30 novembre 2012

Disastro!

Già, ho combianto un casino.
Stavo curiosando tra i modelli di grafica e visualizzazione del blog. Ho pigiato il tasto rosso, quello che non si deve MAI! In nessun caso! pigiare, ed ecco qua il risultato.
Non c'è melazeta che tenga: è tutto da rifare…

Scusate il disagio. Nel fine settimana conto di sistemare il tutto.

29 novembre 2012

Letture: Stephen Jay Gould, Stella Benson, Luca Masali

© giorgio raffaelli
Stephen Jay Gould - Otto piccoli porcellini
Registrare la lettura dell'ennesimo libro di Stephen Jay Gould non dovrebbe comportare grossi sforzi, la difficoltà semmai sta nel riuscire a trasmettere quanto il paleontologo americano sia importante nel mio personale panorama culturale.
Come tutti i volumi che lo hanno preceduto anche Otto piccoli porcellini è stata una lettura sempre interessante, a tratti entusiasmante, quasi necessaria per riconciliarsi con quella realtà fatta di scienza e ricerca e scienziati che scorre parallela a quella usuale delle nostre giornate. Un mondo ovviamente legato al nostro quotidiano (come sempre ci ricorda Gould), ma che per prassi, ritmi e distanza (fisica e cognitiva) tendiamo a relegare ai margini.  
Stephen Jay Gould annulla questa distanza e riporta a casa del lettore tutta la bellezza, la fatica, l'emozione e la dedizione proprie della ricerca scientifica, con un linguaggio che non è mai paternalistico, ma che al contrario stimola nel lettore la voglia di approfondire, di saperne di più, di leggerne ancora.
Gli articoli di divulgazione scientifica che Stephen Jay Gould ha pubblicato mensilmente per quasi tutta la sua carriera accademica sono raccolti in dodici volumi editi in Italia da quattro editori diversi. Un paio di questi volumi non sono ancora riuscito a recuperarli, ma insieme a Intelligenza e pregiudizio, altro caposaldo della bibliografia di Gould, quelli che ho letto hanno contribuito tutti a rendermi la persona che sono. Ed è motivo sufficiente per essergliene grato.


Stella Benson - Living Alone
Living Alone è un libro pressoché introvabile, mai tradotto in italiano, edito in Inghilterra nel lontano 1919 e messo gratuitamente a disposizione del pubblico dal Progetto Gutenberg nei formati elettronici più comuni. (Qui il link per scaricare il romanzo).
Living Alone ha il dubbio privilegio di essere stato il primo libro letto sul mio lettore digitale e non sul tradizionale supporto cartaceo. Ma temo che questo approccio possa distrarre il lettore di queste note e forse è meglio proseguire in un altro modo.

La lettura di Living Alone mi è stata suggerita da Marco, che quando si tratta di romanzi fantastici ne sa sempre una più del diavolo. Ebbene, il consiglio non poteva essere più azzeccato. Nonostante il secolo trascorso dalla prima edizione del romanzo, la lettura non potrebbe essere più attuale: c'è una ragazza che lotta per la sua indipendenza, c'è la pressione costante del conformismo e l'impossibilità di adeguarsi, c'è una guerra sulla sfondo, a condizionare esistenze e relazioni, c'è la commedia, la satira e l'avventura, c'è soprattutto il continuum magico che permea Londra e il mondo intero e fa sì che esseri soprannaturali vivano fianco a fianco, seppur ignorati o mascherati, ai comuni mortali. La narrazione di Stella Benson è un continuo fuoco d'artificio di invenzioni e trovate, sempre accompagnate da una partecipazione quasi commovente al destino della sua protagonista e una sensibilità insolita per i rapporti sociali.
Se al piatto già molto ricco aggiungete un manico di scopa piuttosto permaloso, uno scontro volante tra streghe straniere, inseguimenti, fantasmi ed equivoci, beh… Living Alone è una continua ininterrotta meraviglia. Provare per credere.


Luca Masali - I biplani di D'Annunzio
Quando usci la prima edizione de I biplani di D'Annunzio non leggevo fantascienza da parecchio tempo. Era il 1996 e il romanzo d'esordio di Luca Masali aveva vinto il Premio Urania. Quando ne sentii parlare in rete, qualche anno più tardi, avevo riallacciato i rapporti con la sf scritta, ma mi tenevo ancora piuttosto lontano dalla versione nostrana della letteratura di genere. Nonostante i commenti fossero piuttosto positivi (fatto di per sè eccezionale, visto un contesto - si era alla fine degli anni '90 - in cui l'unico scrittore buono sembrava essere Valerio Evangelisti, che continuo a trovare piuttosto sopravvalutato), non mi sono mai attentato ad avvicinarmi ai Biplani fino a che, l'anno scorso, avendo deciso di regalare al suocero un lettore di libri digitali, c'era da riempirglielo un pochino. A quel punto, vagando per i titoli Delos, ho deciso  di acquistare anche tre volumi di fantascienza italiana, un po' per mettere a tacere la coscienza (non perdo occasione di parlarne male, vero?), un po' per vedere quali reazioni avrebbero suscitato. (Oltre che su I biplani di D'Annunzio, la scelta è caduta su Nessun uomo è mio fratello, di Clelia Farris, che avevo molto apprezzato nella versione cartacea, e su Infected FiIes  di Dario Tonani, di cui parleremo a suo tempo.)

Le avventure di Matteo Campini, aviatore dell'Impero Asburgico durante la Grande Guerra, alle prese con una versione alternativa della Storia comunemente nota, sono un ottimo esempio di fantascienza. Magari non di quella più estrema e stupefacente, che I biplani di D'Annunzio rimane sempre ben ancorato sui binari della più classica delle storie fantascientifiche, ma senz'altro all'altezza delle proposte anglosassoni che da noi vanno per la maggiore.
Forse proprio grazie al suo passo tradizionale, che avvicina la vicenda all'esperienza del lettore di genere (non dimentichiamo che il suo pubblico originale è quello di Urania), il romanzo di Luca Masali riesce a intrattenere con intelligenza, mescolando la Storia con l'attualità (degli anni '90, che non sono poi così lontani), riuscendo a interessare sia per le svolte e le sorprese del plot, sia con la ricchezza del dettaglio storico, comprese le divertite e divertenti incongruenze che il protagonista si trova ad affrontare, spesso del tutto inconsapevolmente. E se forse la gestione dei dialoghi e delle relazioni tra i personaggi non è tra i punti di forza del romanzo, la caratterizzazione degli stessi non è niente male, permettendo al lettore di riconoscerli e seguirli con il giusto grado di pathos fino al termine della vicenda. Ultima notazione sugli aerei: non c'è capitolo senza, e le pagine in cui sono ritratti i vari modelli, le loro evoluzioni e battaglie sono forse quelle dove più traspare la competenza e la passione dell'autore. Durante la lettura ci sono stati momenti in cui sono arrivato quasi a odiare la messe di informazioni tecniche che li accompagnava, ma poi - ding! - ho capito l'amore che lega l'autore alle macchine volanti, sono entrato in sintonia e ho apprezzato.
Tutto considerato la lettura de I biplani di D'Annunzio è stata una bella sorpresa. Niente male per un romanzo che ho snobbato per più di quindici anni!

26 novembre 2012

Malpertuis è tornato.

© giorgio raffaelli
È già  passata una decina di giorni, ma forse là fuori qualcuno non se n'è ancora accorto: Malpertuis è tornato!
Elvezio Sciallis ha recuperato il nome del vecchio blog, gli ha innestato i post di …a rip in the fabric…, ha mescolato il tutto con le cose migliori della sua vecchia incarnazione, rivedendo e correggendo dove necessario, potando le recensioni negative, i post polemici e quelli estemporanei, per offrire ai lettori una serie di articoli corposi, copiosi e contundenti.

Da leggere con calma, da approfondire e da discutere, il nuovo Malpertuis tornerà ad essere una tappa obbligata dei miei giri in rete.
Attenzione però, se volete discutere o chiacchierare con Elvezio il suo nuovo sito non permette ai lettori di partecipare con i propri commenti alle elaborate discuisizioni del suo autore.
Sui motivi di questa scelta Elvezio è stato molto chiaro e credo ci sia ben poco da fare.
Del resto se volete discutere con lui basta andarlo a trovare su FB: oltre essere sempre molto disponibile al cazzeggio, sia quello serio che quello più debosciato, la sua presenza lì dentro è costante e tangibile.

A me questa scelta continua a dispiacere, che su facebook meno ci sto meglio è, ma - ehi! - meglio un Elvezio read only che nessun Elvezio.

19 novembre 2012

I giovani d'oggi?

© giorgio raffaelli
Questo post vuole rispondere a quanti hanno commentato il pezzo di ieri su Strategie Evolutive  con toni che vanno dal "Eh! signora mia, i giovani d'oggi…" a "quando ero giovane io…" a "ai miei tempi…" ecc ecc.

Consiglierei  a queste persone di guardarsi 10 minuti di televisione (fiction, talk show, informazione, quel che preferiscono), poi magari di farsi un giro in rete, su un social network o su qualche forum  a scelta. Se ancora non basta, fatevi un giro fuori, al bar, in qualche ufficio pubblico o privato, al mercato.

Dopo di che, ditemi, vi pare che i quindicenni di oggi possano davvero fare un lavoro peggiore di quelli di 20/30/40 anni fa?

15 novembre 2012

Fantascienza in Italia: l'elenco 2.0

© giorgio raffaelli
Dopo più di un anno dal suo debutto è venuto - finalmente! - il momento per un aggiornamento. Segnalo quindi che è on-line Fantascienza in Italia 2.0, la versione riveduta e corretta della pagina che ho dedicato agli spazi della rete in lingua italiana che si occupano di fantascienza scritta.
Come per la versione precedente ogni contributo all'ampliamento e/o alla correzione della stessa è benvenuto.

Ripeto anche qui l'avvertenza sullo spazio commenti che compare in Fantascienza in Italia 2.0.
Per mantenere pulita la pagina ogni commento non relativo all'elenco stesso verrà eliminato. Lo dico perché non vorrei veder di nuovo comparire in calce alla lista commenti autopromozionali su pubblicazioni o altro. Verranno mantenuti solo i commenti che faranno riferimento a siti e/o pagine web che rispondono alle premesse, ovvero ai luoghi della rete dove è possibile chiacchierare liberamente, confrontarsi, discutere di tutto ciò che orbita intorno alla fantascienza scritta.

Per ogni altro contributo, discussione, critica, vi invito a utilizzare lo spazio commenti di questo post. Grazie!



12 novembre 2012

Letture: Take Back Plenty, di Colin Greenland

© giorgio raffaelli
…e poi ci sono romanzi come Take Back Plenty, circondati da un'aura di aspettative cresciute man mano che ti ci avvicini. Romanzi che, per quanto siano sconosciuti in questo piccolo angolo del cosmo, quando te li ritrovi nominati tra  i migliori libri di fantascienza degli ultimi vent'anni da amici come Davide Mana o Marco, che godono di ottima reputazione per competenza e passione e gusto, non puoi proprio fare a meno di cercare e leggere. Romanzi che però, quando arrivati in fondo ti lasciano un po' in imbarazzo, che - ehi! - io non è che mi sia divertito troppo tra le loro pagine, sono fonte di infinite riflessioni (beh… ok, si fa per dire) sulla natura del gusto e su come si declini in decine di variabili anche tra amanti di uno stesso corpus letterario.

Take Back Plenty è un romanzo del 1990 che all'epoca vinse in terra britannica un paio dei premi letterari più prestigioso. Il suo autore, Colin Greenland, ha scritto un'altra manciata di romanzi, mai pervenuti in italia, ed è, tra le altre cose, un rinomato critico letterario (oltre a essere il compagno di Susanna Clarke, autrice che qui gode di altissima stima).
Take Back Plenty è space opera del genere più classico. L'azione prende le mosse su Marte, dove si fa immediata conoscenza della protagonista del romanzo, il capitano Tabitha Jute. Tabitha comanda una nave da trasporto dotata di una sua peculiare personalità, e si trova coinvolta suo malgrado (chi l'avrebbe mai detto!) in una serie di (dis)avventure in giro per un sistema solare frequentato da razze aliene, con pianeti e satelliti popolati da una varia fauna di cittadini più o meno privilegiati, tutti comunque sottomessi ai Capellani, che qualche decennio prima hanno pacificamente occupato questa porzione di galassia, dettando le regole e limitando la libertà di movimento agli indigeni che sono ora bloccati all'interno del sistema solare.
Take Back Plenty ha il passo della fantascienza più tradizionale, quella che procede per accumulo progressivo di eventi, ambienti, incontri e scontri, dove più che viaggiare in profondità (nella resa di personaggi, società, relazioni) ci si muove tra una quantità di elementi e suggestioni e dove il focus è sempre esclusivamente sul protagonista e i suoi colorati compagni di viaggio. 

Devo averlo già scritto da qualche parte: la space-opera non è mai stata tra le mie letture preferite. Sono riuscito ad apprezzarla solo quando s'è rivestita di abiti più attuali e quotidiani e al contempo più spettacolari (penso a Iain M. Banks, o a Charles Stross) o quando ha tentato di portare le sue suggestioni tipiche (l'esplorazione dello spazio, la ricerca di strani nuovi mondi) fino all'estreme conseguenze (Greg Egan, ovviamente).
Take Back Plenty soffre il tentativo di innestare su un impianto classico una gruppo di personaggi che mi son sembrati (per atteggiamento, motivazioni, interazioni) tra i più noiosi e insulsi mi sia capitato d'incontrare tra le pagine di un libro d'avventure. Se dal punto di vista intellettuale posso apprezzare l'impegno dell'autore a renderli reali, e quindi difettosi, o ad assegnarli un destino del tutto coerente alle loro azioni,  quando in un romanzo simile non riesci ad appassionarti al destino del protagonista (e tantomeno ad immedesimartici), beh… è difficile non trovare anche gli altri elementi della narrazione stucchevoli o comunque poco interessanti. Per fortuna Colin Greenland è un autore capace: in Take Back Plenty le trovate non mancano e tra il susseguirsi di sorprese e colpi di scena, inseriti in un plot che non sbanda mai dal binario principale mantenendo dall'inizio alla fine una sua coerenza e una sua compattezza narrativa, la lettura procede agevolmente fino alla cataclismatica conclusione della storia.
Capisco dunque il gradimento espresso da più parti per questo romanzo. In effetti, se vi piacciono le atmosfere della space opera tradizionale, è probabile adorerete anche Take Back Plenty, ma se i vostri riferimenti fantascientifici sono altri, beh… forse è meglio lasciar perdere.

01 novembre 2012

Tre Calzini

© giorgio raffaelli
Ieri Tre Calzini ci ha lasciati. Viveva con noi da 18 anni e mezzo, ed era l'ultima sopravvissuta della cucciolata che Davis e Marta, i nostri primi compagni felini, han sfornato nell'aprile 1994.

È stata un po' sfigata, questa gatta: ha perso subito una zampa alla nascita. Sua madre stremata dal parto di cinque cuccioli non era riuscita a ripulirli di cordoni ombelicali e placente, che si sono avvolti intorno alla zampa posteriore di uno dei mici. A poco è servito chiamare un veterinario che dopo aver liberato la zampetta ci ha consigliato di attendere una notte per vedere se si sarebbe ripresa: il giorno dopo la zampa non c'era più. Ci aveva pensato mamma gatta.

Nonostante la zampa in meno Tre Calzini (un nome a quel punto inevitabile…) se la passava piuttosto bene. Quando ci siamo trasferiti fuori Modena, quattro anni più tardi (della cucciolata ci hanno seguito lei e la sorella Diesel, gatta spericolata con un paio di tuffi dal terzo piano all'attivo),  è diventata in fretta la padrona del cortile. Senza la sua autorizzazione nessuno, uomo gatto o cane, poteva osare occupare i suoi spazi.
Negli anni che son seguiti abbiamo ospitato un sacco di altri felini insieme a Davis, Marta e Tre Calzini, chi prima chi dopo ci han tutti lasciati. Nonostante nel 2003 sia stata investita da un'auto, Tre Calzini è l'unica che ha resistito per tanti anni. Quando la trovammo dopo l'incidente, con un'occhio fuori dall'orbita e la lingua penzoloni non le avremmo dato un giorno di vita e invece…
In quell'occasione si fratturò la mandibola e  perse un occhio, ma - ehi! - 'sta gatta sembrava davvero immortale e nel giro di qualche settimana zompettava di nuovo in giro come niente fosse. Certo, nel frattempo aveva messo su un caratterino piuttosto particolare, compreso  un inquietante cambio del tono del suo miagolio. Credo sia stato da allora che Tre Calzini è diventata la nostra gatta mannara.
E per confermare carattere e personalità ha scelto proprio il giorno di Halloween per uscire di scena.

Per salutarla mi pare sia perfetto che quel che Annalisa ha scritto ieri su FB:
"Un calice alzato per Tre Calzini, nostra imperitura (ora non più) gatta mannara che ha deciso di lasciarci oggi, nella notte di Halloween. Proprio lei che ha vissuto ben 18 anni con tre zampe e un occhio solo. Unica sopravvissuta della stirpe di Davis e Marta. E qui finisce un pezzo della nostra storia."




31 ottobre 2012

Letture: Wesley Stace, Joe Haldeman, Gianluca Morozzi

© giorgio raffaelli
Prima di procedere con un'altra serie di note sulle letture degli ultimi mesi avrei un dubbio che mi piacerebbe mi aiutaste a risolvere.
Mi è stato fatto notare che negli appunti che posto manca molto spesso qualsiasi riferimento alla trama del libro che commento. Inserisco di rado riassunti o accenni alla trama perché vedo queste note come un modo per riflettere sull'esperienza di lettura piuttosto che come vere e proprie recensioni. Più che rivolgersi ai potenziali lettori sono un tentativo di dialogo con chi il dato testo l'ha già letto. Mi rendo conto che è un punto di vista piuttosto personale e non so quanto condivisibile, ma - ehi! - se ne può parlare.
Mi rivolgo quindi ai visitatori del blog cui capita di prendere spunto da queste note per le prossime letture:  nei post letterari futuri vorreste comparisse qualche riferimento alla trama nella narrativa che commento?
Nell'attesa di dirimere la questione, ecco qualche altro libro, più o meno interessante, più o meno memorabile.

Wesley Stace - La ballata di Miss Fortune
Un romanzo, una ballata, una canzone. Nel ritornello le difficoltà di un'identità sessuale confusa, che quando nasci maschio e cresci nelle vesti della fanciulla del castello è difficile venirne a capo; nelle strofe la crescita e gli incontri, i buoni e i cattivi, la scoperta del sesso e la disperazione dell'amore.

Ho scoperto La ballata di Miss Fortune grazie a un post di Davide Mana e me ne sono rapidamente innamorato. Wesley Stace percorre con una leggerezza sorprendente il sentiero del disagio. Racconta di travestiti e follia con una dimestichezza confortante, mescola dolcezza e humour e dramma e avventura in una melodia avvincente, con il ritmo delle migliori ballate popolari e un sapore indicibilmente inglese. L'ottocento di Miss Fortune appare più vero del vero, dalle strade lerce di Londra alla campagna luminosa che racchiude nel suo splendore i segreti dei nobili nei loro manieri. Ancor più vero, nonostante l'impianto evidentemente romanzesco, è il racconto di un sesso negato e travestito, dei rapporti tra uomini e donne vincolati agli usi sociali, alle consuetudini familiari, alle necessità del corpo, narrati in modo magistrale per sensibilità di tocco e prospettiva.

Wesley Stace è anche un'abile musicista (e nel romanzo si percepisce netta l'attenzione e il debito verso musicanti, poeti e cantori) che suona e canta con lo pseudonimo di John Wesley Harding. Da qualche tempo gira nel mio lettore Who Was Changed And Who Was Dead e se è forse troppo facile stabilire parallelismi tra romanzo e musica, a me pare che, ad averne conosciuta la voce, riconosci il timbro di Wesley Stace anche tra le parole de La ballata di Miss Fortune.



Joe Haldeman - Verso le stelle

Verso le stelle (Starbound in originale) è il secondo romanzo di una trilogia che vedrà in Earthbound (uscito nel dicembre 2011 negli Stati Uniti e, immagino, di prossima pubblicazione per Urania) il suo capitolo conclusivo.
Come già annotavo nel post dedicato a Dula di Marte, primo romanzo del trittico, anche in Verso le stelle Joe Haldeman conferma tutte le caratteristiche che rendono piacevole la lettura della sua fantascienza: attenzione al realismo, buona immaginazione, personaggi che si fanno ricordare, tono leggero e un sacco di mestiere.
In Verso le stelle non c'è nulla che il lettore di fantascienza non abbia già incontrato altrove. L'abilità di Haldeman sta tutta nella capacità di fare confluire elementi classici in un contesto attuale, narrando il tutto con una voce personale e riconoscibile. I suoi romanzi non saranno nulla di memorabile, ma rimangono tra le letture più piacevoli nel settore.



Gianluca Morozzi - Colui che gli dei vogliono distruggere

Buongiorno, mi chiamo Iguana e ho un problema con i supereroi.
Dopo un periodo piuttosto lungo di full immersion fumettistica terminato alla fine degli anni '90,  ho abbandonato il genere con qualche rimpianto e un gran senso di liberazione, che la lettura delle decine tra albi Marvel, Dc e compagnia che uscivano ogni mese era diventata un'abitudine più che un piacere.
Quando poi nel decennio sucessivo sono iniziati a uscire i primi blockbuster hollywoodiani che esploravano l'universo supereroistico sono andato diligentemente al cinema a godermi le avventure di X-Men e Uomo Ragno, ho apprezzato l'approccio di Shyamalan al genere, ma già con i Fantastici Quattro e quindi con gli ultimi Batman ho iniziato ad annoiarmi, per arrivare poi ai Vendicatori di quest'anno e non poterne francamente più.

Ma al mondo colorato ed eccessivo dei supereroi ci sono comunque affezionato e quando, girando per bancarelle, m'è capitato tra le mani Colui che gli dei vogliono distruggere di Gianluca Morozzi non ho resistito e me lo sono portato a casa. Per riconciliarmi con quel mondo scelta non poteva essere più felice.

Prima di questo romanzo conoscevo Gianluca Morozzi solo di fama, grazie a un paio di post letti in rete che avevano stimolato la mia curiosità, ma gli bastano poche pagine e Colui che gli dei vogliono distruggere mi ha già conquistato: l'azione parte a pochi minuti da casa mia e poi spazia senza sforzo apparente tra New York e l'Emilia e il deserto, avanti e indietro nel tempo, saltellando agevolmente tra universi paralleli e vicoli  bolognesi.
Gianluca Morozzi è abilissimo a giostrare tra realtà fumettistiche e quotidianità, mescolando supereroi e rock'n'roll, riferimenti a storie precedenti (ho poi scoperto che la rock band dei Despero, che compare nel libro, è protagonista del suo omonimo primo romanzo), un tocco di fantascienza mica da poco e una meravigliosa idea che fonde le varie anime del romanzo in unico scenario coerente. E non ho nemmeno accennato ai personaggi… Vabbé, voi leggetelo, e poi sappiatemi dire.
Per me quello con Colui che gli dei vogliono distruggere è stato l'incontro librario più fortunato dell'anno, nonché la miglior lettura italiana del periodo, dentro e fuori dal genere. 

25 ottobre 2012

Silenzio

Inquadriamo il contesto.
Sono mesi che mio figlio mi frantuma i timpani con tutto l'hip-hop possibile: italiano, americano, francese, olandese… Sono mesi che provo a seguirlo nelle sue esplorazioni musicali, che può sempre capitare di ascoltare qualcosa di sorprendente.

Per quanto riguarda il rap dal resto del mondo, beh… sospendo il giudizio, che se il suono è mediamente superiore a quello proposto dai colleghi italiani la barriera linguistica non mi rende particolarmente  partecipe all'ascolto.
In questi mesi di full immersion una cosa però mi è diventata ormai piuttosto chiara: il rap italiano è tremendo. Se non hai più 14 anni da un po', per lo meno.
La musica suona troppo spesso come un assemblaggio casuale di effetti speciali prodotto da bimbi  tourettiani alle prese con un mixer iperdotato. Le parole, bah… quando va bene sono derivative e autoreferenziali, ma nella maggior parte dei casi esprimono una rabbia buona per MTV, grondano bad attitude e machismo d'accatto, con una sequela di lamentazioni su come il mondo ce l'abbia su con loro che dopo un po'… basta.

Ok. Sono vecchio, e mi mancano le schitarrate distorte con cui sono cresciuto. Mi manca quel senso di verità che certa musica riusciva a trasmettermi. Perché ok, la musica non mi piace, le parole non mi piacciono, ho una certa età, l'ho già detto, ma mi pare che quel che più manca nel rap che ascolta mio figlio sia l'autenticità, caratterizzato com'è da una rincorsa esasperata a modelli altri, trapiantati in un contesto locale che ne viene schiacciato, violentato, umiliato.
Ma probabilmente le stesse parole potrebbero essere detto per moltissime altre forme di espressione, giovanili o meno. Dopotutto lo dicevano già i buoni fantascientifici di una volta: il novanta per cento della produzione all'interno di un dato genere è spazzatura. Bisogna dunque mettersi a cercare le perle che emergono dalle sabbie mobili del pattume generale.
Queste perle per fortuna esistono. Un giorno forse parleremo di Salmo, che mi sembra abbia un approccio più maturo della media, un sentire più disperato, nella cui rabbia totale si percepisce - attitudine a parte - un'effettiva necessità di comunicare. Ma oggi voglio spendere due parole su Rancore & DJ Mike, che hanno fatto appena uscire Silenzio, un disco che sta al rap italiano come Iain Banks sta a Isaac Asimov.



Basta ascoltare i primi minuti di Capolinea per rendersi conto delle differenze sostanziali tra Rancore & DJ Mike  e la scena hip-hop nazionale. Dopo di che non rimane che calarsi nei ritmi e nelle dissonanze di Silenzio per capire quanto sia profondo il solco che separa l'attitudine pop-ruffiana della stragrande maggioranza del rap nostrano dalla ricercatezza e dalla complessità che emerge dalle canzoni di questo disco.
Silenzio è un progetto complicato, richiede un ascolto attento, vuole impegno e dedizione, è tutto tranne che facile. Rivela una consapevolezza e una narrativa parecchio distante dai modelli pedissequamente ricalcati dalle crew italiane. Partendo da una base condivisa si rivolge e si confronta e cerca un pubblico che non so quanto sia probabile esista là fuori.

Ho fatto molta fatica ad ascoltare Silenzio dall'inizio alla fine, un po' perché ormai assuefatto all'ascolto veloce e distratto che ultimamente caratterizza il mio rapporto con la musica, un po' perché, comunque la si voglia mettere, il rap non è il mio genere e l'ignoranza paga dazio. Ma le parole di Rancore mi hanno comunque catturato e costretto all'ascolto.
Non è un risultato da poco.

(28.10.2012 update: corrette un paio di frasi: pare che la definizione duo romano usata per decrivere la coppia Rancore & DJ Mike non corrisponda a verità.)

18 ottobre 2012

Letture: Schmidt, Year's Best, McCaffrey, Stross, King

Dopo la parentesi appennino-fotografica eccomi di nuovo a parlare di libri. Quella che segue è una raffica di note per ricordarmi qualcuno dei libri letti negli ultimi mesi. Come annotazioni sono piuttosto scarne, ma come accennavo qualche tempo fa, questa è l'unica soluzione che ho trovato per smaltire le letture trascorse.
Se avete voglia di approfondire questo o quel volume non avete che da farvi avanti.
© giorgio raffaelli
Arno Schmidt - Specchi neri
 Fino a qualche mese fa non avevo mai sentito parlare di Arno Schmidt, poi sono incappato in questo articolo di Alessandro Fambrini sul primo numero di Anarres. Per una recensione di Specchi neri seria, competente e appassionata vi rimando dunque a quell'articolo, da parte mia aggiungo che il romanzo di Arno Schimdt è al momento la miglior lettura dell'anno.
Specchi neri è un romanzo di fantascienza post-apocalittica, è un testo allegramente nichilista, è un esercizio di scrittura d'avanguardia per il suo stile libero e spregiudicato che, è vero, costa qualche sforzo in più al lettore occasionale, ma offre in cambio qualcosa che non trovo troppo spesso nelle mie solite letture: un nuovo punto di vista, uno sguardo lucido e luminoso in diretta dal centro autodistrutto del mondo.
Se non avete tempo o voglia di leggervi l'articolo di Fambrini e siete alla ricerca di paragoni immediati, posso aggiungere che Specchi neri si colloca agli antipodi de La strada di Cormac McCarthy. Entrambi ambientati in un mondo senza speranza, il romanzo dell'americano evoca continua la disperazione e il vuoto che circonda i sopravvissuti, esaltati dal continuo confronto con la loro umanità. Specchi neri al contrario riverbera negli occhi del narratore i colori di un mondo nuovo che, liberatosi del fardello umano è finalmente pronto a cessare di esistere, alla faccia di tutto ciò che di grande, o di misero, l'uomo ha realizzato nella Storia.
Specchi neri è una felice elegia della fine. Nel ritratto dell'apocalisse che Arno Schmidt offre al lettore la mancanza di speranza non è vissuta come una condanna, piuttosto come una liberazione.


A cura di David G. Hartwell & Kathryn Cramer - Vennero dal futuro
La traduzione italiana della raccolta annuale del meglio della produzione fantascientifica breve dell'anno è uno dei pochi motivi per cui essere grati a Urania. Pubblicato col titolo Vennero dal futuro nel Millemondi estivo dell'anno scorso, l'antologia curata da Hartwell & Cramer è un ottimo compendio di ciò che di buono è stato pubblicato nel mondo anglosassone nel 2007. L'appuntamento annnuale con lo Year's Best è anche un ottimo punto d'osservazione sulle tendenze e le suggestioni che più hanno caratterizzato la produzione del periodo.
Se c'è un tema che ritorna più volte nel corso del volume mi pare sia quello della vecchiaia, della memoria, del ricordo di sé (penso soprattutto ai racconti di Wolfe, Kessel, Egan, Watts, Jones). La fantascienza non è però così asfittica e terminale da doversi avvolgere su se stessa e declinare all'infinito uno o due argomenti e anche nel 2007 i racconti sorprendenti, originali e meravigliosi non mancano.
Come sempre accade con queste antologie, ognuno ha i suoi racconti preferiti e quelli che invece bleah. Tra quelli da ricordare in Vennero dal futuro ci sono Terza persona di Tony Ballantyne, originale visione di guerra futura in una struttura narrativa piuttosto inquietante (e parecchio sorprendente!); Reclutamento di Greg Egan, una storia di speranza ed esplorazione che, come è tipico dell'autore australiano, è capace di infondere un ragionevole ottimismo anche in questi tempi cupi; il cattivissimo Pirati della costa somala di Terry Bisson, che mi ha sorpreso con una storia di turismo e violenza davvero perfida; infine Sanjeev e il robotista di Ian McDonald, rileggerlo in italiano (è il racconto che apre Cyberabad Days) non è la stessa cosa, ma rimane un ottimo racconto in cui si mescolano sogni adolescenziali, robot giganti e un'India in perenne trasformazione.


Anne McCaffrey - Il volo del drago
Dalle stelle alle stalle, è questo il leitmotiv del romanzo che tanta gloria diede ad Anne McCaffrey nei lontani anni '60: l'ascesa e la caduta dell'umanità di Pern, la caduta e l'ascesa di Lissa, eroica fanciulla protagonista del romanzo e dei dragonieri con lei, e poi stelle e stalle sono i luoghi d'elezione della vicenda: la stella rossa che minaccia il pianeta, le stalle dove crescono i draghi del titolo.
Dalle stelle alle stalle riassume in maniera egregia anche la parabola della considerazione in cui tenevo questo libro nel tragitto dalla libreria alla poltrona e ritorno: purtroppo per il lettore i decenni trascorsi dall'uscita de Il volo del drago si sentono tutti e oggi il romanzo si fa notare solo per la quantità di stereotipi maschili e femminili che vi compaiono, oltre che per uno sviluppo narrativo piuttosto ovvio, date le premesse. Per fortuna ci sono i draghi, ma è un po' poco per salvare il volume.


Charles Stross - Rule 34
Più leggo Charlie Stross più lo trovo brillante. Ogni suo romanzo alza leggermente l'asticella per chiunque voglia cimentarsi nel racconto del prossimo futuro. Non dev'essere affatto facile confrontarsi da autore con 'sto tizio che non solo traccia le mappe del nostro futuro con una leggerezza sorprendente, ma ci infila pure personaggi stuzzicanti, plot incredibili e riflessioni mai banali sull'universo la vita e tutto quanto, compreso sesso, spam e ai. Anzi, partendo proprio da sesso, spam e intelligenza artificiale. (Dopotutto la regola n. 34 della rete dice che se qualcosa esiste, esiste della pornografia che la riguarda.)
Rule 34 è il seguito di Halting State, con cui condivide un paio di personaggi e l'ambientazione scozzese, ma è leggibile anche autonomamente (certo che lasciar perdere Halting State sarebbe piuttosto sciocco), ma soprattutto ne rappresenta l'ideale prosecuzione dal punto di vista dell'analisi dell'evoluzione delle tecnologie di controllo e sorveglianza, nonché una spericolato viaggio nel crimine organizzato nei primi decenni del III millennio.
Secondo me è una lettura obbligata per chiunque sia interessato al mondo che verrà, ed è pure molto divertente!


Stephen King - La canzone di Susannah

A che capitolo siamo arrivati? Ah già. La canzone di Susannah è il sesto e penultimo capitolo della saga della Torre Nera.
Cosa aggiungere a quanto già detto nelle note sui  precedenti volumi dell'eptalogia?
Forse mai come in questo volume si dimostra tutto il mestiere e l'abilità del suo autore, che riesce a riempire le 500 pagine della mia edizione italiana del testo infilandoci giusto un paio di sparatorie, il travaglio di una donna incinta e pochissimo altro. Che poi in questo pochissimo altro compaia pure l'autore in persona non è che la ciliegina sulla torta.
Stephen King è un prestigiatore della parola, capace di ogni trucco e illusione. Ma la magia è un'altra cosa.

13 ottobre 2012

Via degli Dei. Le foto.

© giorgio raffaelli
Ecco il link per dare un'occhiata alle foto scattate lungo la Via degli Dei la settimana scorsa.

Buon divertimento!

12 ottobre 2012

Via degli Dei. Appunti di viaggio, seconda parte.

(prosegue da qui)

© giorgio raffaelli



Terza tappa 
Madonna dei Fornelli - Pian di Balestra - Piana degli Ossi - Passeggere - Traversa.
Distanza: 15 km ca. Partenza ore 8.50, arrivo ore 15.00.

Massimo arriva puntuale a Madonna dei Fornelli alle otto del mattino. Finisco di far colazione, facciamo preparare un paio di panini e siamo già in marcia.
Siamo una strana coppia io e Massimo. Lui arriva dal profondo sud, io dall'estremo nord, lui piuttosto preciso e metodico, io decisamente più cazzone e disordinato. Ci conosciamo da oltre vent'anni, complice una convivenza casuale ai tempi dell'università, ma credo sia la prima volta che ci si ritrova da soli per una camminata di qualche giorno.

La giornata è splendida e il ginocchio tiene botta mentre iniziamo a salire verso Pian di Balestra con buon passo e ottimo umore.
Alla prima sosta vediamo un'altra coppia di camminatori che percorrono lo stesso sentiero, uno sguardo curioso, un saluto e sono già andati. Nonostante gli zaini più carichi dei nostri hanno un bel passo veloce.
Altra sosta, un'oretta più tardi, ed ecco tre ragazze, anche loro sulla stessa rotta. Ci si controlla da lontano, ma ognuno rimane per le sue.
La strada però è una sola e diventa quindi inevitabile incontrarsi più volte nel corso della giornata. Dall'annusarsi da lontano si passa al cenno di saluto, allo scambio d'informazioni, alla chiacchiera rilassata. Claudio e Massimiliano, i due escursionisti incontrati per primi, sono partiti da Bologna il giorno precedente (il che significa che hanno percorso qualcosa come 40 km in un giorno solo!), dormono in tenda (e hanno quindi  uno zaino che pesa una dozzina di chili!) e sono decisi a percorrere tutta la Via degli Dei in quattro giorni. A vederli così brillanti dopo un giorno e mezzo di cammino non avranno alcun problema ad arrivare fino in fondo!
Anche le ragazze, Sarah, Silvia e Cristina, son partite da Badolo di giovedì (scopriamo che era San Petronio, che significa ponte! per i bolognesi), hanno zaini che paiono la metà dei nostri (e noi subito a chiederci quanta roba inutile abbiamo con noi. Nulla, apparentemente, eppure…) e un passo bello spedito. Tra una chiacchiera e l'altra ci dicono che c'è un'altra coppia bolognese sulla via e che probabilmente la incontreremo una volta arrivati a Traversa, meta che oggi condividiamo in parecchi.

© giorgio raffaelli
Il sentiero che conduce verso il passo della Futa è immerso nel bosco, di castagni prima, di faggi poi, con qualche abetaia a variare il panorama. Finché saliamo non ho problemi nel ritmo della marcia. Quando invece il sentiero scende ripido, come nell'ultimo tratto che conduce a Traversa, il ginocchio sinistro inizia a darmi segnali mica tanto positivi. Arriviamo comunque nei tempi previsti all'Albergo ristorante da Jolanda, raggiunti pressoché in contemporanea dagli altri compagni di via. Un'oretta più tardi arrivano anche Anna e Lorenzo, che le ragazze conoscono già: hanno avuto un leggero contrattempo quando sono incappati in un gregge di pecore e si son visti il sentiero bloccato dal cane pastore che le sorvegliava.
Claudio e Massimiliano, che in primo tempo dovevano fermarsi oltre la Futa, decidono che la compagnia gli piace, piantano la tenda dietro l'albergo e ci danno appuntamento per cena.

La cena da Jolanda, a base di carne alla griglia e vino toscano è un gran bel momento. Nove persone prima sconosciute che si ritrovano a condividere la stessa tavola dopo aver calcato la stessa strada, ognuno con la sua storia che confluisce nella via percorsa insieme. Bello. Bello. Bello.
La serata è uno di quei momenti che capitano di rado. Momenti in cui ognuno offre il meglio di sé, senza vacui protagonismi, senza menate o falsa allegria. Siamo stati bene insieme, e a volte è tutto quel che serve sapere.



Quarta tappa

Traversa - Passo della Futa - Monte Gazzaro - Passo dell'Osteria Bruciata - Sant'Agata - Gabbiano.
Distanza: 25 km ca. Partenza ore 9.00, arrivo ore 17.00.

Del quarto giorno sulla Via degli Dei ricordo il saluto mattiniero a Claudio e Massimiliano, che hanno anticipato la partenza nella speranza di riuscire a campeggiare dalle parti della Badia del Buonsollazzo, qualche ora di cammino più avanti rispetto alla nostra fine tappa.
© giorgio raffaelli
Ricordo le nuvole che giocavano con il sole e gli alberi e noi che ci godevamo gli straordinari effetti di luce che vedete nelle foto. Ricordo il viaggio in comitiva, che non è proprio il mio genere di cammino per sentieri e montagne, ma che per una volta si può anche fare. Ricordo la salita al monte Gazzaro, che poi da lì sarebbe stata tutta discesa, per venti chilometri, e tanti saluti alle mie speranze di mantenere un ginocchio sano. Ricordo le decine di cacciatori sparsi coi loro cani per tutto il bosco ed è ben inquietante veder tanta gente armata che gira tranquilla in grigio verde accanto a te. Ricordo i motociclai, con le loro moto da cross, sentiti per decine di minuti a rompere la quiete della foresta, prima e dopo la fugace visione del loro passaggio.
Ma soprattutto ricordo il panorama del Mugello, vuoto di case e pieno di verde, l'andamento dolce di quelle montagne e il fondovalle coi filari d'alberi lungo le strade e i paesi circondati dai campi. Me ne rendo conto: detto così non pare molto diverso dalla vista del versante bolognese dell'Appennino, eppure a passarci attraverso si nota netta la differenza: anche l'aria ha un sapore diverso.

A proposito di sensazioni diverse.
Le Dolomiti sono le mie montagne, quelle in cui sono cresciuto, quelle che per me rimangono il riferimento principale quando penso alla montagna. Camminare negli Appennini è un'altra cosa. Non meglio o peggio: diverso. Le Dolomiti sono un luogo senza mezze misure: ci cammini d'estate, le salite e le discese te le ricordi a lungo, ci sono i rifugi e in genere un sacco di gente in giro, sono silenziose e impressionanti. L'Appennino tosco-emiliano lo percorri preferibilmente in primavera o in autunno, non ti ricordi i picchi del sentiero, ma ti ricordi il suo scorrere; niente rifugi, poca gente, ma un rumore di fondo (dagli alberi, dai dintorni abitati) che è spesso percepibile. L'Appennino da un senso di continuità al tuo cammino quando invece il cammino sulle Dolomiti è fatto di strappi e interruzioni. L'Appennino è dolce, le Dolomiti sono dure: la terra stessa che calpesti è diversa.
Forse è nella natura stessa di questo luogo la capacità di avvicinare le persone, che difficilmente gli escursionisti percorrono i sentieri delle Dolomiti in gruppi numerosi. O forse è il senso di solitudine ad avvicinare le persone. Solitudine che si percepisce ben più forte a queste latitudini, circondati insieme dalle rocce friabili che cedono sotto il tuo passo e dalla quantità di storia che è passata per lo stesso sentiero su cui stai camminando ora.

Camminando insieme siamo arrivati fino a Sant'Agata, per un caffè e una pausa nel bar del paese, e poi insieme fino a Gabbiano dove le nostre strade si son divise. Non prima di un ultimo momento di divertito stupore, quando un gregge di centinaia di pecore ha invaso la carreggiata sterrata e di corsa ci ha sorpassati sulla via per l'ovile.
© giorgio raffaelli
Io e Massimo ci siamo fermati al Bed & Breakfast La gabbianella e i gatti e scelta non poteva essere più felice. L'accoglienza che ci han riservato i padroni di casa e la cena in loro compagnia son cose che non dimenticheremo facilmente. Un grazie di cuore a Paolo che ce lo ha consigliato!



Quinta tappa

Gabbiano - San Piero a Sieve.
Distanza: 6 km ca. Partenza ore 8.00, arrivo ore 9.00.

© giorgio raffaelli
Abbiamo lasciato la Via degli Dei con un po' d'amaro in bocca. Al mattino sveglia presto, e dopo un'abbondante colazione alle otto eravamo già in strada verso San Piero a Sieve, per ricongiungerci al resto della compagnia e proseguire fino a Fiesole. Nei chilometri che ci separavano dal paese (mannaggia a noi, abbiamo pure sbagliato strada…) l'asfalto sotto i piedi ha dato il colpo di grazia al mio ginocchio.
Giusto il tempo per un saluto e il resto del gruppo è ripartito alla volta di Monte Senario, e poi giù fino a Fiesole e poi Firenze. Smettere di camminare su quelle strade è stata dura, tanto che non appena è arrivato il nostro amico Claudio per darci un passaggio verso casa non abbiamo rinunciato a fare un salto fino a Bivigliano e al monte che lo sovrasta, un po' per dare un saluto al cammino, un po' per renderci conto di cosa ci siamo persi: i paesaggi di questa tappa ci sono sembrati davvero spettacolari anche visti da lontano.

Vabbé, ci saranno altre occasioni. Se non sulla Via degli Dei, su altre strade, su altri sentieri, che solo camminare è capace di regalare certe sensazioni.

10 ottobre 2012

Via degli Dei. Appunti di viaggio, prima parte.

© giorgio raffaelli
Prima di partire per qualsiasi viaggio si hanno delle aspettative, ci si immagina eventi e situazioni, si spalancano occhi e cervello per accogliere la nuova esperienza. Poi si parte e succeda quel che deve succedere.
I miei cinque giorni sull'Appennino, per le strade e i sentieri della Via degli Dei, si sono rivelati piuttosto diversi da come me li aspettavo. Le sorprese positive sono state tante e soddisfacenti al di là di ogni previsione. C'è stato anche qualche risvolto negativo, e ne avrei fatto volentieri a meno, ma nel complesso ripartirei domani, tanto gli aspetti positivi han superato le sfighe lungo il cammino.

In questo post e nel prossimo cercherò di riassumere in qualche nota i ricordi che altrimenti evaporerebbero, un minimo di cronaca della camminata e qualche osservazione sorta qua e là, durante il cammino e dopo. Poi ci saranno le foto, chi mi conosce sa che non mi muoverei mai senza macchina fotografica, ma per vederle tutte ci vorrà ancora qualche tempo.

Salvo i dati logisitici, queste note non seguono uno schema fisso,  rispecchiano piuttosto l'approccio al cammino, che è cambiato di giorno in giorno, modificato dagli eventi e dagli incontri.


Prima tappa
Sasso Marconi - Prati di Mugnano - Monte Adone - Brento - Monterumici - Monzuno.
Distanza: 22 km ca. Partenza ore 9.20, arrivo ore 16.00.

Persone a zonzo, la maggior parte per lavoro, qualcuno con i bambini in ritardo per la scuola o ancora piccoli, altri a far la spesa. Io arrivo, parcheggio, tiro fuori lo zaino dal baule e parto. Occhiate curiose, ma da queste parte quanti ne avranno già visti.
Qualche centinaio di metri e sono fuori dal paese, tra viadotti, ponti e sottopassi, tra camion e rappresentanti che vanno di fretta. Dura poco ma è sufficiente a dare l'impressione che il sentiero che si dipana da quello sputo di bosco sporco ai margini della strada sia una vera e propria via di fuga dalla luce cruda del cemento, verso l'alto, nell'oscurità degli alberi. Un'avventura a misura di piedi, più che di mani sui volanti.
Mezz'ora di salita in un bosco che sa ancora di strada e città e poi - voilà! -  i prati di Mugnano, che sbucano improvvisi dopo un dosso, luminosi di erba e nuvole. Un prima sopresa: c'è una scolaresca a colorare una mattina che prevedevo completamente solitaria. Sguardi stupiti e sorrisi nel vedermi saltare fuori dal bosco, zaino in spalla e passo (ancora) svelto.
Più avanti sul sentiero arriva il regalo fotografico che non t'aspetti. Sono dalle parti di Poggio dell'Oca, sopra Badolo. Ai margini della strada bianca che sto percorrendo tra boschetti, villini e campi coltivati, spunta l'abitacolo rugginoso di non so quale veicolo, in giro da almeno sessant'anni. Non sono in grado di riconoscere marca o modello, ma datemi della ruggine, e sono già contento.

© giorgio raffaelli
Fino alle pendici del monte Adone il percorso è vario, si alternano tratti in terra battuta nel bosco,  strade sterrate, brevi tratti asfaltati. La giornata è ideale per camminare, calda senza essere afosa e ventilata. Mi ritrovo spesso a camminare con un sorriso idiota stampato in faccia.
Di quanto incontrato lungo la strada voglio ricordare le decine di microlucertole che attraversano il sentiero, praticamente ovunque, le urla delle scimmie, invero piuttosto inquietanti, che mi hanno accompagnato per tutto il perimento del centro fauna esotica di monte Adone, la salita verso la cima dello stesso (una salita anche qua che siamo quasi ancora in pianura! ripida! esposta! wow!), la discesa verso Brento, ringraziando il sole, che con quell'argilla liscia liscia e compatta sotto i piedi anche una pioggerellina rischia di diventare pericolosa. E poi il cerbiatto che mi ha attraversato la strada sotto il paese, e il verde alieno, brillante, praticamente psicotico, dell'erba all'inizio dello sterrato intorno a Monterumici.

E infine la nota negativa che va a coronamento di una giornata altrimenti perfetta: i quasi sei chilometri d'asfalto che separano Monterumici da Monzuno. È senza alcun dubbio o rimpianto l'unico tratto della Via degli Dei che, se tornassi indietro, rifarei aspettando una corriera o chiedendo un passaggio. Quel tratto di strada alla fine della tappa, sommato alla stanchezza che inizia a farsi sentire e all'averlo percorso con gli scarponi ai piedi, invece di infilami un paio di scarpe più leggere, mi ha regalato l'infiammazione al ginocchio che mi ha assillato nei giorni successivi. Ma ormai è andata così, ed arrivare a Monzuno è stata insieme una gioia e una liberazione.


Seconda tappa
Monzuno - Monte Galletto - Madonna dei Fornelli.
Distanza: 11 km ca. Partenza ore 9.20, arrivo ore 14.00.

© giorgio raffaelli
Dopo una prima tappa piuttosto impegnativa, almeno per i miei standard, avevo deciso di tenermi una tappa più breve per il secondo giorno. Scelta migliore non potevo farla: con il ginocchio malandato che mi son ritrovato al mattino, una tappa riposante era quel che ci voleva per prepararmi ai giorni a venire.
I sentieri che collegano i due comuni dell'Appennino bolognese scorrono in un morbido saliscendi tra noccioli e castagneti, per sbucare poi tra i colli spelacchiati del monte Galletto dove l'impianto eolico che caratterizza la cima è in via di ristrutturazione/ricostruzione. La presenza di un cantiere a cielo aperto in cima al monte non è certo la migliore introduzione a Madonna dei Fornelli, Poi però la discesa tra casolari e campi con qualche albero a far ombra al viandante e la vista che si spande a tutta l'alta valle del Savena riescono a risollevare lo spirito e a far dimenticare in fretta i camion e le betoniere incontrati poco prima.

A 'sto punto bisognerebbe forse spendere qualche parola sugli alberghi che ospitano gli escursionisti lungo la via. Il giudizio sull'ospitalità fornita dalle strutture che ho visitato è senz'altro positivo: stanze pulite, letti comodi, bagni minimi ma adeguati alle necessità del viaggiatore. C'è però da aggiungere che la visita in questi periodi fuori stagione, con le sale da pranzo pressoché deserte, le luci basse per non sprecar corrente, l'arredamento d'antan e la televisione sempre accesa mettono una tristezza notevole. Immagino che poter cenare al bar, sempre presente in questi alberghi, con i tavoli pieni di giocatori di carte e il resto della varia fauna indigena che frequenta 'sti posti sarebbe stata esperienza più interessante.
Ma probabilmente queste son fisime da viaggiatore solitario, come si vedrà nel prossimo post.

(segue…)

02 ottobre 2012

Via degli Dei. Alcune considerazioni prima di partire.

© giorgio raffaelli
Domani è il grande giorno. Il sentiero che collega Bologna a Firenze è lì che mi aspetta. Lo zaino è quasi pronto. So dove dormire e ho un amico che mi accompagnerà per un tratto di strada. Il tempo sembra che tenga, anche se poi vai a sapere. La rotta è tracciata. Si parte.
Vi lascio con alcune considerazioni nate in queste ultime ore prima di mettersi in viaggio, da verificare lungo la strada.

- Camminare è un lusso.
Lasciate pure che dicano quel che vogliono, ma potersi permettere cinque giorni da trascorrere in un viaggio come quello che mi aspetta, cinque giorni di fatica e di sudore, con la pioggia o sotto il sole, te lo puoi permettere solo se stai bene, se hai un lavoro decente e qualcuno che ti aspetta a casa.
Sì, sono fortunato.

- Camminare regola le distanze.
La distanza fisica, quella delle ore di marcia, dei chilometri fatti e quelli che mancano all'arrivo, questa distanza è completamente sotto controllo, dipende da te e da nessun altro.
La distanza dal paesaggio si azzera. Sei lì, niente filtri, niente scappatoie: se piove ti bagni, se inciampi cadi, se è bello godi, al ritmo del tuo passo.
La distanza aumenta con chi nei posti che attraversi ci vive invece tutto l'anno. Non farti illusioni, il tuo passaggio è quello di un turista, per quanto tu vada lento, in un momento arrivi, quello successivo è come non ci fossi mai stato. La vicinanza è tutta negli istanti, e ci vuole fiuto, e ci vuole fortuna.

- Camminare è conoscenza.
Di te stesso soprattutto, che non sono più abituato a stare da solo, in silenzio, per giornate intere. E questo è già un motivo sufficiente per partire.

- Camminare è semplice.
Lo può fare chiunque: alzi un piede, ne alzi un altro. Niente di speciale. Camminare non è una gara, non è un impresa, è un modo come un altro di passare il tempo. Camminare non rende migliori se non vuoi che lo faccia e la stessa cosa la puoi dire per qualsiasi attività tu decida di fare.

- Camminare è bello.
L'ho già detto, per me camminare è l'attività che più si avvicina alla meditazione. Libera e rigenera, insegna e protegge. E poi tonifica l'organismo ed è capace di rimetterti in forma. Anche se, almeno in questo senso, giocare a rugby è comunque più divertente.

- Camminare è faticoso.
…e lungo. Se lo scopo era andare a Firenze, in un'ora di macchina ci arrivavo.
Quel che importa è la strada, non la destinazione.

Ci si rivede la prossima settimana.

26 settembre 2012

La questione del dorso

© giorgio raffaelli
Avete presente Mr. Wolf? Modestia a parte, io sono il suo corrispettivo locale. Non lavoro per le strade di Los Angeles a gestire sangue e frattaglie. Lavoro più umilmente in tipografia e i problemi con cui ho a che fare riguardano impaginati e caratteri, sbordi e sovrastampe, riserve e quadricromie.
In tanti anni di onorata professione ho risolto i problemi più vari, cercando di portare un po' d'ordine nel complesso di variabili entropiche che costituiscono la sostanza del nostro lavoro. C'è una questione che però non sono ancora riuscito a risolvere nonostante anni di sforzi e discussioni, tentativi di persuasione e colpi di testa al limite del regolamento: la questione del dorso.

In questo blog non ho mai affrontato questioni professionali: ne ho già abbastanza nella vita vera. Riportarle anche in rete mi sembrava ridondante, oltre che faticoso. Ma la questione del dorso può interessare anche chi con la tipografia non ha nulla a che fare, salvo poi ritrovarsi in casa oggetti  sbagliati o che comunque potevano essere trattati meglio. Lo so che ormai là fuori leggete tutti in digitale, ma son sicuro che qualche libro tradizionale lo avete ancora sugli scaffali delle vostre librerie. Dategli un'occhiata.
Notate niente?

Questo è lo scorcio di uno scaffale della mia libreria:





Come potete notare l'orientamento del testo nel dorso dei volumi appare del tutto casuale. C'è una certa costanza all'interno della medesima casa editrice (ma non sempre!), ma la disposizione del testo non sembra seguire alcuna regola specifica. E invece…
La lingua italiana prevede che lo scorrimento del testo proceda da sinistra a destra e dall'alto verso il basso. Dovendo inserire un testo in uno spazio verticale la regola è la stessa: non potendo procedere in orizzontale il testo deve scorrere dall'alto verso il basso.
Non è una regola che ho inventato io, si tratta di una delle convenzioni basilari della comunicazione scritta.
Ma allora perché spesso il testo nel dorso dei volumi scorre al contrario, dal basso verso l'alto?

Per quella che è la mia esperienza, le cause che ricorrono più spesso sono due. Una dovuto al dilettantismo dell'art director responsabile della composizione della copertina (e/o al pressapochismo del suo committente), l'altra collegata alla percezione soggettiva del testo stesso.
Perché è vero: se collochiamo un volume alla nostra sinistra, leggeremo il testo molto più facilmente se disposto dal basso verso l'alto. Questo è dovuto ai meccanismi di visione occhio-cervello che cercano di raddrizzare il testo secondo le nostre abitudini di lettura (che è poi lo stesso motivo per cui leggendo tale testo la nostra testa tende a piegarsi a sinistra). Lo stesso motivo causa l'errore di chi  impagina la copertina: l'impaginato con cui si ha a che fare è steso, con sulla destra il fronte, sulla sinistra la IV di copertina e in mezzo il dorso. Tenendo la copertina in primo piano il dorso cade necessariamente sulla sinistra del campo visivo del povero grafico, che non essendo abituato a considerare l'oggetto finito, ma solo il suo aspetto parziale, porrà quindi il testo in senso inverso rispetto a quanto regole e buon senso consiglierebbero. Perché quando il volume riposa verticale sul suo scaffale, l'orientamento del testo non è poi così vincolante. Ma è sufficiente porre il volume steso, copertina in vista, per rendersi conto dell'errore:


Basterebbe porsi qualche dubbio e porre un pochino di attenzione in più e il problema sarebbe risolto. Tra l'altro questa questione si pone per l'editoria, che nel settore limitrofo dei prodotti multimediali (dvd, blu-ray, giochi) è ben difficile trovare dorsi sbagliati. (I motivi? Non lo so, forse un maggior rigore nel controllo o linee guida più precise. Dopotutto la copertina è spesso l'unico - o quasi - oggetto stampato della confezione.)

So bene che la questione del dorso continuerà ad assillarmi nel tempo a venire. Dopo anni passati a discutere di dorsi giusti e sbagliati con clienti e colleghi non mi aspetto certo che 'sto post cambi qualcosa, ma almeno ora lo sapete anche voi.
Che siate grafici, impaginatori o semplici lettori non potrete più far finta di nulla e continuare a ignorare la gravissima questione del dorso!

13 settembre 2012

Letture: Morire per vivere, di John Scalzi

© giorgio raffaelli
Morire per vivere (Old Man's War in originale) racconta la storia di John Perry, un anziano vedovo senza più molte motivazioni a proseguire nella sua abitudinaria vita terrestre, che paga il riconquistato benessere fisico con l'arruolamento nelle Forze di Difesa Coloniali, una sorta di Fanteria dello spazio che ricorda molto quella dell'omonimo romanzo di Robert Heinlein, romanzo di cui questo di John Scalzi è esplicito omaggio. 

Morire per vivere m’è piaciuto per il sapore nostalgico della scrittura di Scalzi. La fantascienza dell'autore americano ricalca modalità e sviluppo tipici dell'epoca d'oro della letteratura di genere: privilegia l’incalzare degli avvenimenti e non lesina idee meravigliose, magari a discapito della profondità di visione o della speculazione più spinta. Sull'impianto classico della vicenda John Scalzi innesta un linguaggio e un'attitudine, nei personaggi e nella scrittura, al passo coi tempi, insieme a una consapevolezza che esalta le sue capacità autoriali e rivela le sue passioni di lettore.


Il risultato più notevole del romanzo è la riuscita sintesi tra la dottrina militar/politica heinleiniana, e lo scazzo tipico del miglior Joe Haldeman (William Mandella. protagonista di Guerra eterna, è l'altro nume tutelare di John Perry e il suo spirito viene più volte evocato nel corso del romanzo). L'equilibrio tra due visioni antitetiche produce una curiosa versione di rassegnato pragmatismo yankee, capace di mescolare momenti a la “sterminiamoli tutti!” ad altri dove non si manca di sottolineare l’aspetto grottesco della situazione.
Nonostante le avventure di John Perry siano un’esplicita riscrittura di Fanteria dello Spazio (con tutte le caratteristiche ideologicamente ripugnanti del romanzo di Heinlein ben evidenti), l'abilità di John Scalzi nel mantenerne sotto controllo l'estremismo, rendendolo comunque percepibile, me le ha rese decisamente più digeribili di quelle del Johnnie Rico di heinleiniana memoria.

Morire per vivere è il romanzo d'esordio di John Scalzi, ed è il primo a venir tradotto in italiano nella neonata collana fantascientifica di Gargoyle Books. Spero che l'editore non si fermi a questo:  qualche tempo fa ho letto in originale che The Android’s Dream, che m'è parso romanzo ancor più ricco di suggestioni e maturo, oltre a essere decisamente divertente.

11 settembre 2012

Letture: Il Sentiero degli Dei, di Wu Ming 2

© giorgio raffaelli
Ne Il Sentiero degli Dei Wu Ming 2 racconta e spiega la traversata degli Appennini effettuata a piedi lungo la via degli Dei, il tracciato che collega Bologna a Firenze tra sentieri e strade secondarie.
Il Sentiero degli Dei non è però un diario di viaggio o una guida turistica. Il Sentiero degli Dei è un libro bastardo: un ibrido di informazione e narrazione, un testo meticcio denso di sdegno civile e impegno eco-integralista, una miscela di nostalgico furore e rigore conservativo.

Avevo già incontrato Wu Ming 2 alle prese con l'Appennino: Guerra agli umani era un pulp montanaro brillante in certi momenti, piuttosto irritante in altri. La stessa mescolanza di sensazioni che m'ha lasciato Il Sentiero degli Dei.

Tra gli aspetti positivi del volume ci sono la prosa sciolta, diretta e coinvolgente dell'autore e la sua capacità di fornire una quantità di informazioni pratiche per affrontare la camminata Bologna-Firenze, arricchendole di suggestioni storico/paesaggistiche, senza appesantire il testo con il tono didascalico di molte guide. Le qualità affabulatorie di Wu Ming 2 rendono la lettura piacevole e mai noiosa e anche se la componente propriamente narrativa (gli intermezzi che separano le varie tappe della camminata) pecca di un eccesso di retorica che rende stucchevoli molti dei racconti, è anche vero che il suo peso complessivo all'interno del volume non è tale da renderne improba la lettura.

L'aspetto del volume che mi ha dato più da fare è però quello politico.
Già nell'introduzione Wu Ming 2 mette le mani avanti e dichiara che "una buona parte di questo libro denuncia le "emergenze ambientali" che affliggono l'Appennino tra Bologna e Firenze […]". Le intenzioni dell'autore sono senz'altro meritorie. Quel che ho trovato indigesto è l'integralismo con cui è condotta tutta l'operazione.
Il lavoro di ricerca e segnalazione delle porcate di cui si sono resi responsabili, per dolo o incuria, politici e imprese nella realizzazione dei progetti dell'Alta velocità o della variante di valico autostradale, è encomiabile e prezioso, così come lo sdegno che lo accompagna. Ma immergendosi nella lettura de Il Sentiero degli Dei non ho potuto evitare di chiedermi: se anche i lavori per le tratte ferroviarie o stradali che attraversano l'Appennino fossero stati realizzati a regola d'arte, sarebbe cambiato qualcosa nel giudizio di Wu Ming 2 sugli interventi che avrebbero comunque cambiato il paesaggio montano?

Chi ha letto Il Sentiero degli Dei conosce già la risposta: a parere del suo autore qualsiasi intervento antropico sul territorio è il male. Qualsiasi cambiamento operato da mani umane sul paesaggio appenninico è un danno. Qualsiasi modifica nell'utilizzo delle risorse presenti sul territorio è foriero di conseguenze nefaste.
È questo approccio che faccio fatica a condividere. Non capisco infatti perché permettere l''attraversamento dell'Appennino nella maniera più veloce e agevole possibile, in treno o su ruote, sia pratica da condannare a prescindere. Per fare un esempio banale: non crede l'autore che gli anni di vita risparmiati ai viaggiatori siano una ricchezza? (se si risparmiano 20 minuti a viaggio per le centinaia di migliaia di persone che annualmente attraversano gli Appennini il totale sono decenni di vita…).
È vero, quel tratto di qualche decina di chilometri d'Appennino in cui si trovano a transitare treni e veicoli sono stati irrimediabilmente modificati. Qual è la posizione di Wu Ming 2? Se strade e ferrovie attraversano le montagne sono un brutto vedere, ma se passano nascoste in galleria sono un incubo. La risposta dunque è una sola: nessuna strada, nessuna ferrovia ad alta velocità è accettabile.
Dando per scontato che i lavori dovrebbero essere svolti nel miglior modo possibile (lo so, non succede MAI), siamo sicuri che la bilancia vantaggi e svantaggi penda solo sul lato negativo? (non sto dicendo che non sia così, non ne so abbastanza. ma il punto di vista di Wu Ming 2 è tanto univoco da risultare sospetto, tale e quale la propaganda di Autostrade per l'Italia o Trenitalia).

© giorgio raffaelli
Detto del tema politico del volume, c'è un altro aspetto de Il Sentiero degli Dei che mi ha lasciato perplesso. Nel racconto della camminata attraverso gli Appennini non ho colto nelle parole dell'autore alcun momento di gioia, solo fatica e sofferenza. Come se il gesto fisico del cammino fosse doloroso ma necessario, come se la missione da compiere fosse l'unico scopo del viaggio, come se camminare fosse una medicina amara da prendere per curarsi dalla modernità. Come un'espiazione dei peccati altrui.

Per me camminare è soprattutto avventura e scoperta, esplorazione ed esperienza, del territorio, certo, ma anche del me stesso viandante. Ne Il Sentiero degli Dei l'esperienza è solo politica, e si paga con la fatica e il dolore del corpo. Quasi come una religione. E beh… a me quest'idea non piace mica tanto.




05 settembre 2012

Ottobre lungo la Via degli Dei

© giorgio raffaelli
A fine settembre c'è la più grossa fiera di piastrelle al mondo e a noi ci tocca lavorare più del solito per rifornire tutti 'sti ceramicai di cataloghi, brochure, listini e quant'altro. Lavoriamo tanto per poi trovarci a inizio ottobre con quasi nulla da fare.
E allora mi son chiesto: non è possibile sfruttare un po' meglio quel po' di tempo libero duramente (si fa per dire…) guadagnato?

Era da tempo che mi ronzava in testa l'idea di un escursione di qualche giorno.
Più ci riflettevo, più la possibilità di prender su, zaino in spalla, e girare fuori stagione per sentieri e montagne mi sembrava un'ottima occasione per fare lavorare testa e gambe su un altro ritmo rispetto a quello quotidiano.


Poi è passato di qua Paolo con una proposta davvero allettante. Purtroppo non siamo riusciti a far coincidere i tempi necessari per metterla in pratica insieme, ma ormai il danno era fatto e ho deciso di partire comunque.

L'idea è quella di andare a piedi da Bologna a Firenze lungo la Via degli Dei, il tracciato che percorrendo sentieri e strade secondarie attraversa l'Appennino collegando i due capoluoghi.

Gli aspetti logistici della traversata sono ancora (quasi) tutti da definire. Per prima cosa devo capire se questo viaggio lo farò da solo o se qualche amico là fuori vuole aggregarsi alla compagnia. Ad oggi ho parlato di questo progetto solo a poche persone. Tra queste ce ne sono un paio che sono ancora indecise tra la voglia di venire e gli impegni lavorativi e/o famigliari che glielo impedirebbero.

All'ipotetica data di partenza mancano ancora 4 settimane. C'è dunque tutto il tempo per organizzarsi al meglio. Come primo passo di preparazione all'impresa mi son letto Il sentiero degli Dei, il volume che Wu Ming 2 ha dedicato al percorso. Il libro mi ha lasciato un po' così, e magari nei prossimi giorni ne parliamo in maniera più approfondita.
Per ora mi limito a lanciare il sasso: c'è qualcuno là fuori che ha voglia di farsi una passeggiata di cinque giorni tra Bologna e Firenze?

03 settembre 2012

Oops, they did it again.

Trovate la differenza!
Le immagini qui a lato sono ritagliate da due schermate del mio monitor e riguardano questo post sul blog di Urania. La prima è stata registrata venerdì scorso, la seconda stamattina.

Il fatto che la redazione di Urania abbia eliminato un mio commento non è un grosso problema. Hanno tutti i diritti di farlo. Non si tratta di censura, che è roba ben più grave attuata da poteri ben più ingombranti, ma di politica aziendale, ed è, lo ribadisco a scanso di equivoci, azione del tutto legittima.
Quel che però vorrei far notare alla redazione di Urania è che in rete la reputazione è tutto. E cosa determina la reputazione di un'azienda meglio delle relazioni che instaura con la sua clientela?

Se non altro, dopo oltre un mese di insistenze mie e di altri utenti del blog, la redazione della rivista Mondadori ha finalmente risposto ai nostri dubbi: ad oggi non hanno la minima idea riguardo a quali numeri di Urania avranno un'edizione digitale.