinematografici (non che ci volesse molto!). Rispetto alle edizioni precedenti del concorso questa volta avevamo una sceneggiatura più solida, e nonostante la qualità delle riprese sia tutt'altro che eccelsa e che il nostro bagaglio tecnico lasci parecchio a desiderare, quest'anno in fase di montaggio siamo riusciti a costruire una storia di quattro minuti che avesse per lo meno un minimo di senso.
Comunque vada l'accoglienza del pubblico (tranquilli, siamo consapevoli che Rubacuori non è un capolavoro immortale) questi quattro giorni sono stati memorabili. L'esperienza di trovarsi con gli amici a giocare il grande gioco del cinema tutti insieme, sul serio, impegnandosi al 110% e riuscendo per giunta a realizzare un film, un vero film, in appena quattro giorni è stata davvero notevole.
Siamo stati bravi. E soprattutto ci è rimasta la voglia di riprovarci.
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Questo è quello che abbiamo provato a fare quest'ultimo fine settimana. Ci siamo trovati in una decina di persone, tutte appassionate di cinema, tutte ansiose di provare per una volta a saltare dall'altra parte dello schermo. Tutti decisamente incoscienti di cosa voglia dire davvero realizzare un film. Dilettanti allo sbaraglio, certo, ma con un progetto e tutte le intenzioni di vederlo realizzato.
L'occasione si è presentata con la terza edizione del Nonantola Film Festival che anche quest'anno ha proposto 4 giorni corti, un concorso per cortometraggi di quattro minuti da realizzare in quattro giorni con genere del film e vincoli di messa in scena decisi dalla giuria.
Se nelle edizioni precedenti il sorteggio , almeno sulla carta, ci era stato propizio (fantascienza la prima volta, horror l'anno scorso), quest'anno le premesse non erano le migliori: alla nostra troupe è stato infatti abbinato il genere sentimentale, che non è certo il tipo di cinema che sentiamo più vicino. Ma ci siamo impegnati, abbiamo lavorato duro, e tra giovedì e domenica siamo riusciti a sfornare Rubacuori, un film sentimentale che ci ha lasciati decisamente soddisfatti.
Sulla qualità del cortometraggio non riesco a essere obiettivo. Per capire se siamo riusciti a fare un lavoro decente rimaniamo in attesa del riscontro della giuria (solo venti film tra tutti i partecipanti al concorso - e quest'anno gli iscritti erano 132 - verranno selezionati per la visione pubblica nella serata finale del festival) e del giudizio del pubblico (da lunedì il film sarà disponibile in rete).
L'unica cosa di cui siamo certi è che Rubacuori è decisamente il migliore dei nostri tentativi cinematografici (non che ci volesse molto!). Rispetto alle edizioni precedenti del concorso questa volta avevamo una sceneggiatura più solida, e nonostante la qualità delle riprese sia tutt'altro che eccelsa e che il nostro bagaglio tecnico lasci parecchio a desiderare, quest'anno in fase di montaggio siamo riusciti a costruire una storia di quattro minuti che avesse per lo meno un minimo di senso.
Comunque vada l'accoglienza del pubblico (tranquilli, siamo consapevoli che Rubacuori non è un capolavoro immortale) questi quattro giorni sono stati memorabili. L'esperienza di trovarsi con gli amici a giocare il grande gioco del cinema tutti insieme, sul serio, impegnandosi al 110% e riuscendo per giunta a realizzare un film, un vero film, in appena quattro giorni è stata davvero notevole.
Siamo stati bravi. E soprattutto ci è rimasta la voglia di riprovarci.
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20 aprile 2009
JGB - In Memoriam
Ci sono immagini impresse indelebilmente nella coscienza, pattern cognitivi che attivano inevitabilmente le particelle ballardiane sospese nel mio spazio interno.
Anticorpi che permettono di sopravvivere agli ingorghi autostradali, al culto delle celebrità mediatiche, all'espropriazione della personalità da parte delle periferie urbane, delle comunità chiuse, degli aeroporti.
Ballard è un costrutto mentale ormai solidificato, e la sua presenza persisterà per molto tempo nel mio personale orizzonte psichico, nonostante da ieri lui non sia più fisicamente tra noi.
La scoperta di Ballard ha rappresentato l'irrompere inconsulto e incontrollabile della realtà nel mio immaginario di lettore di fantascienza
J. G. Ballard è stato il primo scrittore di fantascienza che mi ha fatto scorgere una possibilità di espressione più adulta, matura e consapevole all'interno del genere. Il primo capace di inquietarmi con la suggestione di uno spazio interno altrettanto misterioso, esplorabile e sorprendente del grande vuoto la fuori. Il primo capace di trasformare l'apocalisse fisica in un'epifania mentale.
James Graham Ballard è rimasto un autore unico nel panorama letterario mondiale. Una figura di riferimento sia per quella fantascienza che nutra ancora l'ambizione di esplorare il reale, sia per quegli autori che non si accontentano di raccontare il mondo ma che lo rigenerano ogni volta che si mettono all'opera (non riesco a immaginare L'arcobaleno della gravità senza un Ballard a fare da apripista, ma più in generale credo che tutta la letteratura post post moderna abbia più di un debito con l'autore inglese - penso a Lethem, penso a Wallace, ma l'elenco è lungo).
Ballard se n'è andato, le sue visioni rimangono. Teniamocele strette, che le sue mappe psichiche ci sono ancora indispensabili per orientarci nel deserto che si apre fuori dai nostri televisori, nello spazio infinito tra la coscienza dell'incidente e la realtà dello scontro, nel tempo incosciente che dovremo attraversare.
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Anticorpi che permettono di sopravvivere agli ingorghi autostradali, al culto delle celebrità mediatiche, all'espropriazione della personalità da parte delle periferie urbane, delle comunità chiuse, degli aeroporti.
Ballard è un costrutto mentale ormai solidificato, e la sua presenza persisterà per molto tempo nel mio personale orizzonte psichico, nonostante da ieri lui non sia più fisicamente tra noi.
La scoperta di Ballard ha rappresentato l'irrompere inconsulto e incontrollabile della realtà nel mio immaginario di lettore di fantascienza
J. G. Ballard è stato il primo scrittore di fantascienza che mi ha fatto scorgere una possibilità di espressione più adulta, matura e consapevole all'interno del genere. Il primo capace di inquietarmi con la suggestione di uno spazio interno altrettanto misterioso, esplorabile e sorprendente del grande vuoto la fuori. Il primo capace di trasformare l'apocalisse fisica in un'epifania mentale.
James Graham Ballard è rimasto un autore unico nel panorama letterario mondiale. Una figura di riferimento sia per quella fantascienza che nutra ancora l'ambizione di esplorare il reale, sia per quegli autori che non si accontentano di raccontare il mondo ma che lo rigenerano ogni volta che si mettono all'opera (non riesco a immaginare L'arcobaleno della gravità senza un Ballard a fare da apripista, ma più in generale credo che tutta la letteratura post post moderna abbia più di un debito con l'autore inglese - penso a Lethem, penso a Wallace, ma l'elenco è lungo).
Ballard se n'è andato, le sue visioni rimangono. Teniamocele strette, che le sue mappe psichiche ci sono ancora indispensabili per orientarci nel deserto che si apre fuori dai nostri televisori, nello spazio infinito tra la coscienza dell'incidente e la realtà dello scontro, nel tempo incosciente che dovremo attraversare.
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