16 giugno 2011

"Non sono gli anni, …"



"…sono i chilometri."
mmm… per quanto io rispetti la parola di Indy, inizio ad avere un'età per cui sì, certo, l'esperienza, i chilometri, contano un sacco, ma anche gli anni sul groppone iniziano a farsi sentire.
Voglio dire, io ho giocato sabato, però ancora lunedì avevo gambe dure e schiena a pezzi, vorrà pur dir qualcosa, no?
E a me è andata bene, son riuscito a tornare a casa sulle mie gambe.
Questa volta infatti la trasferta in terra straniera per il III Prague Old Ham non è andata nel migliore dei modi per la nostra squadra. La sfiga sembra essersi accanita contro di noi, tanto che, nel giro di dieci minuti di gioco, durante la seconda partita del torneo, due mie compagni, due amici, son finiti all'ospedale.
Certo, giocando a rugby la possibilità di un infortunio va messa in preventivo, ma anche a sentire i giocatori più esperti, gente che è trent'anni che gioca a rugby, una serie così sfortunata di eventi è davvero rarissima. Sfiga, appunto. Tra ieri e l'altro ieri i nostri compagni sono tornati entrambi a Modena. Non si sa ancora per quanto ne avranno tra ricovero e riabilitazione, di certo con il rugby per un po' hanno chiuso.

Nella sfortuna del momento ho potuto ancora una volta apprezzare quello che è poi la qualità principale di questo sport. Il sostegno agli amici, la solidarietà che non è mai solo verbale ma pratica, attiva e tangibile, la vicinanza e il farsi in quattro per risolvere tutti quei problemi logistici che una situazione d'emergenza come quella venutasi a creare ha comportato. Anche perché, e questa è la nota più dolente di tutta la trasferta, nessun supporto è arrivata dall'organizzazione del torneo cui abbiamo partecipato. Una volta caricati i nostri amici sull'ambulanza, tutto il resto è stato lasciato a noi. (unica eccezione Tereza, una delle due ragazze che, parlando ceco e inglese, ci facilitavano le comunicazioni e ci accompagnavano nei nostri spostamenti. Tereza ci ha affiancato fino a sera nella difficile gestione del rapporto con medici e infermieri all'ospedale e per questo s'è guadagnata tutta la nostra gratitudine.)
Certo, dal punto di vista organizzativo il club ceco che ha messo in piedi l'evento non ha nulla di cui rimproverarsi. Quello che è mancato è stato il cuore: la voglia e la capacità di partecipare a quella che poteva essere un'occasione d'incontro, una festa, e invece s'è limitato ad essere un semplice torneo. (Un paio di esempi: dopo quel che è successo nessun giocatore ceco ha chiesto notizie sulla situazione o sullo stato di salute degli avversari infortunati. E ancora: durante il terzo tempo ricordo con piacere la festa delle squadre francesi e italiane e quei pazzi degli inglesi, le quattro squadre locali son praticamente scomparse… Chi frequenta il rugby sa quanto questi comportamenti siano poco affini a quello spirito che contraddistingue questo sport, soprattutto nella sua versione old.)
Tant'è. Ma, a parte tutto, io in campo mi son comunque divertito. Soprattutto durante la terza partita giocata sotto la pioggia contro la squadra inglese del St. Bernadette di Bristol e vinta dal Modena per due mete a una.

Per la cronaca il torneo è stato vinto dalla locale squadra dei Praga Old Boys che ha sconfitto i francesi del Ruines de Cayac per una meta a zero (da notare che i cechi han giocato quasi tutto il primo tempo in sedici, senza che l'arbitro se ne avvedesse…).

Detto del rugby, mi rimane da riportare l'impressione turistica lasciata dalla città di Praga. Ne riparliamo nel prossimo post.

Ah… dimenticavo, le foto!
Le foto arriveranno non appena troverò il tempo per sistemarle, che mannaggia a me, son più di mille…
(Quella su in alto l'ha scattata Ucco, tra il primo e secondo tempo della partita con il St. Bernadette.)

Stay tuned!

08 giugno 2011

Rugby a Praga

Domani sera parto per Praga con la squadra dei Modena Rugby Veterans. Andiamo in Cechia per partecipare al Terzo Old Prague Ham.
Si va a giocare a rugby, con tutto quel che comporta di contorno, ma dovremmo avere anche un po' di tempo per fare i turisti.

Per quanto ne abbia sempre sentito parlar bene, io non sono mai stato a Praga. Quindi fatevi avanti, signore e signori, e ditemi cosa c'è da quelle parti di assolutamente imperdibile. Che sia da visitare o da assaggiare, da esplorare o da ascoltare, se avete qualche consiglio sono tutti benvenuti!
Grazie!

07 giugno 2011

Tree of Life


Immagine caricata da bswise.

Considerando Giobbe quale nume tutelare dell'opera, credo proprio che Shit happens sarebbe stato il sottotitolo ideale per Tree of Life. Il film di Terrence Malick non concede però nulla al suo pubblico e un simile sottotitolo avrebbe avuto tutta l'apparenza di una strizzatina d'occhio, un tocco di postmoderna ironia col potenziale distruttivo di uno slogan fuori contesto. Tree of Life è infatti un film serissimo, pesante come una lezione di religione, sopraffacente per il suo carico simbolico, magnifico per la capacità di scardinare le aspettative di un pubblico che inizia la visione con ancora negli occhi il trailer di Transformer 3.

Tree of Life è bellissimo, le immagini sono meravigliose, la colonna sonora stupefacente. Malick ha in mano un telecomando divino con cui saltare dal canale del National Geographic a uno speciale sulla nuova architettura, a un film (ehi! davvero!) di Terrence Malick ambientato negli anni '50. Il tutto con tempi perfetti, suoni perfetti, e, meraviglia dopo meraviglia, sguardo perfetto.

Bisogna essere nella giusta disposizione d'animo per godersi un film come Tree of Life. Bisogna crederci, probabilmente.
Malick parte in un modo che non lascia dubbi sul contesto in cui si muoverà: il mondo, l'universo, la vita, funzionano così, prendere o lasciare. È come la dicotomia western dell'uomo con la pistola carica e di quello che scava. Alternative non paiono esserci. Punto. Sì parla di Dio, mica bruscolini.
E un dio come quello di Malick, per quanto indifferente, è maledettamente ingombrante, specie per chi non sente nessuna esigenza di divinità, nessun bisogno di spiegazioni esterne, nessuna necessità di un quadro più ampio. Per me dire "la vita non ha senso" è quanto di più liberatorio si possa esprimere riguardo al mistero che ci circonda, e vedessi proiettare per le due ore e rotti di Tree of Life la parabola, al contempo spietata e consolatoria, del dio americano di Malick è quasi intollerabile.
Quasi.
Perché Malick non è un predicatore, e per quanto il suo film sia ricolmo di ogni bendiddio, la sua maestria gli permette di colpire anche lo spettatore senza senso del divino e la sua umiltà rifugge da ogni retorica.

In effetti se accantoniamo per un attimo il problema della presenza di Dio in Tree of Life rimangono ancora un sacco di cose da guardare, su cui riflettere, da meditare.
C'è la memoria, la famiglia e il ricordo dell'infanzia. Vale a dire la storia di Jack, primogenito della famiglia O'Brien su cui si riversano inarrestabili i sogni di riscatto del padre e l'amore silenzioso della madre. In questa storia, montata per scatti ed episodi, c'è più di un momento in cui pare di essere piombati nel diario personale di un vecchio signore tutto preso a riconsiderare il percorso di una vita. Questa visione oltremodo personale riunisce insieme la mancanza di una storia lineare con l'evidente partecipazione al destino della famiglia O'Brien. È un cinema che getta ponti e cerca contatti con il percorso dello spettatore, che inevitabilmente cerca similitudini e differenze ma che, per la sua stessa natura personale, risulta sempre monco, incompleto. Se non fosse per lo straordinario mestiere di Malick nel creare tensione col semplice uso di macchina e montaggio, con pochissime parole, con gli sguardi e i silenzi dei suoi protagonisti, con il continuo controcanto tra uomini e natura, credo che a metà film ce ne saremmo andati, che la vita quotidiana nella provincia cristiana non è proprio spettacolo così eccitante.

Alla riflessione sul percorso di formazione personale, legato a doppio filo con l'educazione cristiana che domina la vita familiare dei protagonisti, si sovrappone la ricerca di una risposta al mistero dell'esistenza, che non si riduce a un semplice e consolante fideismo ma si arricchisce di un meraviglioso excursus sull'origine e l'evoluzione della vita sul pianeta. La porzione documentaristica della pellicola - non saprei come meglio definirla - è straordinaria per l'impatto delle immagini, e fornisce un grandioso accompagnamento in levare alla visione religiosa altrimenti intollerabile che plasma e forma il contesto metafisico del film (ehi! ci sono perfino i dinosauri!).
(Non so se a qualcun altro ha fatto lo stesso effetto, a me quella porzione di film è parsa una risposta, altrettanto potente e allucinatoria, al viaggio finale di Bowman in 2001: Odissea nello spazio. E quando ho visto il nome di Douglas Trumbull nei titoli di coda, beh… non m'è parso così strano. Ma forse son io che sono tarato.)

A chiudere il cerchio e sintetizzare in un finale la storia di Jack, quella della sua famiglia, il percorso religioso e quello sulla memoria ecco di nuovo Jack, adulto e realizzato, interpretato da Sean Penn con la sua migliore faccia da lottatore stanco. Il Jack adulto sembra aver scelto la fuga dalla natura che ha accompagnato la sua infanzia per rifugiarsi in una fortezza della solitudine fatta di vetro e acciaio, bellissima e freddissima. Ma Jack ricorda, e nel suo ricongiungersi con il fratello, con la famiglia e con tutti gli altri abitanti della sua memoria su quella spiaggia, a metà strada tra immaginazione e paradiso, cerca un'impossibile sintesi tra religione e razionalità, lasciandosi sopraffare dalle emozioni.

Tree of Life è un film difficile da mandar giù, forse per i richiami profondi alla mia storia personale, che nonostante i percorsi divergenti ed esiti parecchio diversi da quelli proposti da Malick, non può evitare di risuonare al tocco di più di una corda sensibile (anche se questo potrebbe semplicemente voler dire che sono ormai vecchio abbastanza per commuovermi al ricordo melanconico del tempo passato). O forse Tree of Life è uno di quei rari film che ti piglia per esasperazione, che è troppo bello per lasciarti indifferente nonostante l'intollerabile sentenziosità di alcuni momenti. Tree of Life è perturbante e malinconico, misterioso e meraviglioso. Distante, eppure così vicino.
Comunque la si pensi, io dico grazie a Terrence Malick, che è riuscito a scuotermi di dosso noia e disincanto e mi ha fatto spalancare gli occhi, di nuovo, con il suo cinema.

31 maggio 2011

Letture. Fantascienza che fu: Cantata spaziale, di Raphael A. Lafferty


Foto di Iguana Jo.

Ho ripreso in mano un libro di Raphael A. Lafferty parecchi anni dopo l'ultima volta, in seguito alla discussione nata in calce al post che Elvezio Sciallis ha dedicato a Thomas Disch (per capire come da quest'ultimo si sia arrivati a Lafferty… beh, lascio al passante curioso il piacere della scoperta. …e sì, ho poi letto anche Gomorra e dintorni, ma se ne riparla tra qualche tempo).

Sebbene Raphael A. Lafferty non sia uno di quegli scrittori popolari che piacciono a grandi e piccini, la sua originalità e il suo talento compositivo sono fuori discussione. La scrittura di Lafferty è di quelle che sgomitano e spingono per farsi notare, tanto appare più esuberante e complessa rispetto a quella di tanti suoi colleghi contemporanei. Per lo stesso motivo il suo nome è più conosciuto tra chi frequenta le zone più esterne della galassia fantascientifica che non tra i fan dell'avventura spaziale tout court.

Detto questo tocca però aggiungere che a me Raphael A. Lafferty non ha mai entusiasmato. Certo, ha scritto racconti notevoli e i suoi testi si leggono comunque volentieri, ma ho sempre trovato il suo approccio al genere un po' troppo freddo e concettuale per i miei gusti.
Vedi per esempio questo Cantata Spaziale.
Il romanzo d'esordio di Lafferty, pubblicato nel 1968, offre al lettore una riscrittura in chiave yankee delle avventure di Ulisse nel suo viaggio verso casa. Se la preparazione letteraria di Lafferty è fuori discussione, e i riferimenti omerici gustosi, il suo svuotare l'Odissea di ogni contenuto epico, per attualizzarla e riportarla nei territori della fantascienza popolare, non mi ha convinto a causa della distanza che costantemente separa il lettore da avvenimenti e personaggi. La mia incapacità di partecipare e divertirmi alle imprese del capitano Roadstrum e della sua ciurma, in costante e meccanica progressione da un ostacolo all'altro, in una galassia che pare una succursale di Disneyland per quanto artefatta e artificiale appare, è sintomatica della mia mancanza di sintonia con la scrittura di Lafferty più ancora che con il tema del romanzo. (Del resto Silverlock di John Myers Myers, che è un romanzo che si muove negli stessi ambiti di riscoperta e riscrittura dei miti letterari occidentali mi aveva invece lasciato decisamente soddisfatto.)
Nella scrittura di Lafferty si percepisce forte il divertimento dell'autore e lo sforzo di svuotare di ogni seriosità il testo, ma con lo scorrere fluido e scanzonato dell'avventura quel che rimane al lettore è un senso di vacuità che risulta in qualche modo fuori registro in una storia che nel suo mantenersi costantemente sopra le righe dovrebbe risultare decisamente più sanguigna e dirompente. Nel corso della lettura di Cantata Spaziale capita di sorridere, ma si fa davvero fatica ad appassionarsi e da un autore osannato come Raphael A. Lafferty mi aspettavo qualcosina di più.

30 maggio 2011

The Revolution Will Not Be Televised

Ho scoperto solo ora che venerdì scorso è scomparso Gil Scott Heron.

Questa è per ricordarlo:




You will not be able to stay home, brother.
You will not be able to plug in, turn on and cop out.
You will not be able to lose yourself on skag and skip,
Skip out for beer during commercials,
Because the revolution will not be televised.

The revolution will not be televised.
The revolution will not be brought to you by Xerox
In 4 parts without commercial interruptions.
The revolution will not show you pictures of Nixon
blowing a bugle and leading a charge by John
Mitchell, General Abrams and Spiro Agnew to eat
hog maws confiscated from a Harlem sanctuary.
The revolution will not be televised.

The revolution will not be brought to you by the
Schaefer Award Theatre and will not star Natalie
Woods and Steve McQueen or Bullwinkle and Julia.
The revolution will not give your mouth sex appeal.
The revolution will not get rid of the nubs.
The revolution will not make you look five pounds
thinner, because the revolution will not be televised, Brother.

There will be no pictures of you and Willie May
pushing that shopping cart down the block on the dead run,
or trying to slide that color television into a stolen ambulance.
NBC will not be able predict the winner at 8:32
or report from 29 districts.
The revolution will not be televised.

There will be no pictures of pigs shooting down
brothers in the instant replay.
There will be no pictures of pigs shooting down
brothers in the instant replay.
There will be no pictures of Whitney Young being
run out of Harlem on a rail with a brand new process.
There will be no slow motion or still life of Roy
Wilkens strolling through Watts in a Red, Black and
Green liberation jumpsuit that he had been saving
For just the proper occasion.

Green Acres, The Beverly Hillbillies, and Hooterville
Junction will no longer be so damned relevant, and
women will not care if Dick finally gets down with
Jane on Search for Tomorrow because Black people
will be in the street looking for a brighter day.
The revolution will not be televised.

There will be no highlights on the eleven o'clock
news and no pictures of hairy armed women
liberationists and Jackie Onassis blowing her nose.
The theme song will not be written by Jim Webb,
Francis Scott Key, nor sung by Glen Campbell, Tom
Jones, Johnny Cash, Englebert Humperdink, or the Rare Earth.
The revolution will not be televised.

The revolution will not be right back after a message
bbout a white tornado, white lightning, or white people.
You will not have to worry about a dove in your
bedroom, a tiger in your tank, or the giant in your toilet bowl.
The revolution will not go better with Coke.
The revolution will not fight the germs that may cause bad breath.
The revolution will put you in the driver's seat.

The revolution will not be televised, will not be televised,
will not be televised, will not be televised.
The revolution will be no re-run brothers;
The revolution will be live.


Gil Scott Heron (1949-2011) R.I.P.

26 maggio 2011

Nel frattempo, in giro per la rete…


Foto di Iguana Jo.

Vi segnalo un paio di iniziative nate in rete negli ultimi tempi che mi sembrano molto interessanti vuoi per l'approccio adottato dai relativi promotori, vuoi per l'entusiasmo che son state capace di suscitare.

Mi riferisco all'esperimento di scrittura collettiva nato su Strategie evolutive che sta per vedere la luce su un blog dedicato (qui il primo passo, il secondo e il terzo… e sì, nel caso ve lo steste chiedendo potrei arrivare fino al dodicesimo, ma, ehi!… c'è tempo!).
Il titolo del progetto è Sick Building Syndrome. Il racconto a più mani partirà nei prossimi giorni per poi proseguire per tutta l'estate.
Io non scrivo narrativa, ma l'entusiasmo e la leggerezza (non saprei come meglio definire quel misto di "facciamo le cose seriamente senza prenderci troppo sul serio" e di giocosità che circonda l'iniziativa) del progetto mi hanno coinvolto. Vedremo come andrà a finire…

L'altra segnalazione è per la GeLotteria che Gelo Stellato si è inventato sul suo blog. Le regole del gioco sono semplicissime: chi decide di iscriversi mette in palio un libro che insieme ai libri degli altri partecipanti verrà estratto a sorte e quindi spedito al fortunato vincitore.
Un'idea semplice e geniale che per funzionare ha solo bisogno della disponibilità dei partecipanti a rispettare l'impegno di farsi un giretto in posta per spedire il libro GeLotterizzato.
Io ho messo in palio una strana coppia di libri: L'uomo a rovescio di Fred Vargas e L'inferno degli specchi di Edogawa Ranpo.
Per iscriversi c'è tempo fino al 31 maggio.

A queste due segnalazioni aggiungo anche il mini-concorso per la copertina del volume Ucronie Impure indetto da Alex McNab Girola nel suo blog sull'orlo del mondo.
Io partecipo con una copertina meravigliosa (ovviamente!) che però non vi posso far vedere per non influenzare la scelta popolare.
Se volete contribuire con una vostra proposta dovreste avere ancora qualche giorno di tempo.

23 maggio 2011

Letture: Angeli spezzati, di Richard K. Morgan


Foto di Iguana Jo.

Prendete uno scenario di guerra planetaria, una galassia governata da megacorporazioni, eserciti privati a gogò e una rivoluzione che segna il passo. Aggiungete i marziani (no, non sto scherzando!) e la caccia a un misterioso artefatto alieno. Frullate il tutto con un plot avvincente e guarnite con il protagonista più figo dell'universo. Il risultato sarà un ritratto plausibile di Angeli spezzati.

Con queste premesse ci sono tutti gli estremi per una lettura godibile, ma è difficile pensare che un romanzo simile valga più di qualche ora di divertimento. E invece…

Richard K. Morgan non si limita a sfiorare la superficie delle cose, non distoglie lo sguardo dagli aspetti più scomodi che la sua ambientazione si porta dietro, e nonostante tutto va dritto come un treno, non rallentando mai, nemmeno per un secondo, il ritmo dell'azione.
Grazie a una scrittura calibrata al millimetro riesce a infondere al suo romanzo una profondità inusuale per il tipo di narrazione adottata. È vero, in Angeli spezzati ci sono marziani, esplosioni atomiche, portali stellari e tute potenziate, ma il fuoco della vicenda è costantemente puntato sull'umanità dei protagonisti, sul realismo con cui sono rese le loro reazioni di fronte alla brutalità delle circostanze. Nel corso della lettura non è affatto difficile immaginare scenari molto più vicini all'esperienza del lettore, tanto per l'ambiguità morale dei personaggi, quanto per il clima da conflitto permanente che permea costantemente il romanzo.

Angeli spezzati è il secondo romanzo di Richard K. Morgan che racconta le gesta di Takeshi Kovacs, mercenario potenziato, abitatore di molti corpi, passato ingombrante ed esperienza da vendere.
Takeshi Kovacs è il protagonista perfetto, memorabile come pochi altri personaggi (penso all'uomo conosciuto come Zakalwe, penso ad Ashraf Bey, ma penso anche - soprattutto? - al padre putativo di questo cavaliere futuristico con più di un'ombra ad infangare una corazza perennemente lisa: quel Philip Marlowe di cui Takeshi Kovacs è a tutti gli effetti una versione fantascientifica).
Ho conosciuto Takeshi Kovacs in Bay City (innocuo titolo italiano affibbiato al ben più significativo Altered Carbon). Quel romanzo, esordio narrativo di Morgan, mi era piaciuto per il brillante setting fantascientifico di una storia dal forte sapore nostalgico, caratteristica che però era anche il più grosso limite del volume. Dal mio punto di vista infatti Bay City era troppo legato all'immaginario noir di derivazione chandleriana per brillare di luce propria, e per quanto questa sorta di riscrittura fantascientifica de Il grande sonno sia oltremodo godibile, non mi aveva entusiasmato. Pur con tutti i limiti del romanzo Takeshi Kovacs si faceva però ricordare.

Son passati gli anni. Quando circa cinque anni fa è uscita la versione italiana di Angeli spezzati, tradotta, come il resto della produzione di Morgan, da Vittorio Curtoni, il prezzo del volume, unito al ricordo del romanzo precedente, mi hanno tenuto lontano dall'acquisto. Un paio d'anni dopo era stata annunciata l'edizione economica del romanzo, e già me lo pregustavo. Poi qualcosa dev'essere andato storto, perché se sono stati pubblicati altre due traduzioni di romanzi di Morgan, de l'edizione economica di Angeli spezzati si sono perse le tracce. Nel frattempo è arrivata Amazon, che per assaltare il mercato nostrano ha attuato una politica di sconti molto aggressiva, Il risultato immediato è che mi son finalmente portato a casa tutti i romanzi di Morgan editi in italiano ad un prezzo accettabile.

Ritrovare Kovacs è stato un piacere. Piacere ancora maggiore riscoprirlo alle prese con una vicenda che lo smarca completamente dal background noir del primo romanzo per calarlo in uno scenario che più fantascientifico di così fai fatica.
Il godimento è arrivato poi ai massimi livelli quando mi son reso conto della maestria di Richard K. Morgan nel condurre la sua storia in porto. Quel che nelle mani di un autore meno dotato si sarebbe risolto in una sequela di momenti infodumpeschi intervallati da esplosioni d'azione, viene invece gestito in modo estremamente talentuoso dall'autore inglese, che pur limitando il punto di vista a quello del suo protagonista (tutto il romanzo è narrato in prima persona) riesce a offrire al lettore un quadro magnifico sia del background storico/galattico che di quello fanta/tecnologico in cui si muove Kovacs, all'interno di una vicenda in cui non si lesinano colpi di scena, riflessioni politiche, problematiche etico/morali. In altre parole, Angeli spezzati è la fantascienza che preferisco al meglio delle sue potenzialità.

Mi sono spesso lamentato della mancanza di testi fantascientifici di qualche interesse nelle librerie nostrane. Di come il meglio di quanto prodotto all'estero faccia fatica ad arrivare sui nostri scaffali. Non so quale strano destino editoriale abbia portato alla traduzione dei romanzi di Morgan, ma quale che sia il motivo rimane il fatto che Angeli spezzati rappresenti al momento quanto di meglio è dato di leggere in italiano in ambito fantascientifico. Sappiatelo.

18 maggio 2011

Festival Internazionale Rugby Old a Villorba

Nell'attesa di riprendere la normale programmazione del blog (ahahah!) ecco quel che ho fatto nel fine settimana:













Sono parecchio orgoglioso di 'ste foto, ma ancor di più della nostra partecipazione al torneo di Villorba (ehi, stavo per fare la mia prima meta!). Abbiamo giocato un gran bel rugby e credo che da quelle parti si ricorderanno anche del nostro terzo tempo.

Altre foto della giornata le potete trovare qui.

10 maggio 2011

Che fine ha fatto Sean Fentress?

C'è una domanda rimasta senza risposta alla fine di Source Code.

Quel riflesso finale nel Fagiolo di Chicago è il suggello definitivo alle vicissitudini del capitano Colter Stevens. A quel punto è però lecito chiedersi dove sia finito Sean Fentress: è lì, certo. Ma siamo sicuri ci sia davvero?

Prima di proseguire è meglio avvertire i passanti che le note qui di seguito conterranno inevitabilmente qualche spoiler su quanto succede nel film. Se non avete ancora visto Source Code vi consiglio di interrompere la lettura e tornare magari dopo la visione, altrimenti potete sempre dare un'occhiata al post precedente.



Source Code è un film meraviglioso per come riesce ad integrare concetti complessi derivati dalla fisica quantistica (e poco importa se questi siano veri e dimostrabili*, quel che conta è che siano narrativamente efficaci) ad un plot appassionante. Quando tutti gli ingranaggi fanno clic, quando alla fine del film ti rendi conto che sì, quel che sospetti è vero, a ogni riavvio del bioware denominato Suorce Code si crea un nuovo universo, beh… ripensi a quel che hai visto e ti rendi conto dell'abilità (e della furbizia) di regista e sceneggiatori. Le unità di otto minuti in cui è strutturata l'azione non sono l'inizio e la fine della realtà virtuale vissuta da Colter Stevens, quanto piuttosto possibilità di nuove realtà - opportunamente mascherate da esplosioni e morti ben calibrate - che sbocciano da ogni variazione nella sequenza temporale di fatti e reazioni.
(* Il substrato teorico è comunque consistente. Vedi per esempio la pagina di Wikipedia dedicata al Multiverso.).

Trovare parenti illustri a questo tipo di narrazione è un giochino divertente. C'è chi, al solito, ci vede il fantasma di Dick (a me pare improbabile, vuoi per motivi anagrafici: Duncan Jones ha quarant'anni, l'età giusta per essere cresciuto a pane e cyberpunk, vuoi proprio per le tematiche affrontate dal film). Io tendo a vederci Egan ad ogni pié sospinto (e in effetti la reazione del pubblico generalista a un film del genere è simile a quella di molti lettori non avvezzi alla fantascienza dopo aver provato l'autore australiano), con un'attenzione a motivazioni e umanità dei personaggi che mi piace associare ad altri autori che leggo sempre volentieri (tipo Ian McDonald, tanto per non fare nomi).
In effetti uno degli aspetti migliori del film di Duncan Jones sta nella sua capacità di infondere personalità a personaggi che a primo acchito paiono provenire dritti dritti dalla fabbrica dei cliché. Dal veterano della guerra afgana, alla fanciulla sul treno, dall'ufficiale addetta all'interfaccia, allo scienziato zoppicante, fino al terrorista misterioso. Esclusi i protagonisti ognuno di questi personaggi ha pochissimi istanti per farsi conoscere e ricordare e per assolvere a una qualche funzione narrativa superiore, ma tutti rimangono impressi nella memoria: l'ufficiale per come si convince a mettere avanti l'umanità residua del capitano rispetto alla sua funzione codificata, lo scienziato per come rappresenta la scienza tutta utilità, nessuna coscienza; il terrorista, esemplare ed inquietante esempio di nerd come potenziale nemico interno.

Source Code è ricchissimo di questi sottotesti (i pregiudizi smascherati; scelta individuale vs bene collettivo; la ricorsività che da incubo si trasforma in speranza; la negazione dell'effetto videogame, con la morte che non smette mai di far male) a volta appena accennati, altre volte sottolineati per poi essere smentiti, o pronti a rincorrersi a vicenda per poi diventare dominanti. Come ad esempio diviene fondamentale nell'economia della vicenda il rapporto tra il capitano Colter Stevens, nelle vesti del pendolare Sean Fentress, con la sua compagna di viaggio.
Jones si dimostra molto abile nel passo scelto per la progressione della loro relazione. Relazione che ha tutta l'aria dell'obbligatoria storia d'amore, canonica per ogni action movie che si rispetti, ma che qui ha invece il compito di portare il protagonista a quella scelta, e alla conseguente scoperta, che si rivelerà definitiva per il destino del suo personaggio, regalando nel frattempo allo spettatore momenti di squisita dolcezza (quel fermo immagine, accidenti!).

Ma preferisco fermarmi qui, che per quanto sia divertente mettersi ad esplorare le dinamiche sotterranee di un film, arriva sempre il momento chiedersi se e quanto di quel che si è percepito al cinema sia frutto del lavoro degli autori o se invece la nostra visione rispecchi invece i nostri desideri e la nostra esperienza. Col rischio di arrivare a porsi una domanda come quella iniziale che fa ripartire da capo tutto il ragionamento.
Che fine ha fatto Sean Fentress?

09 maggio 2011

Source Code


Vi avverto subito. La tentazione di definire capolavoro Source Code è fortissima, che a caldo, l'ho visto sabato, mi verrebbe da citare il film di Duncan Jones come il miglior esempio di cinema fantascientifico degli ultimi dieci anni.

Source Code parte con una situazione analoga a quella di Moon: un uomo solo, intrappolato in un meccanismo incomprensibile, manovrato da poteri al di fuori del suo controllo, in bilico tra abitudine all'obbedienza. tentazioni solipsistiche e paranoia terminale.
Se le premesse sono simili, lo svolgimento prende direzioni diverse. In Moon il protagonista era costretto dalla situazione al costante confronto con se stesso, con l'unica possibile alternativa della comunicazione con l'intelligenza artificiale che controlla la base lunare. In Source Code il capitano Colter Stevens (un ottimo Jake Gillenhall) non ha altra scelta che il contatto con l'altro, intrappolato com'è tra le priorità della sua missione, la ricerca di un senso a quel che sta succedendo, la necessità di convincere i suoi controllori delle sue esigenze.
Nella gestione della progressione della vicenda si percepisce tutto il talento del regista. Mantenere la coerenza del plot; tenere alto il ritmo nonostante le ripetizioni obbligatorie; giocare abilmente con gli standard del cinema d'azione per giungere a qualcosa di diverso, utilizzando bombe a tempo e terrorismo e conti alla rovescia come strumenti narrativi e non come fine ultimo del racconto; il progressivo disvelamento della verità sottesa alla vicenda e di nuovo la coerenza verificabile a ritroso di quanto visto con quanto rivelato.
Duncan Jones si scopre magnifico creatore di universi, capace di mescolare i temi più diversi (la già citata minaccia terrorista con conseguente corsa contro il tempo, il subplot romantico, la cornice fantascientifica) svolgendo ognuno di essi fino al degno finale, creando una conclusione multipla in cui ogni subfinale è necessario al finale successivo, con una progressiva accentuazione della complessità della visione, fino alle sue estreme conseguenze.

L'unico limite della pellicola, confermatomi da amici che non sono soliti frequentare il genere, è paradossalmente proprio il tasso di ottima fantascienza presente in ogni istante del film. In effetti la densità del contenuto fantascientifico rischia di rendere piuttosto complicato al pubblico generalista il districarsi tra tutti quegli elementi che sono ormai parte integrante della letteratura di genere (bioware, fisica quantistica, universi paralleli). Specie quando quegli stessi elementi non sono, come spesso accade, parole buttate lì a far scena, ma contribuiscono attivamente a reggere il telaio narrativo del film.

In questo senso Source Code riesce in quello che nè MatrixInception, due film in qualche modo assimilabili a questo, son stati capaci di realizzare: raccontare una storia complessa, solida e comprensibile senza utilizzare gli effetti speciali come armi di distrazione di massa. Focalizzando la messa in scena su personaggi e situazioni sempre coerenti con le premesse del progetto. Puntando sulla forza dell'idea di fondo, su un'ottima sceneggiatura che non cerca facili compromessi, rendendo l'opera comprensibile ai più diversi livelli. Utilizzando la tecnologia come risorsa narrativa, non come mero tappabuchi scacciapensieri.

Ci si domanda spesso che fine abbia fatto il buon cinema di fantascienza. Dove siano finite le idee, l'immaginazione, il talento. Con soli due film all'attivo Duncan Jones ha già abbondantemente risposto alla domanda.
Se amate la fantascienza dovete vedere Source Code.

04 maggio 2011

Letture. Fantascienza che fu: Tschai, di Jack Vance

Illustrazione di Jeff Jones per la copertina di The Dirdir, terzo volume del ciclo di Tschai

Quando si parla di fantascienza, quella di una volta, quella vera, Jack Vance è uno di quei nomi che inevitabilmente viene citato dall'appassionato del caso come lettura imprescindibile. Io invece Jack Vance lo conosco molto poco. Prima di Tschai ho letto solo una manciata dei suoi racconti (quelli raccolti nelle varie antologie della meglio della fantascienza, dai volumazzi della Nord che raccolgono i premi Hugo a quelli Bompiani firmati Asimov che propongono anno per anno la produzione più significativa dai 1939 al 1959, agli Urania dedicati ai Grand Master) e i primi volumi del ciclo dei Principi Demoni.
Se dei racconti ho nel complesso ricordi positivi, quel paio di romanzi mi aveva lasciato perlomeno perplesso (all'epoca della lettura mi chiedevo: "Ma che ci trovano gli ammiratori di Vance in questo ciclo? La domanda non è oziosa: mi piacerebbe proprio capire cosa c'è di così notevole in un personaggio come il protagonista, in una galassia in cui sembra ci abitino giusto le 10 persone che si incontrano, in una serie di cattivi che definirli da operetta sarebbe fargli un complimento. Poi è vero che i romanzi si leggono agevolmente, ma se devo dire che mi sono piaciuti... forse come documento di un altro tempo, non certo come romanzi belli senza condizioni.")
Ma Vance è un nome importante per la definizione del genere per come lo conosciamo ora, uno di quelli che se frequenti la fantascienza non puoi non conoscere.

Eccoci dunque a Tschai, il volume che raccoglie i quattro romanzi che compongono il ciclo delle avventure del terrestre Adam Reith sull'omonimo pianeta. Pubblicati tra il 1968 e il 1970 i quattro romanzi sono un esempio perfetto di quella che era la fantascienza popolare che andava per la maggiore all'epoca. E beh… diciamolo, sono anche uno specchio piuttosto fedele di quello spirito conservatore caratteristico di molta letteratura fantascientifica che è sempre corso parallelo alla spinta progressista verso l'esplorazione del futuro che viene solitamente associata al genere.
Le quattro parti che compongono il volume raccontano delle peripezie di Adam Reith, unico sopravvissuto di una spedizione di esplorazione terrestre, nei suoi tentativi di recuperare una nave spaziale che lo riporti a casa, liberando nel frattempo la popolazione di origine umana sottomessa e succube dei loro padroni alieni. Ognuno dei quattro romanzi vede il confronto tra il pragmatismo e l'intelligenza yankee del protagonista e ognuna delle quatto razze aliene che si sono spartite il pianeta Tschai. Lo schema dei rapporti tra terrestre e alieni è molto semplice: l'unico alieno buono è l'alieno morto.

In effetti quel che mi ha sorpreso durante la lettura è il tasso di violenza che accompagna il procedere dell'avventura. Violenza del tutto indolore e priva della pur minima conseguenza morale. Violenza ingenua e incosciente. Violenza che non avevo mai considerato in questi termini nelle mie precedenti esperienze con la fantascienza classica.
Fantascienza classica che come spesso accade io trovo, ahimè, molto più interessante per quello che fa inconsapevolmente trasparire dello spirito del tempo che non per i contenuti letterari che porta con sé.

Non che Tschai sia lettura noiosa o pesante. Tutt'altro: le invenzioni e le trovate si susseguono pagina dopo pagina e la tensione avventurosa è costante. Per quanto la trama non sia eccessivamente complessa, tiene comunque avvinto il lettore.
L'unica precauzione da adottare avvicinandosi al romanzo è quella di tarare aspettative e speculazioni immaginando quali potessero essere quelle di un adolescente americano degli anni '60. Il rischio altrimenti è di trovare Tschai insopportabile, vuoi per il tasso di testosterone presente, vuoi per la prospettiva ristretta che il tour di Vance propone del pianeta.

27 aprile 2011

Tre su tre

E così, dopo River of Gods e Brazyl, Ian McDonald ha vinto ancora, per la terza volta di fila, il BSFA Award, vale a dire il principale premio della fantascienza britannica.

Io sto leggendo The Dervish House in questi giorni ed è, tanto per cambiare, un altro magnifico romanzo.
Ian McDonald ha un tocco straordinario nella creazione e nella descrizione dei luoghi e dei personaggi che mette in scena.
La Istanbul che emerge dalle sue pagine è più vera del vero e conferma la maestria dell'autore britannico nel confezionare storie che traggono la loro forza dall'incontro tra una formidabile visione fantascientifica e l'immersione totale nell'atmosfera locale, con un'attenzione al dettaglio e al contesto socio-politico che circonda gli attori della vicenda unica nel suo genere.

Ma ne riparliamo a fine lettura.
Nel frattempo, complimenti a Ian McDonald!

18 aprile 2011

L'uomo fiammifero


Incuriosito da questo post del Grande Marziano sabato ho riunito la famiglia e ci siamo visti L'uomo fiammifero.

Il film di Marco Chiarini è un piccolo gioiello che riporta a casa tutte le suggestioni dell'infanzia come da tempo il grande cinema fatica a fare con tale forza e intensità. Partendo da un contesto locale (la campagna abruzzese, i primi anni '80) L'uomo fiammifero scardina ben presto ogni gabbia che possa limitarne suggestioni e attrattive con una storia che in pochi attimi diventa universale.
Se gli adulti apprezzeranno la ricostruzione d'ambiente e la messa in scena, i più giovani rimarranno affascinati da una storia che ripropone in tutta la sua forza liberatoria le fantasie dell'infanzia, donandogli corpo e sostanza. Non è un caso se il film è piaciuto molto più a Jacopo, che ha dieci anni, che non a Francesco, che di anni ne ha tredici.

Alla base de L'uomo fiammifero c'è un'idea che è un classico e che miscela temi fondamentali della narrativa per ragazzi: la fine dell'infanzia, l'elaborazione del lutto, la scoperta del mondo fuori. Quel che colpisce e attrae è la scelta di portare in primo piano l'immaginazione libera e inconsapevolmente infelice del giovane protagonista della storia, rendendo vive le sue creazioni, che si tratti di amici immaginari, di quaderni fitti di oggetti, di mappe e ricordi. Simone, undicenne solo e solitario, reagisce nell'unico modo possibile al Problema della sua vita: inventando e raccontando, scappando ed esplorando.
L'uomo fiammifero è una pellicola che parte dalla provincia (in tutti i sensi) ma racconta una storia universale, lasciando all'infanzia il compito di raccontare se stessa: il giovane Simone è il motore narrante della vicenda, gli adulti son tutti accidenti di percorso (ì'unico altro esempio cinematografico recente, altrettanto forte e riuscito, seppur diverso per storia e sviluppo, è forse Nel paese delle creature selvagge).

Il cinema di questi ultimi anni c'ha abituato a considerare il pubblico giovane come ricettacolo di comicità e prodotti, come la fascia di audience più facilmente aggredibile con strategie di marketing che si muovono tra l'agghiacciante e il patetico. L'uomo fiammifero riporta un po' di rispetto e sincerità sulla scena, senza trattare gli spettatori come dei decerebrati (che siano bambini o adulti poco importa), invitandoli a partecipare e a sviluppare tutto quel che di non detto (e di non visto) capita sullo schermo, proponendo una storia che non è mai accondiscendente o accomodante, che si muove per territori fantastici mai fini a se stessi, che propone argomenti importanti con una leggerezza inusuale.

L'uomo fiammifero è anche un piccolo miracolo produttivo. È un esempio di quel che passione e volontà possono fare se accompagnati da dedizione e talento. L'uomo fiammifero è un film autoprodotto, realizzato in economia, che vive grazie all'interpretazione degli attori (i ragazzi fanno quel che possono, ma Francesco Pannofino è davvero spettacolare) e che deve moltissimo del suo fascino alle innumerevoli soluzioni tecniche che sopperiscono con grande inventiva ai limiti di budget. Ormai quando si parla di film fantastici siamo abituati ad attenderci CGI e meraviglia. L'uomo fiammifero non fa rimpiangere nemmeno per un attimo gli effetti speciali dei blockbuster hollywoodiani, con un approccio che ribalta il tavolo della creatività, rendendo credibile e tecnicamente memorabile ogni intervento (e sono centinaia) di post-produzione.
L'unico difetto percepibile durante la visione è il doppiaggio dei dialoghi, scelta che produce risultati non sempre all'altezza (specie nella seconda metà della pellicola, le parole messe in bocca ai giovani protagonisti soffrono di fastidiosi fuori sincrono), ma per il resto ogni altro aspetto è curatissimo: dalla colonna sonora sempre coerente, precisa ed evocativa, al montaggio che accompagna la storia in modo fluido e mai didascalico, dalla fotografia che si esalta nella campagna assolata e diventa intima ed emozionante negli interni, alla fedeltà delle ricostruzioni ambientali che riportano d'un fiato tutti gli spettatori intorno ai quarant'anni alla loro, di infanzia.

L'uomo fiammifero è un film di Marco Chiarini cui va tributata una standing ovation per l'enorme lavoro svolto e per essere riuscito a coinvolgere tutte quelle persone che con le loro competenze hanno contribuito alla riuscita di questo progetto condiviso.

Guardatelo e meravigliatevi.

17 aprile 2011

Winter is coming

Stasera i telespettatori americani si potranno godere la prima puntata di A Games of Thrones, serie di dieci episodi che propone al pubblico televisivo il primo volume della Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin.
Non so se e quando la serie arriverà in Itaia. Io conto sui sottotitolatori nostrani per godermela nelle prossime settimane, perché a vedere il materiale disponibile su youtube sembra che abbiano fatto un gran bel lavoro.

13 aprile 2011

Letture: La breve estate dell'anarchia / In Patagonia

Come anticipato ormai qualche settimana fa, ecco qualche nota su un altro paio di volumi letti negli ultimi tempi. Stavolta si parla di due testi che provengono dritti dritti dagli anni '70 dello scorso secolo. Non sono romanzi, ma hanno entrambi nel racconto della Storia (e delle storie di contorno) il loro nucleo fondante.

Hans Magnus Enzensberger - La breve estate dell'anarchia


Picture by anarchosyn.

La politica e le bandiere, gli attentati e le riunioni, gli scioperi e le rivoluzioni. Il Socialismo, il Comunismo.
L'Anarchia.
C'è stato un tempo un cui il mondo stava per esplodere, un momento così ricco di potenzialità e sconvolgimenti che al confronto questi ultimi decenni sono paragonabili a un encefalogramma piatto (almeno per noi, europei. occidentali. bianchi e democratici), una manciata di anni in cui i poveracci di queste terre hanno alzato la testa e osato sperare in una vita migliore.
La disperazione e la speranza, il sogno e la violenza, la lotta, la resistenza, il compromesso, il tradimento e la sconfitta. Questa è stata l'anarchia spagnola, e Buenaventura Durruti, il simbolo perfetto di un movimento costretto alla resa dall'inconciliabilità tra principi ideali e pratica quotidiana, tra le istanze individuali e la loro dimensione sociale.
Il racconto della vita di Durruti narrato dalle voci dei suoi contemporanei è appassionante e tragico. L'uomo Buenaventura scompare, sovrastato com'è dal simbolo e dall'esempio. Puoi solo immaginarlo Durruti, che a raccontarla, una vita come la sua, è tanto immensa e incredibile che diventa per forza leggenda.

La scelta di Hans Magnus Enzensberger di raccontare Buenaventura Durruti con le testimonianze di chi quegli anni li ha vissuti, lasciando quindi filtrare pregiudizi, necessità politiche e innamoramenti, è forse l'unico modo obiettivo per affrontare una storia che di obiettivo non ha nulla, tanto è intrecciata alle passioni politiche e alle trame segrete, ai tradimenti e alle rivolte, tanto è lontana dalla Storia ufficiale delle cronache, dei governi e degli eserciti, intessuta com'è delle vite di quel tipo di persone che di solito la Storia dimentica e ignora.
La figura di Buenaventura Durruti che emerge dalle pagine de La breve estate dell'anarchia è quella di un eroe popolare. Un eroe cui nemmeno una morte inconcepibile, allo stesso tempo ridicola e così umana, ha ridimensionato gesta e figura.
Ed è incredibile la distanza che separa la nostra vita da quella dei protagonisti di quella porzione di storia. Non è passato nemmeno un secolo, ma la vicenda di Buenaventura Durruti vista da qui, ora, sembra quella di un personaggio fantastico e quella dell'anarchia un sogno sognato tanto tempo fa, nel cuore della notte, che al risveglio si fatica a ricordare, con un misto di rimpianto e nostalgia.



Bruce Chatwin - In Patagonia


Picture by Fer.Cipriani.

Ma davvero a qualcuno è venuta voglia di partire per la Patagonia dopo aver letto questo libro? E se davvero è successo, mi spiegate in che modo Bruce Chatwin è riuscito ad affascinarvi con il suo racconto di quelle terre? Se c'è un posto dove NON vorrei andare dopo averne sentito parlare in termini tanto poco lusinghieri è proprio la Patagonia, Un luogo dove la gente sembra non perda occasione per litigare o sparlare del vicino, e quando non litiga sembra davvero triste e depressa, e dove nemmeno il panorama sembra essere un granché…
(A scanso di equivoci, io sono convinto che la Patagonia sia un luogo meraviglioso, solo che nulla delle sue meraviglie traspare da questo volume, salvo forse in una pagina o due.)

Erano anni che mi ripromettevo di leggere qualcosa di Chatwin. Per me il viaggio è sempre stata un'esperienza fondamentale e a guardarsi intorno pare proprio che Bruce Chatwin sia l'esempio perfetto del viaggiatore moderno: è stato ovunque, ha scritto una manciata di libri che godono di ottime recensioni e continuano ad essere letti e venduti a più di trent'anni dalla loro pubblicazione.
Eppure nulla della magia del viaggio sembra emergere dalle pagine dedicate alla Patagonia, nulla del fascino della strada, o della meraviglia dell'incontro con un'altra terra e altri popoli. Le cose migliori di In Patagonia sono i racconti delle persone (e dei personaggi) che dalla Patagonia son anche passati ma le cui vite superano abbondantemente i confini di quelle terre (Butch Cassidy su tutti, ma anche lo zio navigatore, o l'anarchico ungherese).
Quel che invece emerge prepotente dalle pagine di In Patagonia sono lo snobismo britannico del suo autore, l'accondiscendenza che riserva ai locali e il continuo sottolineare le differenze in termini di progresso e civiltà delle stirpi nordiche rispetto a quelle indie o latine.
Bruce Chatwin sembra essere immune a quel genere di umiltà che permette al viaggiatore di diventare parte del mondo che attraversa, ed è troppo pronto a giudicare per riuscire ad appassionare il lettore con il racconto del suo viaggio.
In Patagonia nel complesso si legge comunque volentieri, se non per il gusto del viaggio, almeno per la somma di aneddoti e curiosità che indubbiamente contiene. È semmai il personaggio Chatwin ad essere davvero deludente.
Tocca trovarsi nuovi miti…

05 aprile 2011

Realizza i tuoi desideri

Le banche sono il Male. Ma a volte riescono a sorprenderti.

L'altra mattina sono passato dalla banca per un paio di faccende. Mentre attendevo paziente il mio turno sono rimasto folgorato dalla campagna pubblicitaria che incombeva tentatrice su noi clienti. Il prodotto promosso è Avvera, un prestito al consumo che offre al cliente condizioni vantaggiosissime e irrinunciabili.
Ovviamente.

Dopo qualche tentennamento (parlare di una banca? qui? mai!) ho deciso di condividere sul blog il rapimento provato di fronte all'improvvisa illuminazione che mi ha colto di fronte al manifesto di Avvera e rendere quindi i dovuti meriti all'ufficio marketing e all'agenzia responsabili della creazione dell'immagine dei poster e dei pieghevoli che accompagnano la campagna.
Sapete bene che non perdo occasione per dare addosso alle suddette categorie di onesti lavoratori. Stavolta è diverso, stavolta hanno conquistato il mio rispetto.
È quindi con gioia che condivido con voi l'improvviso anelito di trasparenza e onestà che accompagna la promozione del prestito Avvera offerto da Credem.

Cosa c'è di più chiaro, diretto e immediato - per quanto professionalmente sottile - del suggerire il paragone tra il prestito proposto dalla banca e quel chiodo arrugginito che inchioda la farfalla dei tuoi desideri alle manine dolci di un bambino?



Bravi.
Complimenti!

01 aprile 2011

Kill Me Please


Disordine e distruzione, cinismo e anarchia, violenza e risate.
Mah…
Kill Me Please è un film per cui mi mancano i necessari strumenti critici per poterne parlare compiutamente (O Elvezio, Where Art Thou?), ma voglio comunque buttar giù qualche nota, che se poi qualche visitatore lo avesse visto e volesse condividere la sua opinione, beh… sarebbe più che benvenuto.

Kill Me Please è un film curioso e sorprendente, un film in perenne bilico tra furbizia e arte, un film in cui le risate si alternano alle smorfie, in cui non si lesinano i colpi bassi (che poi così bassi non sono mai), in cui con la scusa del film scomodo per situazioni e argomenti si mettono in scena la solita (ma non meno efficace) galleria di personaggi strampalati, ma che ciò nonostante riesce anche a far dire cose interessanti ai suoi protagonisti.
Kill Me Please è un film ambientato in una clinica dove si pratica il suicidio assistito. Una clinica il cui primario, il Dr. Kruger, si dimostra subito personaggio tra i più umani del film: subissato com'è da richieste di suicidio, mantiene dritta e coerente la sua missione etica. Il Dr. Kruger parla di vita più che di morte e, tolto un momento di comprensibile esasperazione, il suo agire è specchio rigoroso di solidi principi. Anche quando le cose gli sfuggono di mano cerca in ogni modo di ripristinare un minimo di civiltà e decenza.
Il Dr. Kruger è insomma l'antitesi della raffigurazione corrente del medico dedito a pratiche eutanasiche, e il suo ruolo è il cardine su cui ruotano tutte le schizofreniche dinamiche del fim.

Kill Me Please è un film che si svolge al di fuori di un contesto riconoscibile. In un certo senso è un film che narra di un assedio, di un isola di quiete (la clinica) circondata dal nulla entropico (i boschi innevati e i loro misteriosi abitanti), in cui si rifugiano una serie di personaggi evidentemente disadattati e inabili al vivere comune. È un film disordinato, divertente e dislessico (quante volte muore l'autista? che razza di fucili usano da quelle parti? e vogliamo parlare del tiratore scelto?), un film la cui improvvisa virata da certe atmosfere autoriali verso l'esplosione di violenza gratuita e spettacolare della seconda metà della pellicola si giustifica per l'efficacia della messa in scena che mescola abilmente istanti di puro dramma ad altri di irrefrenabile divertimento. Un film capace di turbare più per quello che non dice, che per quello che mostra.

Il difetto principale di Kill Me Please, almeno dal mio parzialissimo punto di vista, è la scelta di proporlo al pubblico in bianco e nero. Bianco e nero scelto probabilmente per enfatizzare il taglio crudo e i contrasti della pellicola, ma che nel suo virare sui toni bluastri di una conversione mal riuscita mi ha lasciato un retrogusto di cinema amatoriale che no, non sono riuscito ad apprezzare. Difetti cromatici esclusi, bisogna però riconoscere che la fotografia, specie quella dei primi piani degli attori, è davvero efficace nel mostrare questi volti persi e confusi e tesi al decadimento finale.

Kill Me Please è un film che lascia molte questioni senza risposta, da quelle più profonde (il potenziale problematico dell'eutanasia è abilmente disinnescato con la scelta di un praticante assolutamente rigoroso e trasparente del mestiere di suicidatore) a quelle più terra terra (l'incendio? l'assalto?), che costringono lo spettatore interessato a portarsi il film a casa. La qual cosa non è poi 'sto gran difetto, in questi tempi anche troppo generosi di facili spiegoni e di dubbi rimossi, che guai a porsi troppe domande.

Abbiamo visto il film ieri sera, la visione deve quindi forse ancora sedimentare compiutamente. Ma dei quattro che eravamo, tutti siamo rimasti insieme colpiti e perplessi da quanto visto. Chiedendoci se lo spiazzamento cognitivo con cui si esce dal cinema sia da considerarsi tra i meriti del film o se non sia invece frutto della furbizia di Olias Barco, autore francese di questa sorprendente pellicola.

Come dicevo più sopra, ogni contributo che mi possa aiutare a decifrare la visione è più che benvenuto.

25 marzo 2011

Magic Kingdom

Come mai non ho mai sentito nominare Stanley Elkin? Uno scrittore che sforna un romanzo come Magic Kingdom non può essere uno sconosciuto qualsiasi. E dire che questo volume edito nella collana che minimum fax dedica al recupero dei classici non è nemmeno troppo vecchio. Risale al 1985. Eppure ci son voluti venticinque anni per tradurre questo libro in italiano. Misteri dell'editoria, applausi all'editore.

Magic Kingdom è la storia di sette bambini malati terminali che Eddy Bale, reduce dalla tragica perdita del figlio, decide di accompagnare, con una ben assortita cerchia di collaboratori, in una vacanza da sogno, l'unica e l'ultima a cui potranno mai partecipare, nel regno magico di Disneyworld.
Magic Kingdom racconta una vicenda che credevo fosse impossibile da affrontare, ma Stanley Elkin non distoglie nemmeno per un attimo lo sguardo, né per il pudore né per la pena, e ne esce trionfante e con lui i protagonisti della storia e il lettore con loro.

Prima di leggere questo romanzo ero convinto che raccontare di bambini malati in gita premio fosse quanto di più rischioso si potesse mai decidere di infilare in un romanzo. Con un argomento simile c'è tutto il potenziale per scivolare nella narrativa del dolore o nel melodramma o per rifugiarsi nel cinismo e nella retorica.
Stanley Elkin travolge invece il lettore con la pura e semplice verità del suo racconto.
Tutto Magic Kingdom è percorso da una voce sotterranea che lega i personaggi, i luoghi, le situazioni e che sussurra al lettore morte morte morte. Ma lungi dal rassegnarvisi, gli uomini e le donne e i bambini di questo romanzo cercano in ogni modo di venire a patti con la loro mortalità: gli adulti con il loro bagaglio di esperienze di sopravvivenza e con le loro piccole strategie di sopportazione e resistenza; i bambini, tutti condannati, dimenticando la loro condizione, fuggendo nei loro sogno condivisi, concentrando negli ultimi momenti rimasti intere esistenze che mai vivranno.
Stanley Elkin supporta i loro sforzi con una scrittura funambolica, sfrenata, meravigliosamente ricca di sottigliezze e sfumature. Una scrittura così viva da rendere possibile la convivenza nello spazio della stessa pagina, addirittura della stesse riga, di tragico e comico, sensuale e grottesco, orrore e meraviglia. Scrittura resa magnificamente da Federica Aceto in lingua italiana, con un lavoro di traduzione che non deve essere stato semplice. (Se volete farvi un'idea, qui trovate il pdf del primo capitolo).
Stanley Elkin mostra tutto: dalla masturbazione compulsiva dell'infermiera Mary, al profluvio di liquidi organici prodotto dalla piccola Rena, dai pensieri segreti di Pluto, alle pene d'amore del buon Colin per il suo omonimo compagno lontano. In questo mostrare senza pudore anche i momenti più intimi, restituisce dignità e individualità ai suoi personaggi (che siano bambini malati o accompagnatori disfunzionali), scardina la gabbia che li relegherebbe al ruolo di anonimi vettori di disagio sociale e rivela al lettore la loro umanità, che si riflette esattamente nei loro limiti.

In un romanzo in cui non c'è nessuna esaltazione del vitalismo cui tanta letteratura americana ci ha abituati, in cui nessuno nemmeno immagina ci si possa salvare la vita, decidere di ambientare la vicenda a Disneyworld non fa che acuire le dinamiche di relazione tra sani e malati, tra bambini e adulti, tra lavoratori e vacanzieri, in una serie di corto circuiti che rendono universale la malattia personale e inguaribile la follia collettiva (vedi il momento insieme ridicolo, tragico ed epifanico della sfilata a cui assistono i bambini verso la fine della storia).

Ma il regno magico di Stanley Elkin è ancora più ricco di quel che può apparire da queste note.
Vedi per esempio il ritratto dei mondi privati in cui i sette giovani protagonisti - otto, considerando il ricordo del figlio moribondo di Bale - sono forzatamente rinchiusi dalla loro malattia, descritti con una pacatezza che esalta la normalità delle loro esistenze. Normalità che sfocia in un irrefrenabile divertimento non appena le vite di questi piccoli malati si incrociano, con un umorismo che non nega la malattia né indulge nei comodi territori della satira, ma che grazie alla sua trasparenza al dolore riesce a coinvolgere il lettore molto più di un qualsiasi paternalistico approccio strappacore.
O vedi l'attenzione dedicata al rapporto tra Eddy Bale e la progressione della malattia del figlio; il delicato, commovente, spietato racconto della conclusione del suo matrimonio o quello della sua esposizione mediatica nel ruolo di promotore della macchina raccogli-soldi per curare il figlio prima, per la vacanza da sogno poi.
Insomma, si sarà capito, per me questo Magic Kingdom è stata una scoperta straordinaria.
Spero lo sia anche per voi.
(Un grazie a Chiara che mi ha consigliato il romanzo: è passato un po' di tempo, ma non l'ho dimenticato)

23 marzo 2011

Things to come


Picture by Iguana Jo.

Prendo spunto dal'ultimo post del Ratto, che dice "lo scrivo qui, pubblicamente, così potrete insultarmi se non manterrò l'impegno preso.", per anticipare cosa arriverà prossimamente nel blog.

È un po' di tempo che non parlo di libri, e forse prendermi un impegno pubblico a farlo mi spingerà a muovere il culo e a buttar giù quelle note che mi girano per la testa dal termine delle varie letture.
Quindi, qui lo dico e lo confermo, a breve su queste pagine arriveranno acute osservazioni, pregnanti critiche e immortali annotazioni sui seguenti volumi:
Magic Kingdom, di Stanley Elkin
La breve estate dell'anarchia, di Hans Magnus Enzensberger
In Patagonia, di Bruce Chatwin
Tschai, di Jack Vance
Angeli spezzati, di Richard K. Morgan
Cantata Spaziale, di Raphael A. Lafferty
What I Didn't See, di Karen Joy Fowler
Il figlio del cimitero, di Neil Gaiman

Stay tuned!

22 marzo 2011

Faccia da Vet


Non so voi, ma da bambino ho passato un sacco di tempo a giocare con le figurine Panini. All'epoca mi chiedevo che effetto doveva fare finirci dentro, fotografato con la maglia della tua squadra insieme ai tuoi compagni.
Una mezza dozzina di lustri più tardi posso ben dire che anche se sulle figurine non ci sono mai finito, sono comunque orgoglioso della foto qui sopra: ehi! sembro un giocatore vero!

Ma non è solo l'autocompiacimento che mi fa postare 'sta fotazza, piuttosto il voler parlare ancora una volta della mia esperienza con i Veterans del Modena Rugby.
Quest'ultimo fine settimana è passato tutto all'insegna del rugby, di quello giocato, di quello guardato, soprattutto di quello vissuto.
Venerdì è arrivata a Modena la squadra spagnola dei Murcia XV Veteranos. Sono arrivati per una partita di rugby con i pari età (meglio: i fuori età) modenesi, ma come sempre accade quando si incontrano due gruppi di vecchi rugbisti, la partita è stata solo la ciliegina sulla torta di un evento che è iniziato con la cena - e il dopo cena - di venerdì sera, è proseguito sul campo nella giornata successiva ed è terminato solo al calar del sole.
Quel che rende memorabili questi incontri non sono il vino e la birra, non sono i cori, non sono i racconti e i ricordi, non sono nemmeno gli scontri e le mete. È piuttosto il senso di una comunità che nasce da un'esperienza sportiva e diventa di più e meglio delle singole persone che si scontrano su un campo con una palla ovale in mezzo. Nel rugby ci sono il rispetto e la competizione, c'è il gusto del gioco e quello per la buona compagnia.
Le stesse cose le ho ritrovate domenica, trascorsa da mattina a sera a veder giocare i bimbi a Reggio Emilia per il loro primo torneo della stagione. Se anche i risultati della squadra di Jacopo non sono stati memorabili, vedere giocare tutti 'sti piccoli rugbisti provenienti da ogni parte d'Italia è stato comunque uno spettacolo.

Tornando all'incontro di sabato, noi pensavamo di stenderli, 'sti spagnoli. Invece il Murcia si è dimostrato molto più tosto delle previsioni e la partita è finita con tre mete per parte. Dal mio punto di vista posso aggiungere che a parte qualche botta, sono felicemente sopravvissuto all'esperienza. Viste le mie doti tecnico-atletiche questo per me è già un ottimo risultato.
Qui ci sono le foto della partita.

21 marzo 2011

Nick ha aperto un blog

Nick è un appassionato frequentatore di queste pagine e ora - finalmente! - ha aperto un blog tutto suo.
Andatelo a trovare che merita una visita.

12 marzo 2011

Italia - Francia 22-21

foto da repubblica.it

Giochi futuri


Da qualche mese gioco a World of Warcraft, da qualche anno leggo fantascienza.
Questo forse spiega il mio interesse per quanto pubblicato da Charlie Stross sul suo blog.
Anche se dopotutto si tratta di retrofuturo (come altro definire un intervento sul futuro scritto nel passato) il suo tentativo di tracciare una mappa dei futuri scenari del gioco on-line mi pare degno d'interesse.
Ecco il link: Life's a game, and then you die

10 marzo 2011

Scintille e incomprensioni

Nell'ultima settimana si è discusso molto nei blog vicini di letteratura e politica, della legittimità di letture ideologiche di testi di genere, della priorità o meno, nella valutazione di un'opera, di un approccio etico/politico.

La discussione è partita dallo spazio commenti del post che Elvezio ha dedicato ad Harry Potter, è proseguita da Niccolò su Sei un'idiota ignorante per giungere infine sulla pagine di Strategie evolutive. Nello spazio commenti del post di Davide sono stato tirato in ballo da Marco per l'approccio pregiudiziale che avrei nelle mie recensioni nei confronti di romanzi che mal si coniugano con la mia particolare visione del mondo.

Non ho seguito come avrei voluto le varie discussioni. Da circa un anno è stato introdotto dall'azienda per cui lavoro un sistema di filtraggio dei contenuti web per cui faccio molta fatica ad accedere a determinati blog, a volte nel loro complesso (Sei un'idiota ignorante o il Grande Marziano, per esempio), a volte solo a singoli post (Malpertuis, Strategie evolutive ). Oltretutto queste ultime settimane sono state piuttosto impegnative anche al di fuori della rete. Il risultato è che sono fuori tempo rispetto alle discussioni di cui sopra, ma devo comunque una risposta alle sollecitazioni ricevute.

Ultima avvertenza: per comporre questo post ho trovato più comodo citare le parole di Marco, compresi alcuni estratti da un paio di mie vecchie cose portate come esempi significativi del mio modo di procedere: il primo era dedicato ad Arrivederci amore, ciao di Massimo Carlotto, il secondo a Sotto la pelle, di Michel Faber.


Picture by Iguana Jo.

Partiamo.

"Forse il mio mancato entusiasmo nei confronti del romanzo si può in effetti riassumere nel fatto che non riconosco il mondo che racconta l’autore come il mio mondo, che sento la mancanza di un riferimento altro rispetto all’immoralità di tutti i personaggi del romanzo."


Marco scrive: "Semplicemente trovo questo un approccio sbagliato, un giudicare le opere in base a quello che vorresti che fossero, e quindi rischiando di prestare meno attenzione a quello vogliono essere, e che intendono comunicare. Un autore non deve descrivere il tuo mondo, ma quello che interessa a lui raccontare."

No, aspetta. Non giudico i romanzi che leggo "in base a quello che vorrei che fossero", cerco piuttosto di capire se date certe premesse l'autore svolge la sua opera in modo coerente o se se invece svicola, per intortarmi magari con uno sviluppo che di quelle stesse premesse se ne frega.


O meglio. Proviamo a fare un passo indietro. Così forse usciamo dall'esempio specifico (ma ci torniamo, non vi preoccupate) per tornare al discorso generale che riguarda la valutazione etica/ideologica di quanto leggiamo.

Quando mi metto a pensare a quel che ho letto mi chiedo come prima cosa "perché?".
Perché il dato volume mi è piaciuto/non mi è piaciuto? È merito/demerito della scrittura? Del plot? Dei personaggi? Oppure è qualcosa che riguarda l'etica e la consapevolezza del contenuto?

Per rispondere a queste domande inizio a rimasticare il romanzo letto, faccio giocare le idee che ho colto dal testo con gli altri ingredienti che mi hanno colpito, metto a confronto la mia parzialissima visione del mondo con quella che traspare dalle parole dell'autore e cerco di prendere al volo - e quindi riportare sul blog - le scintille che si generano dall'incontro.

In altre parole, non si tratta di vedere quanto le idee che percepisco dal testo corrispondano alle mie, ma quanto queste siano integrate nella narrazione, quanto siano sottoposte a discussione, quanto siano coerenti con l'ambiente e i personaggi messi in scena dall'autore. Solo dopo, se è il caso o se colgo qualche aspetto interessante, mi metto a discutere l'ideologia che governa la narrazione.

Per tornare a Massimo Carlotto, quando scrivo: "Forse il mio mancato entusiasmo nei confronti del romanzo si può in effetti riassumere nel fatto che non riconosco il mondo che racconta l’autore come il mio mondo, che sento la mancanza di un riferimento altro rispetto all’immoralità di tutti i personaggi del romanzo." Lo faccio perché tutto nel romanzo urlava - fallendo - la perfetta sovrapponibilità della realtà romanzata con la mia di lettore.
Arrivederci amore, ciao a me è parso un romanzo a tesi, e come la maggior parte dei romanzi a tesi fallisce proprio nel volere estendere la visione parziale dell'autore fino a ricoprire tutta la realtà. Quel che mi premeva sottolineare è un problema che è insieme di umiltà e verità, ovvero il porsi l'autore al di là e al di sopra del lettore. (Lo stesso limite che ho ritrovato in Solaris, tanto per citare un altro romanzo che soffre degli stessi difetti e sul quale la mia opinione è in netta minoranza).

Marco: "Non riconosci come tuo il mondo di Arrivederci Amore Ciao mentre trovi realistico quello di Eureka Street?"

Vedi? È questo l'equivoco. Eureka Street non ha pretesa di verità. I personaggi che si muovono nella Belfast del romanzo sono tutti sopra le righe, hanno vite, reazioni e relazioni esagerate. Ciò che impedisce a Robert McLiam Wilson di deragliare completamente è l'aderenza di quei personaggi a un contesto reso invece con piglio quasi naturalistico. Belfast è lì, è vera, con tutta la sua storia drammatica, e non c'è un solo paragrafo dedicato alla realtà nord-irlandese che mi sia parso incoerente, irreale, sbagliato.

Marco: "Riguardo a Sotto la Pelle (così come a suo tempo Luce dall’Universo) ti fermi sugli elementi che non ti vanno a genio – i personaggi sono tutti cinici, perversi e sconfitti dalla vita, PER CUI l’autore sta cercando di èpater il borghese / Gli esseri umani sono senzienti, PER CUI il paragone con gli animali non regge – tutti gli altri livelli della satira, su televisione, sessualità, consumismo, (che secondo me contribuiscono a spostare il discorso dal piano del parallelismo diretto – con rapporto 1:1 a quello dell’esagerazione paradossale) magari li vedi anche ma non gli dai più peso, l’hai già bell’ e bollato come trattato vegetariano militante."


Ehm… in realtà seguo il percorso inverso.

Mi chiedo: perché non trovo credibile il parallelismo uomini/animali? Forse perché gli esseri umani che compaiono nel romanzo sono senzienti e il lettore empatizza con loro? O forse perché l'autore piega ogni aspetto del romanzo al fine di farmi cogliere questo parallelismo, collocando a fianco di ogni svolta del plot un sacco di punti esclamativi ed enormi cartelli indicatori?

Perché la data lettura non riesce ad appassionarmi/inquietarmi/affascinarmi ma invece mi irrita/annoia/disgusta? Forse per la caratterizzazione univoca di tutti i personaggi? Forse per le discrepanze nel plot? Forse perché sotto la narrazione si scorge il telaio e gli ingranaggi che l'autore ha utilizzato per sedurmi?

E no, non mi sento in colpa per non aver colto livelli ulteriori di lettura, o sottotesti per iniziati, o sfumature appena accennate (o esplicitamente raccontate, non è questo il punto). Tra l'altro se mi metto a discutere pubblicamente la mia esperienza di lettura è proprio perché do per scontato che altri lettori avranno colto dallo stesso testo cose diverse dalle mie. E cosa c'è di più interessante (e divertente!) del confronto tra percorsi diversi fatti sulle stesse pagine?

Marco: "Considerato che Faber vegetariano non è (la domanda naturalmente gli è stata fatta, dopo la pubblicazione del romanzo)- forse era più interessato a porre l’attenzione su certi eccessi dell’industria del carne
…snip…
…E visto che lui non lo intendeva come un trattato di vegeterarianesimo militante e molta gente non l’ha recepito come tale forse il fatto che non ci sia un equivalenza perfetta Isserley:Uomini=Uomini:Animali non è così significativo come è parso a te.
"

Per me, da lettore, le intenzioni dell'autore contano come il due di picche in una partita a scacchi. Dal momento che leggo un libro conta solo quel che riesce a comunicarmi con quel che ha scritto, che va al di là e oltre qualsiasi intenzione potesse aver avuto quando si è messo alla scrivania per iniziare il suo romanzo.
Una volta pubblicato quel testo non è più suo, ma del lettore, che ha tutti i diritti di farne quel che preferisce. Da parte mia l'unica regola che mi aspetto venga rispettata nella discussione di un testo è che le affermazioni che lo riguardano siano coerenti con quanto compare tra le pagine del testo stesso.

Per questo motivo non mi aspetto che chi passa dal mio blog possa condividere ogni affermazione fatta sul dato testo, mi aspetto però che la mia opinione venga rispettata o ridicolizzata non in base a presunti postulati iniziali ("l'autore intendeva dire che…"), ma solo sulla base della sua aderenza al testo in discussione.

08 marzo 2011

Un gelido inverno


Picture by Sam's Myth.

Ci sono film capaci da soli di riconciliarti con il cinema, la vita e tutto quanto. Forse perché gli ultimi film visti avevano un'apparenza eccessivamente patinata per colpire davvero, forse perché da troppo tempo vedo film in cui la realtà è sommersa dalla sua rappresentazione spettacolare, o forse, più semplicemente, perché mi sono ormai rassegnato alla funzione consolatoria della maggior parte del cinema popolare contemporaneo. Per tutti questi motivi vedere Winter's Bone (Un gelido inverno è il titolo con cui è stato malamente distribuito in Italia) mi ha fatto l'effetto di una salutare sferzata di vita, capace di colpire insieme occhi e stomaco, cuore e cervello.
Il film di Debra Granik non cerca compromessi o facili accomodamenti e conduce lo spettatore, senza cedere un passo a retorica e melodramma, nella vita di Ree Dolly, accompagnandola nella ricerca di un padre scomparso, con due fratelli e una madre a cui badare, nel deserto di relazioni che la circonda.

Occhi
Il Missouri fotografato da Michael McDonough riverbera la desolazione delle vite dei suoi abitanti. La miseria degli uomini fa da contraltare alla ricchezza documentaristica di dettagli, rovine e immondizia che riempiono i fotogrammi dedicati alla comunità rurale protagonista della vicenda, mentre quelli dedicati alla natura circostante spiccano per il rigore monocromatico dei toni e la rigidità di forme e movimenti. I colori sono gelidi: bianchi e azzurri e grigi, pronti a scaldarsi solo negli interni della famiglia di Ree, o durante il compleanno in Arkansas, a sottolineare i brevi momenti in cui il freddo delle relazioni si sbriciola nel calore di una vera casa.
E poi ci sono le facce. Miserabili. Perfette. Ognuna con tracciata sulla pelle la mappa delle privazioni di vite intere trascorse a sopravvivere al gelido inverno della loro stessa miseria.

Stomaco
Non c'è pudore nello sguardo di Debra Granik, ma c'è un'immensa compassione per tutte le donne che reggono le sorti del suo film. Donne che tagliano la legna e cucinano, donne che scuoiano cervi e sbudellano scoiattoli, donne che insegnano a sparare ai bambini e donne che picchiano altre donne, donne cani da guardia e donne malate, donne complici e donne ostinate. Gli uomini ci sono, la loro presenza è fondamentale: sono quelli che governano, sono la legge e l'ordine, il denaro e lo squallore. Concedono udienza, e qualche volta sono anche d'aiuto, per poi ammazzarsi di droga e violenza. Gli uomini passano e se ne vanno, sono le donne quelle che restano.

Cuore
Winter's Bone si regge tutto sugli sguardi e la testa dura di Jennifer Lawrence, che cede cuore e anima a Ree Dolly rendendola tanto vera, viva e disperatamente testarda da chiedersi se anche lei ha passato l'infanzia a caccia di scoiattoli, a combattere solo per farsi ascoltare, senza perdere per strada nemmeno un briciolo della tenerezza che il suo personaggio riserva a madre e fratelli.
A tener testa a Jennifer Lawrence c'è John Hawkes, l'attore che interpreta il ruolo di Teardrop, zio di Ree, che si dimostra abilissimo nel rendere insieme trasparente e tangibile l'evoluzione del suo personaggio. Teardrop è l'unico in tutta la vicenda ad accettare i rischi di un cambiamento, che si trasforma da topo di fogna, indistinguibile dalla massa dei suoi pari, in principe tossico e vendicatore, perfettamente conscio dell'inutilità di ogni azione, ma pronto ad esercitare comunque ogni oncia del suo potere di maschio.

Cervello
Abbiamo deciso di andare a vedere Winter's Bone dopo aver letto l'entusiastica recensione di Elvezio Sciallis. Ci siamo riusciti per un pelo, che il fine settimana appena trascorso è stato l'unico in cui il film veniva proiettato a Modena. Nel frattempo m'è capitato di leggere qualche commento nei blog qui vicino (quello di Giovanni De Matteo, per esempio, o quello di Anna Feruglio Dal Dan) tutti concordi nell'evidenziare l'eccezionalità di un film simile.
Io credo che Winter's Bone sia un film diverso dal solito per un particolare fondamentale: ci sono donne vere che fanno cose vere.
No. Winter's Bone non è un film femminista. Piuttosto Winter's Bone è un film che scopre - finalmente! - il ruolo femminile in un contesto da sempre dominato da figure maschili. Il contesto in questione non è né il western né il gotico (generi associati più volte al film della Granik, ma che si scorgono più nella resa dell'ambiente che non nello sviluppo della narrazione), quanto piuttosto il gangster movie più classico, virato questa volta nei già citati toni gelidi dell'inverno rurale.
In Winter's Bone ci sono i legami di sangue che si scontrano con l'economia illegale del clan, ci sono ruoli scolpiti nella roccia che solo la violenza è in grado di scalfire, ci sono spazi personali ridotti in funzione delle necessità del gruppo, ci sono rigorosi codici di appartenenza e punizioni esemplari se si sgarra. C'è la tribù indigena che protegge il confine dal nemico alle porte, c'è un senso di appartenenza irrinunciabile nonostante l'acuirsi dei contrasti personali.
In questo scenario Ree Dolly non è una rivoluzionaria, non rappresenta alcuna emancipazione, incarna semmai la forza disperata degli affetti che si scontra con l'insensibilità costruita su dollari e paura.
Non ci sono cattivi in questo film. Tutti i personaggi hanno ottime ragioni per fare quello che fanno.
C'è la miseria e la lotta per la sopravvivenza che uccide ogni sentimento e nessun futuro all'orizzonte. In effetti se l'esito della vicenda è un probabile punto di non ritorno per la vita di Teardrop, costituisce solo una parentesi nella vita di Ree, che non è difficile scorgere nei volti delle altre donne del film il suo stesso destino.
Speriamo che se la cavi.

01 marzo 2011

Imaginare

Tra lavoro, amici e famiglia, questi son giorni pieni di impegni e casini vari. La rete in generale e il blog in particolare sono i primi a rimetterci. Mi scuso quindi per i discorsi lasciati a mezzo e lo scarso aggiornamento dei contenuti del blog, arriveranno tempi migliori (…e in fretta, spero).

Cinque minuti per segnalare la partenza di Imaginare li dovevo però trovare, che non capita spesso di imbattersi in simili iniziative.
Se siete a Torino nei prossimi giorni e amate la letteratura fantastica non potete perdervi questo ciclo di incontri.
Per saperne di più potete fare un salto su Strategie evolutive, che Davide Mana è uno degli organizzatori dell'evento e saprà illustrarvi da par suo i contenuti e le suggestioni che Imaginare metterà in circolo.