Haruki Murakami - L'elefante scomparso e altri racconti
È passato qualche anno da quando, dopo aver letto L'uccello che girava le viti del mondo, mi chiedevo quali fossero i motivi per cui Murakami Haruki mi piace così tanto. Dopo quello splendido romanzo molte altre pagine son passate sotto i miei occhi, ma Murakami è rimasto lì, in una sorta di limbo, dove gli scrittori amati rimangono in attesa di tempi migliori.
Nel frattempo Einaudi ha continuato a proporre al pubblico italiano le opere dello scrittore giapponese, che fossero nuovi romanzi o nuove edizioni di vecchi libri già editi in precedenza (e chissà che prima o poi non riproponga l'ormai mitologico Sotto il segno della pecora). Tra i volumi riproposti è uscito anche L'elefante scomparso, una raccolta della produzione breve di Murakami.
Leggendo questo volume non potevo fare a meno di chiedermi, di nuovo, cosa ci fosse di tanto affascinante nella scrittura di questo autore. Insomma, è ormai parecchio tempo che le storie che raccontano le vicissitudini di giovani annoiati e/o senza destinazione, i racconti pseudo-autobiografici traboccanti birra e vecchie canzoni, le menate esistenziali di impiegati più o meno frustrati hanno smesso di attirarmi. Eppure…
Eppure, nonostante i personaggi di Murakami ricadano spesso nei cliché summenzionati le sue storie hanno una qualità speciale che non solo mi fa digerire tranquillamente le caratteristiche dei protagonisti, ma mi lascia pure sazio ed emozionato come solo raramente contesti simili sono capaci di fare. Cos'è questa qualità speciale? Non saprei davvero come definirla: forse la Murakamità è data dalla strana alchimia che si genera dall'esasperata omologazione dell'ambiente che stride e deraglia sotto le spinte centrifughe dei personaggi che animano i racconti, o forse è prodotta dal sottile sfiorarsi del fantastico (inquietante, onirico e mai consolatorio) con la malinconia del vivere giapponese. Ma più probabilmente lo spirito che anima la scrittura di Murakami è più semplicemente la capacità di offrire al lettore uno sguardo su una diversa normalità. Una normalità che riesce a fondere un individualismo che ha perso finanche l'idea di una ribellione, con la consapevolezza che l'emarginazione che produce più che una condanna, è forse l'unica liberazione.
Arto Paasilinna - L'anno della lepre
L'estremo nord scandinavo mi ha sempre affascinato. Saranno le letture dell'infanzia (ci sarà sempre un posticino nel mio cuore per il piccolo Nils Holgersson, come pure per tutti quei libri di Astrid Lindgren letti tanta tanti anni fa) o forse più semplicemente sono quelle enormi distese di boschi e laghi e montagne, del cui fascino sono succube da sempre. Quale che sia il motivo L'anno della lepre mi ha confermato ancora una volta che io prima o poi in Scandinavia ci devo proprio andare. Le avventure di Vatanen su e giù per la Finlandia sono un ottimo (e divertente!) pretesto per un immersione nella natura gelida e ostile e bellissima del grande nord, per il confronto tra civiltà e barbarie dei villaggi sperduti, ritrovati dal protagonista nel suo vagabondaggio, e la metropoli abbandonata precipitosamente alla prima occasione, per una - forse facile, ma mai inutile - riconsiderazione delle priorità che ci muovono.
Prima di questo fortuito incontro non avevo mai letto nulla di Arto Paasilinna, credo non mancherò di approfondirne la conoscenza.
Stefano Liberti - A sud di Lampedusa
A sud di Lampedusa c'è il rischio di perdersi, non tanto a causa della geografia complessa delle migrazioni, ben raccontata nel volume, quanto piuttosto per il percorso ineguale dei tempi, (che siano gli anni che separano i viaggi dell'autore nelle varie località o gli intervalli, i tempi morti, le accelerazioni, i ritardi e insomma tutte le complicate vicissitudini che la vita del viaggiatore più o meno obbligato porta con se). E poi c'è il rischio più grande, quello di smarrirsi nel gioco di specchi che il confronto con la realtà riportata a casa da Stefano Liberti si trascina inevitabilmente dietro.
Parlare di gioco di specchi per un libro che affronta il tema difficilissimo dell'immigrazione può suonare stonato. Ma lo stesso autore ne è ben consapevole: raccontando storie di cui nessuno parla, calandovisi anima e corpo, si rischia di perdere la distanza necessaria all'obiettività, che per quanto utopistica, dovrebbe comunque rappresentare il faro di riferimento per il giornalista. Quando poi in gioco ci sono differenze così estreme tra chi racconta e chi viene raccontato, il rischio di confondere l'interesse professionale con la motivazione personale, con l'impegno civile, il rischio di diventare addirittura parte (quasi) inconsapevole del motore che macina le vite di tutte queste persone che tentano quotidianamente la via del nord, beh… credo che facendo seriamente un mestiere come quello del reporter i dubbi ricorrenti sulla propria identità e il proprio dovere professionale più che un rischio diventano una certezza, forse addirittura una strategia di sopravvivenza.
Senza questa consapevolezza il racconto che fa l'autore delle persone, e ancor più dei luoghi che costituiscono le tappe delle rotte migratorie verso l'Europa, forse è altrettanto illuminante, ma rende meno l'idea dell'enorme confusione esistente sotto il cielo, che sia d'Africa, d'Asia o d'Europa.
Stefano Liberti è molto bravo a raccontare una realtà tanto aliena, a lasciare che sia il racconto stesso a prender forma di denuncia, con la voce dell'autore ben presente, certo, ma più per avvertire il lettore dei rischi cui accennavo sopra, che per puntare il dito verso il cattivo di turno.
A sud di Lampedusa è una lettura consigliatissima per avere un'idea seppur minima dell'inferno del viaggio migratorio, correndo magari il rischio che la figura del giornalista-narratore, che non esita ad abbandonare le comodità per recarsi novello esploratore nel deserto, tra popoli diversi e diverse civiltà per riportare a casa la gemma preziosa di una conoscenza esotica, risulti alla fine anche più interessante del contenuto vero e proprio del volume.
…
07 luglio 2009
06 luglio 2009
Ancora su Urania e la fantascienza.
Oggi in teoria avrei dovuto postare la seconda parte dei commenti riguardo le mie letture di giugno, ma nel frattempo mi sono impegolato in una interessante discussione sotto questo post di X.
Si parlava, tanto per cambiare, dei pregi e dei difetti di Urania, argomento su cui ho espresso la mia opinione qualche tempo fa (vedi qui).
danielepase risponde punto per punto alle mie critiche alla rivista Mondadori e si interroga su una questione su cui forse non mi sono dilungato a sufficienza:
Se la presenza di urania non “ingombrava” il mercato e non dequalificava i gusti dei lettori allora, non si capisce perchè dovrebbe farlo ora.
Da lettore di fantascienza il discorso mi interessa, provo quindi a frullare insieme qualche concetto già espresso in precedenza per provare a dare una risposta a questo dilemma (per chi ravvisasse brani già comparsi altrove, beh… questo è quello che passa il convento. Tocca accontentarsi).
La rarefazione delle uscite fantascientifiche in libreria avviene a partire dalla fine degli anni '80. Prima sembra che anche per la sf le librerie italiane fossero il paese di bengodi. Ma cos'è successo negli ultimi vent'anni da rendere la fantascienza merce sempre più rara?
Io credo che sia più o meno da quel periodo in avanti che la fantascienza si sia progressivamente trasformata da genere popolare (con tutto quel che significa in termini di vendite e quantità/qualità della proposta) in genere sempre più esclusivo, sempre più di nicchia. Urania di questa trasformazione pare non essersene proprio accorta (salvo forse per i numeri - di vendite, di uscite, di lettori - che si son fatti via via sempre più esigui).
In effetti Urania è l'ultimo alfiere di una concezione editoriale che vede nel genere fantascienza un prodotto di massa. Perfetto quindi per raggiungere il grande pubblico delle edicole. Non c'è dubbio che la fantascienza abbia le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie erano dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa dover rinunciare a personaggi più veri o ad ambientazioni più credibili). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico, lo stesso senso del meraviglioso in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer). Eppure nonostante i decenni sulle spalle Urania è ancora a tutti gli effetti una rivista pulp.
Non è inevitabile che i suoi lettori siano in costante calo?
Del resto credo che senza le spalle coperte da un editore come Mondadori Urania avrebbe già chiuso da un pezzo. Non conosco le cifre in gioco, ma ho la sensazione che almeno ultimi anni la chiusura in pareggio sia già un buon risultato.
Chi altri potrebbe mantenere in piedi un prodotto simile se non un'editore che possa avvantaggiarsi di indubbie economie di scala? In questa situazione che spazio c'è per chi volesse continuare a proporre fantascienza a prezzi competitivi?
La risposta è sotto gli occhi di tutti. Basta entrare in qualsiasi libreria italiana.
…
Si parlava, tanto per cambiare, dei pregi e dei difetti di Urania, argomento su cui ho espresso la mia opinione qualche tempo fa (vedi qui).
danielepase risponde punto per punto alle mie critiche alla rivista Mondadori e si interroga su una questione su cui forse non mi sono dilungato a sufficienza:
Se la presenza di urania non “ingombrava” il mercato e non dequalificava i gusti dei lettori allora, non si capisce perchè dovrebbe farlo ora.
Da lettore di fantascienza il discorso mi interessa, provo quindi a frullare insieme qualche concetto già espresso in precedenza per provare a dare una risposta a questo dilemma (per chi ravvisasse brani già comparsi altrove, beh… questo è quello che passa il convento. Tocca accontentarsi).
La rarefazione delle uscite fantascientifiche in libreria avviene a partire dalla fine degli anni '80. Prima sembra che anche per la sf le librerie italiane fossero il paese di bengodi. Ma cos'è successo negli ultimi vent'anni da rendere la fantascienza merce sempre più rara?
Io credo che sia più o meno da quel periodo in avanti che la fantascienza si sia progressivamente trasformata da genere popolare (con tutto quel che significa in termini di vendite e quantità/qualità della proposta) in genere sempre più esclusivo, sempre più di nicchia. Urania di questa trasformazione pare non essersene proprio accorta (salvo forse per i numeri - di vendite, di uscite, di lettori - che si son fatti via via sempre più esigui).
In effetti Urania è l'ultimo alfiere di una concezione editoriale che vede nel genere fantascienza un prodotto di massa. Perfetto quindi per raggiungere il grande pubblico delle edicole. Non c'è dubbio che la fantascienza abbia le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie erano dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa dover rinunciare a personaggi più veri o ad ambientazioni più credibili). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico, lo stesso senso del meraviglioso in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer). Eppure nonostante i decenni sulle spalle Urania è ancora a tutti gli effetti una rivista pulp.
Non è inevitabile che i suoi lettori siano in costante calo?
Del resto credo che senza le spalle coperte da un editore come Mondadori Urania avrebbe già chiuso da un pezzo. Non conosco le cifre in gioco, ma ho la sensazione che almeno ultimi anni la chiusura in pareggio sia già un buon risultato.
Chi altri potrebbe mantenere in piedi un prodotto simile se non un'editore che possa avvantaggiarsi di indubbie economie di scala? In questa situazione che spazio c'è per chi volesse continuare a proporre fantascienza a prezzi competitivi?
La risposta è sotto gli occhi di tutti. Basta entrare in qualsiasi libreria italiana.
…
02 luglio 2009
Letture giugno 2009 - prima parte
James Ellroy - American Tabloid
American Tabloid è violento, esagerato e frenetico come un pulp che si rispetti dovrebbe sempre essere. James Ellroy rivolta come un calzino l'ideale americano rivelando in un colpo solo tutto il marcio nascosto sotto il tappeto mediatico dalla propaganda a stelle e strisce. Non si salva nessuno, e nessuno merita di essere salvato.
Ma il capolavoro di James Ellroy è molto di più di una cinica macchina spezzaillusioni. American Tabloid oltre a essere estremamente avvincente è pure sguaiatamente illuminante, come solo un racconto che incrocia impunemente realtà e finzione, pettegolezzo e cronaca, mafia e denaro e politica può essere. Procedendo nella lettura si viene travolti dall'iperattività di Pete Bondurant e Kemper Boyd, i due ragazzoni protagonisti del romanzo, che attraversano come due schiacciasassi senza rimorsi e senza riserve quel fondamentale tratto di storia americana che va dalla fine degli anni '50 al fatidico 22 novembre del '63 non mancando di spargere sangue e merda a ogni pié sospinto. Il risultato della loro opera è sotto gli occhi di tutti, non è altro che il mondo come noi lo conosciamo.
La narrativa si è sempre cibata della storia, con American Tabloid sembra essere arrivato il momento di invertire i ruoli.
John Myers Myers - Silverlock
Sembra incredibile che al di fuori di una piccola cerchia di iniziati che lo adorano questo romanzo del 1949 sia praticamente sconosciuto. E dire che tra le pagine di Silverlock c'è tutto quel che serve per affascinare il lettore più esigente: c'è l'avventura, la classica quest attraverso un mondo sconosciuto, c'è il racconto di formazione, con l'eroe che si trasforma da cinico mezzemaniche in rotta col mondo a consapevole protagonista della propria vita, c'è il divertimento, che il tono del racconto si mantiene sempre leggero, tra trovate stravaganti, boutade e ovvie smargiassate, e c'è soprattutto un mondo che non ha uguali nella mia esperienza di lettore, un mondo in cui si incrocia tutto l'universo narrativo occidentale, dal folklore britannico all'inferno dantesco, da Omero a Shakespeare, dai miti nordici alle leggende popolari. All'interno del Commonwealth capita di navigare sulla zattera di Huck Finn o di incontrare Circe e Robin Hood, Sir Gavain e Amleto. Del resto il romanzo è letteralmente pieno di personaggi straordinari e parte del divertimento sta anche nel riconoscere luoghi e personaggi che John Myers Myers inserisce senza soluzione di continuità nel corso della vicenda.
Insomma, se vi volete immergere in una vicenda che riscrive in qualche centinaio di pagine la storia dell'immaginario occidentale dell'ultima trentina di secoli Silverlock è il romanzo che fa per voi, se invece siete tra quelli che storcono il naso a sentir parlare di fantasy, tenete presente che se questo romanzo di John Myers Myers non fosse così ostinatamente ancorato al canone fantastico potrebbe benissimo essere riconosciuto quale romanzo post-moderno ante litteram, con il suo libero mescolare cultura alta e popolare, con la superba costruzione allegorica che si fonde al pragmatismo yankee, con il continuo rimestare tra sesso e intelletto, con il tono sfrontatamente farsesco di tutta la vicenda.
(un sentito ringraziamento a Davide Mana che mi ha segnalato questo straordinario romanzo sul suo blog)
Robert J. Sawyer - Origine dell'ibrido
Terza e ultima parte del ciclo del Neanderthal Parallax ovvero il momento di riannodare tutti i capi del racconto e arrivare a una degna conclusione.
Il romanzo non si discosta qualitativamente dai due precedenti, le speculazioni fantascientifiche sono sempre ottimamente gestite, e la trama è sufficientemente interessante da tenere il lettore avvinto al romanzo. Come già scritto per gli episodi precedenti la fantascienza di Sawyer è di quella classica che non osa spingersi là dove nessun autore è mai giunto prima, ma che si lascia comunque leggere con soddisfazione. Intrattenimento intelligente, con il difetto, almeno in questo capitolo conclusivo della trilogia, di un doppio finale tendente all'apocalittico che risulta poco credibile nella prima parte e quanto meno affrettato nella conclusione definitiva della storia.
…
25 giugno 2009
Emergenza morale

Credo diventerà un appuntamento fisso.
…
22 giugno 2009
15 libri
Un'amica mi ha infettato via facebook con questo virus metaletterario. Dato che frequento poco quella sponda della rete preferisco trasferire il giochino sul blog.
Ecco le mie risposte alle 15 domande che seguono:
1. Sei maschio o femmina?
Il nuovo sesso: Cowgirl (T. Robbins)
2. Descriviti:
Terra rossa e pioggia scrosciante (V. Chandra)
3. Cosa provano le persone quando stanno con te?
Good Omens (T.Pratchett & N. Gaiman)
4. Descrivi la tua relazione precedente:
Triste, solitario y final (O. Soriano)
5. Descrivi la tua relazione corrente:
La schiuma dei giorni (B. Vian)
6. Dove vorresti trovarti?
Ristorante al termine dell’universo (D. Adams)
7. Come ti senti nei riguardi dell'amore?
Sulla strada (J. Kerouac)
8. Com'è la tua vita?
L'anno del sole quieto (W. Tucker)
9. Che cosa chiederesti se avessi a disposizione un solo desiderio?
Bolle d'infinito (J. Varley)
10. Di' qualcosa di saggio...
Solo il mimo canta al limitare del bosco (W. Tevis)
11. Una musica:
Il canto della neve silenziosa (H. Selby)
12. Chi o cosa temi?
Guerra eterna (J. Haldeman)
13. Un rimpianto:
Gesti indelebili (A.L. Kennedy)
14. Un consiglio per chi è più giovane:
Volgi lo sguardo al vento (I. Banks)
15. Da evitare accuratamente:
Fame (K. Hamsun)
…
Ecco le mie risposte alle 15 domande che seguono:
1. Sei maschio o femmina?
Il nuovo sesso: Cowgirl (T. Robbins)
2. Descriviti:
Terra rossa e pioggia scrosciante (V. Chandra)
3. Cosa provano le persone quando stanno con te?
Good Omens (T.Pratchett & N. Gaiman)
4. Descrivi la tua relazione precedente:
Triste, solitario y final (O. Soriano)
5. Descrivi la tua relazione corrente:
La schiuma dei giorni (B. Vian)
6. Dove vorresti trovarti?
Ristorante al termine dell’universo (D. Adams)
7. Come ti senti nei riguardi dell'amore?
Sulla strada (J. Kerouac)
8. Com'è la tua vita?
L'anno del sole quieto (W. Tucker)
9. Che cosa chiederesti se avessi a disposizione un solo desiderio?
Bolle d'infinito (J. Varley)
10. Di' qualcosa di saggio...
Solo il mimo canta al limitare del bosco (W. Tevis)
11. Una musica:
Il canto della neve silenziosa (H. Selby)
12. Chi o cosa temi?
Guerra eterna (J. Haldeman)
13. Un rimpianto:
Gesti indelebili (A.L. Kennedy)
14. Un consiglio per chi è più giovane:
Volgi lo sguardo al vento (I. Banks)
15. Da evitare accuratamente:
Fame (K. Hamsun)
…
10 giugno 2009
Letture - Maggio 2009
Don DeLillo - Underworld
Quante cose si potrebbero scrivere su Underworld! La malinconia e il vuoto che la genera, il ricordo come fondamento di intere esistenze che va insieme alla rimozione sistematica del passato, l'eterna ricerca di un padre perduto e l'omologazione asettica dei sentimenti, la violenza nell'epoca della sua riproducibilità mediatica e l'arte come redenzione personale e misterioso atto politico. Mi piacerebbe riuscire a riassumere in un discorso sensato il cumulo di suggestioni che un libro come questo si porta dietro, purtroppo vi dovete accontentare di queste poche note a margine (però potete sempre leggervi il romanzo, eh!).
La vena malinconica e la quieta rassegnazione che percorrono tutto il testo sono a mio avviso il primo gancio per legare indissolubilmente il lettore all'assenza che sta al cuore di Underworld. Il viaggio nella memoria collettiva americana alla ricerca di ciò che è andato perduto lungo la strada è una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. La scrittura di DeLillo è densa, ritmata, fluida e potente: l'ideale per scandire il percorso del lettore a ritroso nel tempo, perfetta per suggerire le progressive rimozioni personali (di sentimenti, di passioni e di significati) e per rivelare la trasformazione della ricchezza apparente in scarti e rifiuti (l'essenza distillata del sogno americano). Illuminante in questo senso la visione della montagna di immondizia - che è anche e soprattutto cumulo di ricordi a perdere - a dominare il panorama nel tramonto della East Coast. Poco importa se la ricerca della singolarità storica che ha prodotto il nostro presente ha come unico risultato l'impossibilità di dare un senso compiuto al tempo trascorso. In fondo la sopravvivenza sembra essere l'unica aspettativa, quasi una speranza.
Un altro tratto forte di Underworld - sovrastimato, forse, a causa della cronaca quotidiana di sbarchi e respingimenti dei giorni in cui lo leggevo - è il suo essere anche romanzo di formazione e di immigrazione, di omologazione e rinuncia. Con la ricchezza di odori e sapori (e di lingua e di relazioni) della piccola Italia di New York che si stempera nell'omogeneità forzata del monoblocco ideologico statunitense, basato sulla paura (della bomba prima, della degenerazione urbana poi), esaltato dall'abbondanza generalizzata di merce e intrattenimento.
Ma, come dicevo più sopra, i motivi d'interesse in un romanzo con una tale densità e profondità di scrittura sono davvero molteplici (e diversi per ogni lettore, credo). Del resto Underworld è un capolavoro. Un viaggio nel purgatorio americano in compagnia di self-made men e famiglie disgregate, di artisti visionari e suore feroci, di monomaniaci e manager dei rifiuti. Da leggere e rileggere.
Stephen J. Gould - Risplendi grande lucciola
Ognuno di noi ha il suo pantheon personale, un luogo virtuale dove ricordare i proprio eroi. Nel mio un posto sarà sempre riservato a Stephen J. Gould, scienziato americano, paleontologo e storico della scienza.
La mia conoscenza di Stephen J. Gould si limita a una manciata di testi, ma basta leggere uno qualsiasi dei suoi libri (per lo più, come nel caso di questo Risplendi grande lucciola, raccolte degli articoli che Gould ha pubblicato instancabilmente per quasi trent'anni) per rendersi conto della grandezza dell'uomo, della sua capacità di affrontare i più diversi argomenti con il piglio del vero scienziato, senza appoggiarsi ad alcuna verità rivelata, ma con la forza della ragione e un sano scetticismo, condito sempre con una buona dose di senso dell'umorismo.
Mi rendo conto che non sono molto obiettivo quando parlo di autori come Gould, ma provate a leggere un volume come Intelligenza e pregiudizio e poi forse condividerete il mio entusiasmo.
Charles Stross - Universo distorto
Molte idee ma confuse. Universo distorto è un concentrato di fantascienza per tutti i gusti, in poche decine di pagine si incontrano i temi classici del genere: dall'ucronia alla storia d'invasione, dall'avventura d'esplorazione alla space opera, dal primo contatto agli universi paralleli, il tutto frullato con un esagitato citazionismo pop (anche divertente, eh!) e una virata finale nella paranoia che è forse l'unica cosa seria del racconto.
Non so qual è stata la genesi di questa storia. L'impressione è che sia stato scritto come pastiche senza pretese, spingendo all'inverosimile sul pedale dell'immaginario di genere nel tentativo di arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima, giocando con omaggi e citazioni giusto per farsi qualche risata tra iniziati. In questa prospettiva Universo distorto può risultare godibile. A me però ha dato soprattutto l'idea di una gran confusione, un racconto-armadio con tanti brani interessanti gettati alla rinfusa a simulare un po' di ordine in casa, con un ospite importante già sulla soglia. Questo scorcio di universo Strossiano non è proprio da buttar via, meritava piuttosto ben altro approfondimento, un passaggio d'aspirapolvere e qualche giro al lavasecco. Che dite, chiamiamo la madre di Stross a tirargli le orecchie?
James E. Gunn - I fabbricanti di felicità
Perché mi ostino a leggere 'sto genere di romanzi? So già che alla fine ci rimango male, che qui e ora, XXI secolo, le ingenuità, i pregiudizi e la prosopopea di cui si alimentano queste storie sono decisamente indigesti. Il fatto è che mi piacerebbe almeno una volta rimanere stupito, e trovare qualche risposta sorprendente alle domande per nulla scontate e certo interessanti che animano questo genere di romanzi. Invece mi ritrovo con un altro libro di fantascienza d'epoca che, senza volerlo, racconta molto di più del clima socio-politico degli anni in cui è stato scritto che del futuro che vorrebbe anticipare.
Francesco Dimitri - La ragazza dei miei sogni
È qualche tempo che sento parlare di Francesco Dimitri e sempre in termini piuttosto lusinghieri. Molto di quello che ho letto rispetto alla sua attività di scrittore si riferisce a Pan, romanzo pubblicato nel 2008, ma neppure questo La ragazza dei miei sogni è stato trattato male da lettori e critica di genere (per quel che vale). Incuriosito da paragoni altisonanti (Gaiman, soprattutto) e dal fatto che a quanto pare Dimitri ha trovato un'originale via nazionale all'horror soprannaturale ho deciso di dargli una letta.
In effetti la La ragazza dei miei sogni è un buon romanzo. I personaggi sono credibili (vabbé, Dagon mica tanto, ma si sopravvive), l'emersione del soprannaturale nella vicenda è gestita in maniera sopraffina e la progressione narrativa non soffre di cali di tensione. La scrittura di Dimitri è sempre controllata, perfettamente calibrata sui vari stati d'animo del protagonista. La Roma piovosa e notturna che fa da sfondo alla vicenda è resa in maniera credibile ed è perfettamente funzionale al clima della vicenda.
Il problema è che a me 'ste storie di quasi trentenni sfigati e segaioli m'hanno ormai frantumato i cabasisi. Per quanto Dimitri ne La ragazza dei miei sogni sia assolutamente onesto e tratteggi in maniera credibile (e quindi ancor più insopportabile) il suo protagonista, io ormai questo genere di ambiente post-studentesco pseudo-universitario col contrasto fighetto/alternativo sempre sullo sfondo non lo reggo più. E per quanto la progressiva entrata in scena del soprannaturale sia davvero efficace, l'avrei apprezzata molto di più in un contesto diverso. Ma come dicevo il problema è mio, non del romanzo, e Dimitri mi ha lasciato con motivi più che sufficienti per voler leggere anche Pan.
Stephen King - La chiamata dei tre
Secondo capitolo de La torre nera, e nuove grandi soddisfazioni di lettura. A me pare che la qualità migliore di King sia la sua capacità incredibile di raccontare storie. Il potere della parola messa al servizio della narrazione, con niente (NIENTE!) di più importante dei personaggi, delle loro azioni e soprattutto dell'atmosfera e dell'ambiente che accoglie e sottolinea le loro relazioni.
Poco importa se alla fine la ripartizione in tre atti della vicenda risulta forse un po' troppo meccanica: gli incontri che si fanno accompagnando Roland nel suo cammino ripagano abbondantemente il rischio di scorgere dietro le quinte il telaio su cui King intesse la vicenda.
…
Quante cose si potrebbero scrivere su Underworld! La malinconia e il vuoto che la genera, il ricordo come fondamento di intere esistenze che va insieme alla rimozione sistematica del passato, l'eterna ricerca di un padre perduto e l'omologazione asettica dei sentimenti, la violenza nell'epoca della sua riproducibilità mediatica e l'arte come redenzione personale e misterioso atto politico. Mi piacerebbe riuscire a riassumere in un discorso sensato il cumulo di suggestioni che un libro come questo si porta dietro, purtroppo vi dovete accontentare di queste poche note a margine (però potete sempre leggervi il romanzo, eh!).
La vena malinconica e la quieta rassegnazione che percorrono tutto il testo sono a mio avviso il primo gancio per legare indissolubilmente il lettore all'assenza che sta al cuore di Underworld. Il viaggio nella memoria collettiva americana alla ricerca di ciò che è andato perduto lungo la strada è una delle possibili chiavi di lettura del romanzo. La scrittura di DeLillo è densa, ritmata, fluida e potente: l'ideale per scandire il percorso del lettore a ritroso nel tempo, perfetta per suggerire le progressive rimozioni personali (di sentimenti, di passioni e di significati) e per rivelare la trasformazione della ricchezza apparente in scarti e rifiuti (l'essenza distillata del sogno americano). Illuminante in questo senso la visione della montagna di immondizia - che è anche e soprattutto cumulo di ricordi a perdere - a dominare il panorama nel tramonto della East Coast. Poco importa se la ricerca della singolarità storica che ha prodotto il nostro presente ha come unico risultato l'impossibilità di dare un senso compiuto al tempo trascorso. In fondo la sopravvivenza sembra essere l'unica aspettativa, quasi una speranza.
Un altro tratto forte di Underworld - sovrastimato, forse, a causa della cronaca quotidiana di sbarchi e respingimenti dei giorni in cui lo leggevo - è il suo essere anche romanzo di formazione e di immigrazione, di omologazione e rinuncia. Con la ricchezza di odori e sapori (e di lingua e di relazioni) della piccola Italia di New York che si stempera nell'omogeneità forzata del monoblocco ideologico statunitense, basato sulla paura (della bomba prima, della degenerazione urbana poi), esaltato dall'abbondanza generalizzata di merce e intrattenimento.
Ma, come dicevo più sopra, i motivi d'interesse in un romanzo con una tale densità e profondità di scrittura sono davvero molteplici (e diversi per ogni lettore, credo). Del resto Underworld è un capolavoro. Un viaggio nel purgatorio americano in compagnia di self-made men e famiglie disgregate, di artisti visionari e suore feroci, di monomaniaci e manager dei rifiuti. Da leggere e rileggere.
Stephen J. Gould - Risplendi grande lucciola
Ognuno di noi ha il suo pantheon personale, un luogo virtuale dove ricordare i proprio eroi. Nel mio un posto sarà sempre riservato a Stephen J. Gould, scienziato americano, paleontologo e storico della scienza.
La mia conoscenza di Stephen J. Gould si limita a una manciata di testi, ma basta leggere uno qualsiasi dei suoi libri (per lo più, come nel caso di questo Risplendi grande lucciola, raccolte degli articoli che Gould ha pubblicato instancabilmente per quasi trent'anni) per rendersi conto della grandezza dell'uomo, della sua capacità di affrontare i più diversi argomenti con il piglio del vero scienziato, senza appoggiarsi ad alcuna verità rivelata, ma con la forza della ragione e un sano scetticismo, condito sempre con una buona dose di senso dell'umorismo.
Mi rendo conto che non sono molto obiettivo quando parlo di autori come Gould, ma provate a leggere un volume come Intelligenza e pregiudizio e poi forse condividerete il mio entusiasmo.
Charles Stross - Universo distorto
Molte idee ma confuse. Universo distorto è un concentrato di fantascienza per tutti i gusti, in poche decine di pagine si incontrano i temi classici del genere: dall'ucronia alla storia d'invasione, dall'avventura d'esplorazione alla space opera, dal primo contatto agli universi paralleli, il tutto frullato con un esagitato citazionismo pop (anche divertente, eh!) e una virata finale nella paranoia che è forse l'unica cosa seria del racconto.
Non so qual è stata la genesi di questa storia. L'impressione è che sia stato scritto come pastiche senza pretese, spingendo all'inverosimile sul pedale dell'immaginario di genere nel tentativo di arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima, giocando con omaggi e citazioni giusto per farsi qualche risata tra iniziati. In questa prospettiva Universo distorto può risultare godibile. A me però ha dato soprattutto l'idea di una gran confusione, un racconto-armadio con tanti brani interessanti gettati alla rinfusa a simulare un po' di ordine in casa, con un ospite importante già sulla soglia. Questo scorcio di universo Strossiano non è proprio da buttar via, meritava piuttosto ben altro approfondimento, un passaggio d'aspirapolvere e qualche giro al lavasecco. Che dite, chiamiamo la madre di Stross a tirargli le orecchie?
James E. Gunn - I fabbricanti di felicità
Perché mi ostino a leggere 'sto genere di romanzi? So già che alla fine ci rimango male, che qui e ora, XXI secolo, le ingenuità, i pregiudizi e la prosopopea di cui si alimentano queste storie sono decisamente indigesti. Il fatto è che mi piacerebbe almeno una volta rimanere stupito, e trovare qualche risposta sorprendente alle domande per nulla scontate e certo interessanti che animano questo genere di romanzi. Invece mi ritrovo con un altro libro di fantascienza d'epoca che, senza volerlo, racconta molto di più del clima socio-politico degli anni in cui è stato scritto che del futuro che vorrebbe anticipare.
Francesco Dimitri - La ragazza dei miei sogni
È qualche tempo che sento parlare di Francesco Dimitri e sempre in termini piuttosto lusinghieri. Molto di quello che ho letto rispetto alla sua attività di scrittore si riferisce a Pan, romanzo pubblicato nel 2008, ma neppure questo La ragazza dei miei sogni è stato trattato male da lettori e critica di genere (per quel che vale). Incuriosito da paragoni altisonanti (Gaiman, soprattutto) e dal fatto che a quanto pare Dimitri ha trovato un'originale via nazionale all'horror soprannaturale ho deciso di dargli una letta.
In effetti la La ragazza dei miei sogni è un buon romanzo. I personaggi sono credibili (vabbé, Dagon mica tanto, ma si sopravvive), l'emersione del soprannaturale nella vicenda è gestita in maniera sopraffina e la progressione narrativa non soffre di cali di tensione. La scrittura di Dimitri è sempre controllata, perfettamente calibrata sui vari stati d'animo del protagonista. La Roma piovosa e notturna che fa da sfondo alla vicenda è resa in maniera credibile ed è perfettamente funzionale al clima della vicenda.
Il problema è che a me 'ste storie di quasi trentenni sfigati e segaioli m'hanno ormai frantumato i cabasisi. Per quanto Dimitri ne La ragazza dei miei sogni sia assolutamente onesto e tratteggi in maniera credibile (e quindi ancor più insopportabile) il suo protagonista, io ormai questo genere di ambiente post-studentesco pseudo-universitario col contrasto fighetto/alternativo sempre sullo sfondo non lo reggo più. E per quanto la progressiva entrata in scena del soprannaturale sia davvero efficace, l'avrei apprezzata molto di più in un contesto diverso. Ma come dicevo il problema è mio, non del romanzo, e Dimitri mi ha lasciato con motivi più che sufficienti per voler leggere anche Pan.
Stephen King - La chiamata dei tre
Secondo capitolo de La torre nera, e nuove grandi soddisfazioni di lettura. A me pare che la qualità migliore di King sia la sua capacità incredibile di raccontare storie. Il potere della parola messa al servizio della narrazione, con niente (NIENTE!) di più importante dei personaggi, delle loro azioni e soprattutto dell'atmosfera e dell'ambiente che accoglie e sottolinea le loro relazioni.
Poco importa se alla fine la ripartizione in tre atti della vicenda risulta forse un po' troppo meccanica: gli incontri che si fanno accompagnando Roland nel suo cammino ripagano abbondantemente il rischio di scorgere dietro le quinte il telaio su cui King intesse la vicenda.
…
28 maggio 2009
A proposito di vampiri
Per una curiosa coincidenza (see…) m'è capitato nel giro di pochi giorni di vedere due riproposizioni recenti del mito vampiresco. Ambedue sono fedeli al canone che vede i vampiri come creature che si alimentano di sangue umano, fotofobiche, metamorfiche, con forza e caratteristiche sovrumane, limitate nei loro movimenti (nel senso che per entrare in casa di un umano devono essere invitate), etc etc…
Le premesse che fanno da fondamento a queste due vicende sono dunque molto simili, eppure gli esiti non potrebbero essere più diversi.
Certo, uno è un prodotto televisivo, l'altro una pellicola cinematografica, il primo è decisamente americano mentre il secondo viene dalla periferia d'Europa, e se la differenza di medium è importante, decisamente più significativa m'è parsa la distanza geografica dei due progetti. Ça va sans dire che il confronto tra due visioni così diverse (praticamente agli antipodi) dello stesso mito è stato decisamente interessante.
True Blood è una nuova serie appena arrivata sui canali satellitari nostrani. Dopo averne sentito parlare bene più o meno ovunque ho deciso di dargli un'occhiata.
Ho visto le prime tre puntate e sono rimasto piuttosto deluso. Mi aspettavo una visione disincantata, inquieta e in qualche modo demenziale di un mondo in cui vampiri e umani tentano di coesistere più o meno pacificamente, mi aspettavo qualche torrida vampata di umori sudisti vista l'ambientazione nella periferia rurale della Louisiana. E invece mi sono ritrovato sommerso da un profluvio di luoghi comuni e da una sequela di personaggi finto-trasgressivi, il tutto condito da tette e buoni sentimenti con giusto qualche tocco di violenza tanto per gradire.
Travestito da telefilm cattivo True Blood è un tripudio di conservatorismo spicciolo e di facili moralismi. Che i diversi in questo caso siano vampiri invece che mutanti superumani o omini verdi da un altro pianeta è solo un dettaglio che fa molto colore ma che per il resto risulta del tutto superfluo.
A chi apprezza un po' di sangue e frattaglie e inquietudini varie nel formato televisivo consiglio di continuare a gustarsi Dexter che viaggia decisamente su altri livelli.
Lasciami entrare è un curioso film svedese del 2008 che mescola amabilmente la tradizione del vampiro cinematografico con i turbamenti della preadolescenza.
Tanto True Blood è saturo e grossolano (nei colori, nei dettagli, nella sovrabbondanza di chiacchiere e nelle cose che succedono) tanto questa pellicola è algida, rarefatta e dilatata. Il ritmo è assolutamente scandinavo (astenersi action movie-dipendenti), quindi privo di tutta la vacua frenesia della serie americana di cui sopra, e le improvvise esplosioni di violenza che scandiscono la vicenda risultano per questo ancora più efficaci a sottolineare i momenti decisivi del film.
La cosa migliore di Lasciami entrare sono senza dubbio i due giovani protagonisti. La relazione che stabiliscono, nata da impulsi propriamenti infantili e gestita in maniera mirabile dagli autori, si sviluppa nel corso della storia in un rapporto sempre più esclusivo tanto da permettere al regista di strutturare in senso circolare l'intera vicenda. I due attori (Kåre Hedebrant è Oskar, Lina Leandersson è Eli) sono perfetti nel ruolo: lui vittima predestinata con un disarmante bisogno di affetto; lei, giovane vampira in difficoltà ("Ho dodici anni ma li ho da un sacco di tempo."), riesce credibilmente a trasformarsi da giovane fanciulla sofferente a spietata assassina sovrumana regalando allo spettatore indimenticabili momenti di dolcezza e fascino soft-gore.
Lasciami entrare non è un film perfetto. La giustapposizione dei momenti dedicati ai due protagonisti alle sequenze in cui entra in gioco il gruppo degli adulti del quartiere m'è parsa forzata e fuori sincrono (per quanto necessaria ai fini della storia). Idem per il tenore dei dialoghi: sempre indovinati quando in scena ci sono Oskar ed Eli, decisamente più fiacchi negli altri casi. Anche il finale, o per meglio dire la serie di pre-finali messi in scena progressivamente, a mio parere non risulta del tutto convincenti. Mi riferisco soprattutto alla scena decisiva della piscina che per quanto liberatoria (e divertente!), rischia da sola di compromettere il delicato equilibrio del film a favore di una risoluzione troppo (in)credibile e trasparente di una parte della vicenda che poteva considerarsi già risolta in precedenza.
Nonostante questi difetti il film è decisamente apprezzabile: oltre a offrire un punto di vista piuttosto originale sul genere vampiri Lasciami entrare è girato in maniera mirabile, con scelte cinematografiche che privilegiano scientemente il vuoto (degli spazi) e la separazione (tra i personaggi) con improvvisi e brucianti scarti di ritmo a demolire mortalmente l'isolamento degli individui; con una fotografia che esalta i toni freddi dell'inverno e i colori dimessi e desolati della periferia; con una colonna sonora che mescola inascoltabili brani pop scandinavi (e struggenti, forse proprio per la loro improponibilità) ai silenzi dei boschi innevati e dei gelidi cortili nella notte svedese.
Guardatelo, e poi magari fatemi sapere cosa ne pensate.
…
Le premesse che fanno da fondamento a queste due vicende sono dunque molto simili, eppure gli esiti non potrebbero essere più diversi.
Certo, uno è un prodotto televisivo, l'altro una pellicola cinematografica, il primo è decisamente americano mentre il secondo viene dalla periferia d'Europa, e se la differenza di medium è importante, decisamente più significativa m'è parsa la distanza geografica dei due progetti. Ça va sans dire che il confronto tra due visioni così diverse (praticamente agli antipodi) dello stesso mito è stato decisamente interessante.
True Blood è una nuova serie appena arrivata sui canali satellitari nostrani. Dopo averne sentito parlare bene più o meno ovunque ho deciso di dargli un'occhiata.
Ho visto le prime tre puntate e sono rimasto piuttosto deluso. Mi aspettavo una visione disincantata, inquieta e in qualche modo demenziale di un mondo in cui vampiri e umani tentano di coesistere più o meno pacificamente, mi aspettavo qualche torrida vampata di umori sudisti vista l'ambientazione nella periferia rurale della Louisiana. E invece mi sono ritrovato sommerso da un profluvio di luoghi comuni e da una sequela di personaggi finto-trasgressivi, il tutto condito da tette e buoni sentimenti con giusto qualche tocco di violenza tanto per gradire.
Travestito da telefilm cattivo True Blood è un tripudio di conservatorismo spicciolo e di facili moralismi. Che i diversi in questo caso siano vampiri invece che mutanti superumani o omini verdi da un altro pianeta è solo un dettaglio che fa molto colore ma che per il resto risulta del tutto superfluo.
A chi apprezza un po' di sangue e frattaglie e inquietudini varie nel formato televisivo consiglio di continuare a gustarsi Dexter che viaggia decisamente su altri livelli.
Lasciami entrare è un curioso film svedese del 2008 che mescola amabilmente la tradizione del vampiro cinematografico con i turbamenti della preadolescenza.
Tanto True Blood è saturo e grossolano (nei colori, nei dettagli, nella sovrabbondanza di chiacchiere e nelle cose che succedono) tanto questa pellicola è algida, rarefatta e dilatata. Il ritmo è assolutamente scandinavo (astenersi action movie-dipendenti), quindi privo di tutta la vacua frenesia della serie americana di cui sopra, e le improvvise esplosioni di violenza che scandiscono la vicenda risultano per questo ancora più efficaci a sottolineare i momenti decisivi del film.
La cosa migliore di Lasciami entrare sono senza dubbio i due giovani protagonisti. La relazione che stabiliscono, nata da impulsi propriamenti infantili e gestita in maniera mirabile dagli autori, si sviluppa nel corso della storia in un rapporto sempre più esclusivo tanto da permettere al regista di strutturare in senso circolare l'intera vicenda. I due attori (Kåre Hedebrant è Oskar, Lina Leandersson è Eli) sono perfetti nel ruolo: lui vittima predestinata con un disarmante bisogno di affetto; lei, giovane vampira in difficoltà ("Ho dodici anni ma li ho da un sacco di tempo."), riesce credibilmente a trasformarsi da giovane fanciulla sofferente a spietata assassina sovrumana regalando allo spettatore indimenticabili momenti di dolcezza e fascino soft-gore.
Lasciami entrare non è un film perfetto. La giustapposizione dei momenti dedicati ai due protagonisti alle sequenze in cui entra in gioco il gruppo degli adulti del quartiere m'è parsa forzata e fuori sincrono (per quanto necessaria ai fini della storia). Idem per il tenore dei dialoghi: sempre indovinati quando in scena ci sono Oskar ed Eli, decisamente più fiacchi negli altri casi. Anche il finale, o per meglio dire la serie di pre-finali messi in scena progressivamente, a mio parere non risulta del tutto convincenti. Mi riferisco soprattutto alla scena decisiva della piscina che per quanto liberatoria (e divertente!), rischia da sola di compromettere il delicato equilibrio del film a favore di una risoluzione troppo (in)credibile e trasparente di una parte della vicenda che poteva considerarsi già risolta in precedenza.
Nonostante questi difetti il film è decisamente apprezzabile: oltre a offrire un punto di vista piuttosto originale sul genere vampiri Lasciami entrare è girato in maniera mirabile, con scelte cinematografiche che privilegiano scientemente il vuoto (degli spazi) e la separazione (tra i personaggi) con improvvisi e brucianti scarti di ritmo a demolire mortalmente l'isolamento degli individui; con una fotografia che esalta i toni freddi dell'inverno e i colori dimessi e desolati della periferia; con una colonna sonora che mescola inascoltabili brani pop scandinavi (e struggenti, forse proprio per la loro improponibilità) ai silenzi dei boschi innevati e dei gelidi cortili nella notte svedese.
Guardatelo, e poi magari fatemi sapere cosa ne pensate.
…
19 maggio 2009
XXI Century Icarus

Di solito preferisco tenere separate le cose: qui dentro sono in primo piano le parole, mentre lo spazio per le foto è quello solito su flickr.
Però stavolta faccio un'eccezione, che sono davvero orgoglioso della foto che vedete sopra.
I motivi di soddisfazione legati a quest'Icaro del ventunesimo secolo sono sostanzialmente due.
È da parecchio tempo che le foto che faccio non mi soddisfano del tutto. Non so se è questione di soggetti e di possibilità, o se fotografare ormai quasi esclusivamente per necessità documentativa (le foto del rugby, ma anche i matrimoni) mi abbiano fatto entrare in una routine in cui la curiosità e la sperimentazione sono via via emarginate. Qualunque sia la ragione le mie foto non mi piacciono più come una volta. Fino a oggi, almeno.
L'altro motivo per cui essere soddisfatto è presto detto. I miei sono solitamente scatti estemporanei: vedo qualcosa d'interessante, scatto la foto, cerco di ottenere dall'immagine il massimo di quello che la situazione mi suggerisce. In questo caso invece il setting e la foto sono stati studiati e preparati, cercando di non lasciare nulla al caso. Sono pochissimi i miei scatti nati da situazioni simili. Normalmente preferisco cogliere la spontaneità del momento, o riuscire a trasmettere a chi guarda le sensazioni evocate da un luogo, da una luce particolare, da uno sguardo diverso dal solito.
In questo caso il risultato ripaga ampiamente lo sforzo.
(un grazie al mio collega Cristiano che si è prestato come modello)
…
17 maggio 2009
Che cos'è un fascista, ora?
È già qualche giorno che rimugino sulla questione, che rimando il momento del confronto, ma oh… a un certo punto certe cose bisogna proprio chiarirsele.
C'è questo ragazzo, vent'anni, atleta, allenatore, studente universitario. Lo conosco ormai da più di un anno e in questo periodo ho avuto modo di apprezzarne le qualità. L'ho visto lavorare con i ragazzini, l'ho visto relazionarsi con gli adulti, l'ho visto con gli amici: entusiasta, gentile, disponibile. Massimo rispetto insomma.
Poi scopro inavvertitamente che oltre a tutte 'ste belle qualità il nostro è pure un irriducibile e nostalgico fascista. Roba da busto del duce in cameretta e gite a Predappio, roba da Faccetta nera e compagnia bella.
Passato il momento di sorpresa e sconforto ho iniziato a chiedermi come fosse possibile.
Il fatto è che per me è semplicemente inconcepibile che a vent'anni si possa avere nostalgia di un periodo in cui nemmeno i tuoi genitori erano ancora nati. Per me i vent'anni sono ancora sinonimo di ricerca e ribellione, per questo motivo arrivare a immaginare, a desiderare anzi, un'entità di controllo pesante e totalitaria come il fascismo a dominare la vita quotidiana mi risulta davvero intollerabile.
Ma va bene, il mondo è bello perché è vario. E allora ho cercato di capire cos'è per me un fascista oggi (no, tranquilli, niente trattati socio-politici o analisi dell'attualità, solo sensazioni).
Io credo che uno diventi fascista nel 2009 fondamentalmente perché se la fa sotto.
Perché è spaventato a morte dal ritmo del cambiamento, perché è convinto che si stava meglio quando si stava peggio, perché ha paura dello straniero, del diverso, di tutto ciò che non riesce a capire, perché avere il minimo dubbio è sempre un errore e una gretta ignoranza è sempre preferibile al non avere risposte adeguate alle domande che la realtà ci rovescia addosso.
La paura è l'unica spiegazione che riesco a darmi, che altrimenti non riesco proprio a capire la retorica della difesa della patria (se sei convinto che la tua cultura, la tua razza sia migliore, più forte, sia insomma superiore alle altre, che timore puoi mai avere di perdere l'identità nazionale? Solo uno sciocco sceglie l'opzione peggiorativa, o no?), non capisco l'appello alla tradizione (ma vi siete mai chiesti da dove nasca una tradizione? se sia davvero immutabile? e le tradizioni più vecchie che fine fanno?), non riesco a capire perché per riaffermare la propria superiorità si ricorra sempre alla violenza dei tanti contro uno.
Poi magari mi sbaglio e il fascismo è semplicemente una morale diversa, che non riconosce le persone, ma solo le categorie; è la necessità animale di avere una gerarchia nel branco, è la brama di potere da esercitare anche nel più piccolo ambito, è la certezza di essere i migliori e quindi, inevitabilmente, in grado di decidere il destino di tutti.
Da quanto sopra si sarà capito come io non abbia alcuna stima dell'ideologia fascista, di quanto provi ribrezzo per certe posizione fondamentaliste, per un credo politico che predica la sopprafazione di qualunque controparte. Resta però il fatto che ho conosciuto e conosco persone che nel fascismo si riconoscono, e che queste persone non sono necessariamente brutte persone. Dunque, se c'è qualche fascista ragionevole in zona, ha mica voglia di spiegarmi qual è il senso di una scelta di questo tipo? Grazie.
…
C'è questo ragazzo, vent'anni, atleta, allenatore, studente universitario. Lo conosco ormai da più di un anno e in questo periodo ho avuto modo di apprezzarne le qualità. L'ho visto lavorare con i ragazzini, l'ho visto relazionarsi con gli adulti, l'ho visto con gli amici: entusiasta, gentile, disponibile. Massimo rispetto insomma.
Poi scopro inavvertitamente che oltre a tutte 'ste belle qualità il nostro è pure un irriducibile e nostalgico fascista. Roba da busto del duce in cameretta e gite a Predappio, roba da Faccetta nera e compagnia bella.
Passato il momento di sorpresa e sconforto ho iniziato a chiedermi come fosse possibile.
Il fatto è che per me è semplicemente inconcepibile che a vent'anni si possa avere nostalgia di un periodo in cui nemmeno i tuoi genitori erano ancora nati. Per me i vent'anni sono ancora sinonimo di ricerca e ribellione, per questo motivo arrivare a immaginare, a desiderare anzi, un'entità di controllo pesante e totalitaria come il fascismo a dominare la vita quotidiana mi risulta davvero intollerabile.
Ma va bene, il mondo è bello perché è vario. E allora ho cercato di capire cos'è per me un fascista oggi (no, tranquilli, niente trattati socio-politici o analisi dell'attualità, solo sensazioni).
Io credo che uno diventi fascista nel 2009 fondamentalmente perché se la fa sotto.
Perché è spaventato a morte dal ritmo del cambiamento, perché è convinto che si stava meglio quando si stava peggio, perché ha paura dello straniero, del diverso, di tutto ciò che non riesce a capire, perché avere il minimo dubbio è sempre un errore e una gretta ignoranza è sempre preferibile al non avere risposte adeguate alle domande che la realtà ci rovescia addosso.
La paura è l'unica spiegazione che riesco a darmi, che altrimenti non riesco proprio a capire la retorica della difesa della patria (se sei convinto che la tua cultura, la tua razza sia migliore, più forte, sia insomma superiore alle altre, che timore puoi mai avere di perdere l'identità nazionale? Solo uno sciocco sceglie l'opzione peggiorativa, o no?), non capisco l'appello alla tradizione (ma vi siete mai chiesti da dove nasca una tradizione? se sia davvero immutabile? e le tradizioni più vecchie che fine fanno?), non riesco a capire perché per riaffermare la propria superiorità si ricorra sempre alla violenza dei tanti contro uno.
Poi magari mi sbaglio e il fascismo è semplicemente una morale diversa, che non riconosce le persone, ma solo le categorie; è la necessità animale di avere una gerarchia nel branco, è la brama di potere da esercitare anche nel più piccolo ambito, è la certezza di essere i migliori e quindi, inevitabilmente, in grado di decidere il destino di tutti.
Da quanto sopra si sarà capito come io non abbia alcuna stima dell'ideologia fascista, di quanto provi ribrezzo per certe posizione fondamentaliste, per un credo politico che predica la sopprafazione di qualunque controparte. Resta però il fatto che ho conosciuto e conosco persone che nel fascismo si riconoscono, e che queste persone non sono necessariamente brutte persone. Dunque, se c'è qualche fascista ragionevole in zona, ha mica voglia di spiegarmi qual è il senso di una scelta di questo tipo? Grazie.
…
11 maggio 2009
Rapporto letture - Aprile 2009 - seconda parte
AA.VV. - Alia [Italia]
Alia è una pubblicazione piuttosto anomale nel panorama editoriale nostrano. Edita da un pugno di disperati appassionati di letteratura Alia è un'antologia che si fa in tre per fornire al lettore affamato di meraviglie una buona dose di racconti fantastici. Alia infatti esce ormai da qualche anno in tre volumi annuali dedicati ognuno a un distinto orizzonte geografico/culturale: italiano, anglosassone, giapponese.
Il volume che m'è capitato di leggere è quello dedicato alla produzione italiana uscito nel 2007 . I 10 racconti, raccolti e presentati da Vittorio Catani, Massimo Citi e Silvia Treves offrono una visione molto variegata delle possibilità che ha il fantastico di far capolino tra le righe di racconti che spaziano dall'orrore alla fantascienza, dal (quasi) mainstream al fantasy borderline.
Un'antologia tanto eterogenea ha l'indubbio vantaggio di mostrare aspetti molto diversi dell'universo narrativo fantastico nostrano, ma porta inevitabilmente con sé il rischio di confondere il lettore per la varietà di stili e soggetti presenti (non che questo sia necessariamente un difetto). In effetti ciò che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è la qualità media della proposta, molto più alta di quella rintracciabile mediamente in prodotti analoghi (oh… non che ce ne siano molti, ma mi sembra valido per tutti il confronto con Robot). Certo, non tutti i racconti sono memorabili, anzi, ce ne sono un paio che proprio non ho digerito. Ma questo fa parte del gioco, e leggendo un'antologia è quasi inevitabile. D'altro canto basterebbe un racconto come Gli anni del tuono per rendere indimenticabile qualsiasi raccolta lo contenesse, tanto brillante sorprendente e meravigliosa è la storia di Davide Mana.
Tra gli altri racconti da ricordare nel volume vanno senz'altro citati Ola e Olb di Massimo Citi, fantascienza classica condita con un po' d'inquietudine grazie a una voce narrante piuttosto sorprendente, e Pater di Mario Giorgi che se non soffrisse di un'eccesso di verbosità costituirebbe davvero una pietra miliare nella fantascienza nostrana, abile com'è a giostrare tra realtà indubbiamente italiana, utopia sociale e passioni individuali.
Per me questa era la prima volta con Alia, ora si tratta solo di recuperare gli altri numeri. Se la qualità è analoga a questo credo ne valga assolutamente la pena. Se interessa anche a voi vi consiglio di fare un giro sul sito dell'editore.
Ken MacLeod - Luce nera
Con la pubblicazione su Urania di Luce nera prosegue il ciclo narrativo cominciato con il precedente La fortezza dei cosmonauti (vedi relativo post di febbraio).
Luce nera si lascia leggere senza opporre resistenza, a patto di non porsi troppi dubbi. L'inserimento della trama politica (con un conflitto sociale che rieccheggia quelli di fine 800) è piuttosto curioso e se ha un certo valore pedagogico a me è parso un filo forzato per il contesto space-operistico nel quale ci si trova catapultati. Ma va bene così, che ormai questo è un marchio di fabbrica di MacLeod. Dispiace solo che a farne le spese sia la trama più propriamente cosmica del romanzo, che a primo acchito sembrava decisamente più interessante. Il ciclo si dovrebbe concludere con un ultimo romanzo. Staremo a vedere se l'autore riuscirà a risollevare un pochino le sorti della vicenda.
James Graham Ballard - Cocaine Nights
Sono stato molto restio a inoltrarmi per le nuove rotte tracciate da Ballard a partire dagli anni '90. Il Ballard catastrofico di inizio carriera e quello clinico degli anni '70 avevano prodotto già sufficienti suggestioni da marcare indelebilmente il mio immaginario. Però qualche settimana fa Ballard è scomparso e m'è sembrata cosa buona e giusta ricordarlo con un libro che non avevo ancora letto.
Cocaine Nights è il romanzo che più di ogni altro ha ridefinito la sfera d'attenzione di Ballard che da questo momento si sposta dai centri e dalle periferie urbane ai paradisi residenziali per benestanti all'ultimo stadio, alle residenze di lusso per manager dei media, alle enclavi protette che sempre più spesso spuntano nei luoghi più impensati del pianeta. In questo caso l'azione si svolge sulla riviera spagnola, in una comunità di benestanti e baby-pensionati nordeuropei che sta vivendo un improvviso risveglio sociale.
In Cocaine Nights risuonano gli echi della produzione precedente del nostro insieme ai turbamenti caratteristici della fine del XX secolo. Ecco quindi il paradigma ballardiano della comunità chiusa, il sonno tecnoindotto della ragione, la violenza come motore creativo: archetipi consolidati che si innestano questa volta sull'idea patologica della società del tempo libero, modello ideale di devastazione psichica totalmente avulsa dalla realtà. A sottolineare il disagio del lettore alle prese con un romanzo che ha tutte le apparenze di un giallo ma che si trasforma presto un un viaggio senza ritorno nelle esistenze artificiali di un intera comunità ecco le immagini simbolo di Ballard rivisitate alternativamente nella classica atmosfera desolata e corrotta, come anche nell'inconsueta versione immobile e aliena da plastico disneyano: mi riferisco ovviamente alle piscine, alle automobili, ai vari luoghi del disastro che scandiscono il procedere del romanzo.
Ad animare la narrazione Ballard reinventa quello che si potrebbe ben definire il nipotino scapestrato del Robert Vaughan di Crash. Come altro definireste Bobby Crawford, l'alfiere iperatletico del risveglio cognitivo della riviera spagnola? Tanto il primo manifesta la sua deviazione dedicandosi alla meticolosa mutilazione del corpo quanto l'iperattività del secondo agisce sul piano puramente materiale degli oggetti, come se la psiche collettiva di fine secolo avesse compiuto la metamorfosi finale abbandonando ogni speranza corporea per definirsi definitivamente negli ammennicoli tecnologici di cui non mancano di circondarsi i baby-pensionati dell'universo ballardiano. Sia il dottor Vaughan che Bobby il tennista sono motori di distruzione, entrambi sono figure virali in un sistema malato, entrambi esercitano un fascino incontrovertibile sulla realtà che li circonda. Se gli esiti del loro agire sono diversi è perché nei vent'anni che separano le loro azioni la realtà su cui Ballard ha costantemente indagato (quella che un tempo era la borghesia benestante occidentale, il mostro in cui in parte ci siamo tutti trasformati) si è definitivamente opacizzata sintonizzandosi su quello che pare essere ormai un canale morto dell'evoluzione.
…
Alia è una pubblicazione piuttosto anomale nel panorama editoriale nostrano. Edita da un pugno di disperati appassionati di letteratura Alia è un'antologia che si fa in tre per fornire al lettore affamato di meraviglie una buona dose di racconti fantastici. Alia infatti esce ormai da qualche anno in tre volumi annuali dedicati ognuno a un distinto orizzonte geografico/culturale: italiano, anglosassone, giapponese.
Il volume che m'è capitato di leggere è quello dedicato alla produzione italiana uscito nel 2007 . I 10 racconti, raccolti e presentati da Vittorio Catani, Massimo Citi e Silvia Treves offrono una visione molto variegata delle possibilità che ha il fantastico di far capolino tra le righe di racconti che spaziano dall'orrore alla fantascienza, dal (quasi) mainstream al fantasy borderline.
Un'antologia tanto eterogenea ha l'indubbio vantaggio di mostrare aspetti molto diversi dell'universo narrativo fantastico nostrano, ma porta inevitabilmente con sé il rischio di confondere il lettore per la varietà di stili e soggetti presenti (non che questo sia necessariamente un difetto). In effetti ciò che mi ha lasciato piacevolmente sorpreso è la qualità media della proposta, molto più alta di quella rintracciabile mediamente in prodotti analoghi (oh… non che ce ne siano molti, ma mi sembra valido per tutti il confronto con Robot). Certo, non tutti i racconti sono memorabili, anzi, ce ne sono un paio che proprio non ho digerito. Ma questo fa parte del gioco, e leggendo un'antologia è quasi inevitabile. D'altro canto basterebbe un racconto come Gli anni del tuono per rendere indimenticabile qualsiasi raccolta lo contenesse, tanto brillante sorprendente e meravigliosa è la storia di Davide Mana.
Tra gli altri racconti da ricordare nel volume vanno senz'altro citati Ola e Olb di Massimo Citi, fantascienza classica condita con un po' d'inquietudine grazie a una voce narrante piuttosto sorprendente, e Pater di Mario Giorgi che se non soffrisse di un'eccesso di verbosità costituirebbe davvero una pietra miliare nella fantascienza nostrana, abile com'è a giostrare tra realtà indubbiamente italiana, utopia sociale e passioni individuali.
Per me questa era la prima volta con Alia, ora si tratta solo di recuperare gli altri numeri. Se la qualità è analoga a questo credo ne valga assolutamente la pena. Se interessa anche a voi vi consiglio di fare un giro sul sito dell'editore.
Ken MacLeod - Luce nera
Con la pubblicazione su Urania di Luce nera prosegue il ciclo narrativo cominciato con il precedente La fortezza dei cosmonauti (vedi relativo post di febbraio).
Luce nera si lascia leggere senza opporre resistenza, a patto di non porsi troppi dubbi. L'inserimento della trama politica (con un conflitto sociale che rieccheggia quelli di fine 800) è piuttosto curioso e se ha un certo valore pedagogico a me è parso un filo forzato per il contesto space-operistico nel quale ci si trova catapultati. Ma va bene così, che ormai questo è un marchio di fabbrica di MacLeod. Dispiace solo che a farne le spese sia la trama più propriamente cosmica del romanzo, che a primo acchito sembrava decisamente più interessante. Il ciclo si dovrebbe concludere con un ultimo romanzo. Staremo a vedere se l'autore riuscirà a risollevare un pochino le sorti della vicenda.
James Graham Ballard - Cocaine Nights
Sono stato molto restio a inoltrarmi per le nuove rotte tracciate da Ballard a partire dagli anni '90. Il Ballard catastrofico di inizio carriera e quello clinico degli anni '70 avevano prodotto già sufficienti suggestioni da marcare indelebilmente il mio immaginario. Però qualche settimana fa Ballard è scomparso e m'è sembrata cosa buona e giusta ricordarlo con un libro che non avevo ancora letto.
Cocaine Nights è il romanzo che più di ogni altro ha ridefinito la sfera d'attenzione di Ballard che da questo momento si sposta dai centri e dalle periferie urbane ai paradisi residenziali per benestanti all'ultimo stadio, alle residenze di lusso per manager dei media, alle enclavi protette che sempre più spesso spuntano nei luoghi più impensati del pianeta. In questo caso l'azione si svolge sulla riviera spagnola, in una comunità di benestanti e baby-pensionati nordeuropei che sta vivendo un improvviso risveglio sociale.
In Cocaine Nights risuonano gli echi della produzione precedente del nostro insieme ai turbamenti caratteristici della fine del XX secolo. Ecco quindi il paradigma ballardiano della comunità chiusa, il sonno tecnoindotto della ragione, la violenza come motore creativo: archetipi consolidati che si innestano questa volta sull'idea patologica della società del tempo libero, modello ideale di devastazione psichica totalmente avulsa dalla realtà. A sottolineare il disagio del lettore alle prese con un romanzo che ha tutte le apparenze di un giallo ma che si trasforma presto un un viaggio senza ritorno nelle esistenze artificiali di un intera comunità ecco le immagini simbolo di Ballard rivisitate alternativamente nella classica atmosfera desolata e corrotta, come anche nell'inconsueta versione immobile e aliena da plastico disneyano: mi riferisco ovviamente alle piscine, alle automobili, ai vari luoghi del disastro che scandiscono il procedere del romanzo.
Ad animare la narrazione Ballard reinventa quello che si potrebbe ben definire il nipotino scapestrato del Robert Vaughan di Crash. Come altro definireste Bobby Crawford, l'alfiere iperatletico del risveglio cognitivo della riviera spagnola? Tanto il primo manifesta la sua deviazione dedicandosi alla meticolosa mutilazione del corpo quanto l'iperattività del secondo agisce sul piano puramente materiale degli oggetti, come se la psiche collettiva di fine secolo avesse compiuto la metamorfosi finale abbandonando ogni speranza corporea per definirsi definitivamente negli ammennicoli tecnologici di cui non mancano di circondarsi i baby-pensionati dell'universo ballardiano. Sia il dottor Vaughan che Bobby il tennista sono motori di distruzione, entrambi sono figure virali in un sistema malato, entrambi esercitano un fascino incontrovertibile sulla realtà che li circonda. Se gli esiti del loro agire sono diversi è perché nei vent'anni che separano le loro azioni la realtà su cui Ballard ha costantemente indagato (quella che un tempo era la borghesia benestante occidentale, il mostro in cui in parte ci siamo tutti trasformati) si è definitivamente opacizzata sintonizzandosi su quello che pare essere ormai un canale morto dell'evoluzione.
…
07 maggio 2009
Rubacuori
Ne parlavo qualche giorno fa, ora con un po' di ritardo rispetto al previsto ecco finalmente Rubacuori, il cortometraggio che abbiamo presentato per l'edizione 2009 di 4 giorni corti.
Prima della proiezione due parole per presentare il concorso organizzato dal Nonantola Film Festival:
Il concorso 4 giorni corti consiste nel realizzare in 4 giorni di lavorazione un cortometraggio della durata massima di 4 minuti.
Il film deve contenere alcuni elementi obbligatori e rispettare il genere assegnato per sorteggio durante la serata di inizio gara.
Quest'anno tali elementi erano:
- un paio di guanti di lattice;
- un clessidra;
- la frase "dipende dai punti di vista".
Per noi è stato estratto il genere sentimentale
Ci risentiamo con qualche nota sul film al termine della visione. Buon divertimento!
I credits del corto, che nei quattro minuti del film non siamo riusciti a farci stare i titoli di coda:

E ora qualche considerazione sparsa:
- con grande rammarico dobbiamo confessare che nonostante la qualità del nostro film (!!!) non siamo riusciti a entrare in finale.
- soffocando la delusione siamo andati fino a Nonantola per assistere alla proiezione dei venti finalisti. Alla fine della serata ci siamo dovuti rassegnare all'idea che non avevamo alcuna speranza di vincere il concorso. (Wolfhound il film horror meritatamente vincitore è di una categoria decisamente superiore - a tutti i livelli - rispetto a tutti gli altri film in concorso, tolto forse uno).
- la qualità media dei finalisti non è comunque molto lontana da quella di Rubacuori. Vedere per credere.
- a nostro avviso i difetti fondamentali del nostro corto sono due: la qualità delle riprese e quella dell'audio. Per il resto, con tutti i nostri limiti, siamo rimasti piuttosto soddisfatti (considerate da dove partivamo!).
- non abbiamo nessuna intenzione di privare il mondo del nostro talento. Siete avvisati.
…
Prima della proiezione due parole per presentare il concorso organizzato dal Nonantola Film Festival:
Il concorso 4 giorni corti consiste nel realizzare in 4 giorni di lavorazione un cortometraggio della durata massima di 4 minuti.
Il film deve contenere alcuni elementi obbligatori e rispettare il genere assegnato per sorteggio durante la serata di inizio gara.
Quest'anno tali elementi erano:
- un paio di guanti di lattice;
- un clessidra;
- la frase "dipende dai punti di vista".
Per noi è stato estratto il genere sentimentale
Ci risentiamo con qualche nota sul film al termine della visione. Buon divertimento!
I credits del corto, che nei quattro minuti del film non siamo riusciti a farci stare i titoli di coda:

E ora qualche considerazione sparsa:
- con grande rammarico dobbiamo confessare che nonostante la qualità del nostro film (!!!) non siamo riusciti a entrare in finale.
- soffocando la delusione siamo andati fino a Nonantola per assistere alla proiezione dei venti finalisti. Alla fine della serata ci siamo dovuti rassegnare all'idea che non avevamo alcuna speranza di vincere il concorso. (Wolfhound il film horror meritatamente vincitore è di una categoria decisamente superiore - a tutti i livelli - rispetto a tutti gli altri film in concorso, tolto forse uno).
- la qualità media dei finalisti non è comunque molto lontana da quella di Rubacuori. Vedere per credere.
- a nostro avviso i difetti fondamentali del nostro corto sono due: la qualità delle riprese e quella dell'audio. Per il resto, con tutti i nostri limiti, siamo rimasti piuttosto soddisfatti (considerate da dove partivamo!).
- non abbiamo nessuna intenzione di privare il mondo del nostro talento. Siete avvisati.
…
06 maggio 2009
Rapporto letture - Aprile 2009 - prima parte
Douglas R. Hofstadter - Anelli nell'io
Ci sono domande che a un certo punto smettiamo di porci. Chi c'è dentro la nostra testa? da dove arrivano i pensieri? cosa definisce la nostra identità? se pensassi in modo diverso sarei un'altra persona? etc etc…
Di solito queste sono domande che ci si pone quando si raggiunge la consapevolezza della barriera insormontabile che esiste tra noi stessi e il mondo. Poi si cresce e certi dubbi si lasciano in qualche antico e polveroso cassetto mentale, lasciando che a rispondervi (o almeno a provarci) ci pensino mistici, poeti, filosofi e scrittori di fantascienza, o, con un po' di fortuna, anche qualche scienziato.
Una dozzina d'anni fa Douglas Hofstadter ha illluminato il mio cammino con un'opera fondamentale, un volume che mi ha riavvicinato al piacere del pensiero astratto, alla gioia degli incroci tra arte e matematica, coscienza e letteratura, scienza e paradosso. Gödel, Escher, Bach Un'eterna ghirlanda brillante è uno di quei rari libri capaci da soli di dare un senso nuovo alla nostra esperienza del mondo. Anelli nell'io prosegue il percorso iniziato con quel volume, focalizzando questa volta il discorso in maniera più precisa e approfondita sui meccanismi della coscienza.
Il volume è affascinante per la ricchezza di esempi e la chiarezza di esposizione di Hofstadter, e se anche l'impatto sul lettore non è paragonabile a quello di GEB Anelli nell'io rimane un'ottima lettura, notevole - almeno per il sottoscritto - anche per la costante presenza di molte suggestioni ampiamente esplorate da molta della migliore fantascienza letta negli ultimi anni.
Walter Tevis - Lontano da casa
Lontano da casa è un compendio dell'opera di Walter Tevis.
In bilico tra la fascinazione più propriamente fantascientifica e l'eco fortemente autobiografico che lasciano alcuni racconti, le storie raccolte in questa antologia sono costantemente impegnate a tracciare i nebulosi confini tra emarginazione e conformismo. I protagonisti dei racconti di Tevis sono colti in momenti di solitaria autocommiserazione, spesso con un bicchiere in mano, ma non appaiono mai patetici, piuttosto vittime e complici di un sistema di valori che non comprendono ma che sono convinti vada rispettato. Che si muovano negli oscuri territori nei dintorni dell'incesto o tra le misteriose pieghe dello spazio tempo, gli uomini e le donne di questi racconti viaggiano costantemente con l'immagine di una malinconica apocalisse a dominare il loro panorama psichico, quasi un destino segnato che non li abbandona nemmeno quando un insolito lieto fine arriva a rasserenare gli animi.
Lontano da casa è un vecchio Urania che contiene la produzione breve di Walter Tevis. Non so quanto sia facile reperirlo, se vi capita sotto mano non lasciatevelo sfuggire.
Wu Ming 2 - Guerra agli umani
Divertente Guerra agli umani, un plot ottimamente costruito, personaggi ben delineati e struttura narrativa sufficientemente complessa da non risultare scontata.
Insomma, il romanzo di Wu Ming 2 ha tutti gli ingredienti dosati a meraviglia per piacere a lettore, tanto ben calibrati da rischiare di far risultare in qualche modo stucchevole l'intera operazione. A ben guardare c'è forse da chiedersi cos'ha di così innovativo e rivoluzionario l'approccio adottato da quest'incarrnazione solitaria del collettivo wuminghiano. Perché in Guerra agli umani abbiamo un protagonista che si fa serio portavoce di istanze tanto assurde da apparire ridicole (qualcuno per favore mi aiuti a capire se il troglodita ci è o se ci fa) e un romanzo fantascientifico che scorre parallelamente alla vicenda ed è totalmente fuori registro sia nei riguardi dell'immaginario che dovrebbe raffigurare sia nei confronti della trama che dovrebbe sottolineare?
Ciò che però ho trovato più sorprendente (e francamente irritante) è il sapore vetero-cristiano che domina tutto il romanzo, per cui tutti coloro che peccano verranno puniti in proporzione all'entità della colpa, la natura ottiene la giusta vendetta per lo scempio subito mentre il santo troglodita rimane impassibile e intoccato da qualsivoglia dubbio o conseguenza possa riguardarlo. Questo è il contenuto rivoluzionario che Wu Ming auspica e predica con la sua idea di letteratura?
Da uno degli autori di Q e di 54 mi aspettavo davvero qualcosa di più.
…
Ci sono domande che a un certo punto smettiamo di porci. Chi c'è dentro la nostra testa? da dove arrivano i pensieri? cosa definisce la nostra identità? se pensassi in modo diverso sarei un'altra persona? etc etc…
Di solito queste sono domande che ci si pone quando si raggiunge la consapevolezza della barriera insormontabile che esiste tra noi stessi e il mondo. Poi si cresce e certi dubbi si lasciano in qualche antico e polveroso cassetto mentale, lasciando che a rispondervi (o almeno a provarci) ci pensino mistici, poeti, filosofi e scrittori di fantascienza, o, con un po' di fortuna, anche qualche scienziato.
Una dozzina d'anni fa Douglas Hofstadter ha illluminato il mio cammino con un'opera fondamentale, un volume che mi ha riavvicinato al piacere del pensiero astratto, alla gioia degli incroci tra arte e matematica, coscienza e letteratura, scienza e paradosso. Gödel, Escher, Bach Un'eterna ghirlanda brillante è uno di quei rari libri capaci da soli di dare un senso nuovo alla nostra esperienza del mondo. Anelli nell'io prosegue il percorso iniziato con quel volume, focalizzando questa volta il discorso in maniera più precisa e approfondita sui meccanismi della coscienza.
Il volume è affascinante per la ricchezza di esempi e la chiarezza di esposizione di Hofstadter, e se anche l'impatto sul lettore non è paragonabile a quello di GEB Anelli nell'io rimane un'ottima lettura, notevole - almeno per il sottoscritto - anche per la costante presenza di molte suggestioni ampiamente esplorate da molta della migliore fantascienza letta negli ultimi anni.
Walter Tevis - Lontano da casa
Lontano da casa è un compendio dell'opera di Walter Tevis.
In bilico tra la fascinazione più propriamente fantascientifica e l'eco fortemente autobiografico che lasciano alcuni racconti, le storie raccolte in questa antologia sono costantemente impegnate a tracciare i nebulosi confini tra emarginazione e conformismo. I protagonisti dei racconti di Tevis sono colti in momenti di solitaria autocommiserazione, spesso con un bicchiere in mano, ma non appaiono mai patetici, piuttosto vittime e complici di un sistema di valori che non comprendono ma che sono convinti vada rispettato. Che si muovano negli oscuri territori nei dintorni dell'incesto o tra le misteriose pieghe dello spazio tempo, gli uomini e le donne di questi racconti viaggiano costantemente con l'immagine di una malinconica apocalisse a dominare il loro panorama psichico, quasi un destino segnato che non li abbandona nemmeno quando un insolito lieto fine arriva a rasserenare gli animi.
Lontano da casa è un vecchio Urania che contiene la produzione breve di Walter Tevis. Non so quanto sia facile reperirlo, se vi capita sotto mano non lasciatevelo sfuggire.
Wu Ming 2 - Guerra agli umani
Divertente Guerra agli umani, un plot ottimamente costruito, personaggi ben delineati e struttura narrativa sufficientemente complessa da non risultare scontata.
Insomma, il romanzo di Wu Ming 2 ha tutti gli ingredienti dosati a meraviglia per piacere a lettore, tanto ben calibrati da rischiare di far risultare in qualche modo stucchevole l'intera operazione. A ben guardare c'è forse da chiedersi cos'ha di così innovativo e rivoluzionario l'approccio adottato da quest'incarrnazione solitaria del collettivo wuminghiano. Perché in Guerra agli umani abbiamo un protagonista che si fa serio portavoce di istanze tanto assurde da apparire ridicole (qualcuno per favore mi aiuti a capire se il troglodita ci è o se ci fa) e un romanzo fantascientifico che scorre parallelamente alla vicenda ed è totalmente fuori registro sia nei riguardi dell'immaginario che dovrebbe raffigurare sia nei confronti della trama che dovrebbe sottolineare?
Ciò che però ho trovato più sorprendente (e francamente irritante) è il sapore vetero-cristiano che domina tutto il romanzo, per cui tutti coloro che peccano verranno puniti in proporzione all'entità della colpa, la natura ottiene la giusta vendetta per lo scempio subito mentre il santo troglodita rimane impassibile e intoccato da qualsivoglia dubbio o conseguenza possa riguardarlo. Questo è il contenuto rivoluzionario che Wu Ming auspica e predica con la sua idea di letteratura?
Da uno degli autori di Q e di 54 mi aspettavo davvero qualcosa di più.
…
04 maggio 2009
Annalisa Goes to Carpi

Il programma della serata prevede un incontro/intervista con l'artista gestito da Amanda Maselli e la proiezioni su maxi-schermo di una selezione di immagini realizzate da Annalisa e divisa in tre distinte sezioni:
- Stagioni. Uno sguardo colorato e non convenzionale sul trascorrere del tempo, sul cambiamento d'animo proprio del ciclo stagionale.
- Il mio nome è Nero. Fotografie elaborate quando l'umore è nero e non si riesce a vedere uno spiraglio di luce. Uno sfogo creativo per lasciare passare rabbia e insofferenza.
- Occhio non vede. Particolari di cose, angoli, porzioni di un insieme. Cose che spesso l’occhio non vede, ma che assumono significato e diventano protagoniste perché contestualizzate in un'inquadratura che le esalta.
L'appuntamento è per le 21.30 presso il Cortiletto Nord del Castello del Pio a Carpi.
Vi aspettiamo numerosi!
Gli incontri di "Destinazione Donna" proseguiranno il 12 e il 19 maggio e avranno per protagoniste Antonella Monzoni e Lorenza Viola Savarese.
…
28 aprile 2009
4 giorni corti
Creare. Partire da un'idea vaga e vederla poi evolversi man mano che incontra esperienze diverse, diversi punti di vista. Trasformarla in racconto e poi provare a vederla attraverso una videocamera. Fare cinema insomma.
Questo è quello che abbiamo provato a fare quest'ultimo fine settimana. Ci siamo trovati in una decina di persone, tutte appassionate di cinema, tutte ansiose di provare per una volta a saltare dall'altra parte dello schermo. Tutti decisamente incoscienti di cosa voglia dire davvero realizzare un film. Dilettanti allo sbaraglio, certo, ma con un progetto e tutte le intenzioni di vederlo realizzato.
L'occasione si è presentata con la terza edizione del Nonantola Film Festival che anche quest'anno ha proposto 4 giorni corti, un concorso per cortometraggi di quattro minuti da realizzare in quattro giorni con genere del film e vincoli di messa in scena decisi dalla giuria.
Se nelle edizioni precedenti il sorteggio , almeno sulla carta, ci era stato propizio (fantascienza la prima volta, horror l'anno scorso), quest'anno le premesse non erano le migliori: alla nostra troupe è stato infatti abbinato il genere sentimentale, che non è certo il tipo di cinema che sentiamo più vicino. Ma ci siamo impegnati, abbiamo lavorato duro, e tra giovedì e domenica siamo riusciti a sfornare Rubacuori, un film sentimentale che ci ha lasciati decisamente soddisfatti.
Sulla qualità del cortometraggio non riesco a essere obiettivo. Per capire se siamo riusciti a fare un lavoro decente rimaniamo in attesa del riscontro della giuria (solo venti film tra tutti i partecipanti al concorso - e quest'anno gli iscritti erano 132 - verranno selezionati per la visione pubblica nella serata finale del festival) e del giudizio del pubblico (da lunedì il film sarà disponibile in rete).
L'unica cosa di cui siamo certi è che Rubacuori è decisamente il migliore dei nostri tentativi cinematografici (non che ci volesse molto!). Rispetto alle edizioni precedenti del concorso questa volta avevamo una sceneggiatura più solida, e nonostante la qualità delle riprese sia tutt'altro che eccelsa e che il nostro bagaglio tecnico lasci parecchio a desiderare, quest'anno in fase di montaggio siamo riusciti a costruire una storia di quattro minuti che avesse per lo meno un minimo di senso.
Comunque vada l'accoglienza del pubblico (tranquilli, siamo consapevoli che Rubacuori non è un capolavoro immortale) questi quattro giorni sono stati memorabili. L'esperienza di trovarsi con gli amici a giocare il grande gioco del cinema tutti insieme, sul serio, impegnandosi al 110% e riuscendo per giunta a realizzare un film, un vero film, in appena quattro giorni è stata davvero notevole.
Siamo stati bravi. E soprattutto ci è rimasta la voglia di riprovarci.
…
Questo è quello che abbiamo provato a fare quest'ultimo fine settimana. Ci siamo trovati in una decina di persone, tutte appassionate di cinema, tutte ansiose di provare per una volta a saltare dall'altra parte dello schermo. Tutti decisamente incoscienti di cosa voglia dire davvero realizzare un film. Dilettanti allo sbaraglio, certo, ma con un progetto e tutte le intenzioni di vederlo realizzato.
L'occasione si è presentata con la terza edizione del Nonantola Film Festival che anche quest'anno ha proposto 4 giorni corti, un concorso per cortometraggi di quattro minuti da realizzare in quattro giorni con genere del film e vincoli di messa in scena decisi dalla giuria.
Se nelle edizioni precedenti il sorteggio , almeno sulla carta, ci era stato propizio (fantascienza la prima volta, horror l'anno scorso), quest'anno le premesse non erano le migliori: alla nostra troupe è stato infatti abbinato il genere sentimentale, che non è certo il tipo di cinema che sentiamo più vicino. Ma ci siamo impegnati, abbiamo lavorato duro, e tra giovedì e domenica siamo riusciti a sfornare Rubacuori, un film sentimentale che ci ha lasciati decisamente soddisfatti.
Sulla qualità del cortometraggio non riesco a essere obiettivo. Per capire se siamo riusciti a fare un lavoro decente rimaniamo in attesa del riscontro della giuria (solo venti film tra tutti i partecipanti al concorso - e quest'anno gli iscritti erano 132 - verranno selezionati per la visione pubblica nella serata finale del festival) e del giudizio del pubblico (da lunedì il film sarà disponibile in rete).
L'unica cosa di cui siamo certi è che Rubacuori è decisamente il migliore dei nostri tentativi cinematografici (non che ci volesse molto!). Rispetto alle edizioni precedenti del concorso questa volta avevamo una sceneggiatura più solida, e nonostante la qualità delle riprese sia tutt'altro che eccelsa e che il nostro bagaglio tecnico lasci parecchio a desiderare, quest'anno in fase di montaggio siamo riusciti a costruire una storia di quattro minuti che avesse per lo meno un minimo di senso.
Comunque vada l'accoglienza del pubblico (tranquilli, siamo consapevoli che Rubacuori non è un capolavoro immortale) questi quattro giorni sono stati memorabili. L'esperienza di trovarsi con gli amici a giocare il grande gioco del cinema tutti insieme, sul serio, impegnandosi al 110% e riuscendo per giunta a realizzare un film, un vero film, in appena quattro giorni è stata davvero notevole.
Siamo stati bravi. E soprattutto ci è rimasta la voglia di riprovarci.
…
20 aprile 2009
JGB - In Memoriam
Ci sono immagini impresse indelebilmente nella coscienza, pattern cognitivi che attivano inevitabilmente le particelle ballardiane sospese nel mio spazio interno.
Anticorpi che permettono di sopravvivere agli ingorghi autostradali, al culto delle celebrità mediatiche, all'espropriazione della personalità da parte delle periferie urbane, delle comunità chiuse, degli aeroporti.
Ballard è un costrutto mentale ormai solidificato, e la sua presenza persisterà per molto tempo nel mio personale orizzonte psichico, nonostante da ieri lui non sia più fisicamente tra noi.
La scoperta di Ballard ha rappresentato l'irrompere inconsulto e incontrollabile della realtà nel mio immaginario di lettore di fantascienza
J. G. Ballard è stato il primo scrittore di fantascienza che mi ha fatto scorgere una possibilità di espressione più adulta, matura e consapevole all'interno del genere. Il primo capace di inquietarmi con la suggestione di uno spazio interno altrettanto misterioso, esplorabile e sorprendente del grande vuoto la fuori. Il primo capace di trasformare l'apocalisse fisica in un'epifania mentale.
James Graham Ballard è rimasto un autore unico nel panorama letterario mondiale. Una figura di riferimento sia per quella fantascienza che nutra ancora l'ambizione di esplorare il reale, sia per quegli autori che non si accontentano di raccontare il mondo ma che lo rigenerano ogni volta che si mettono all'opera (non riesco a immaginare L'arcobaleno della gravità senza un Ballard a fare da apripista, ma più in generale credo che tutta la letteratura post post moderna abbia più di un debito con l'autore inglese - penso a Lethem, penso a Wallace, ma l'elenco è lungo).
Ballard se n'è andato, le sue visioni rimangono. Teniamocele strette, che le sue mappe psichiche ci sono ancora indispensabili per orientarci nel deserto che si apre fuori dai nostri televisori, nello spazio infinito tra la coscienza dell'incidente e la realtà dello scontro, nel tempo incosciente che dovremo attraversare.
…
Anticorpi che permettono di sopravvivere agli ingorghi autostradali, al culto delle celebrità mediatiche, all'espropriazione della personalità da parte delle periferie urbane, delle comunità chiuse, degli aeroporti.
Ballard è un costrutto mentale ormai solidificato, e la sua presenza persisterà per molto tempo nel mio personale orizzonte psichico, nonostante da ieri lui non sia più fisicamente tra noi.
La scoperta di Ballard ha rappresentato l'irrompere inconsulto e incontrollabile della realtà nel mio immaginario di lettore di fantascienza
J. G. Ballard è stato il primo scrittore di fantascienza che mi ha fatto scorgere una possibilità di espressione più adulta, matura e consapevole all'interno del genere. Il primo capace di inquietarmi con la suggestione di uno spazio interno altrettanto misterioso, esplorabile e sorprendente del grande vuoto la fuori. Il primo capace di trasformare l'apocalisse fisica in un'epifania mentale.
James Graham Ballard è rimasto un autore unico nel panorama letterario mondiale. Una figura di riferimento sia per quella fantascienza che nutra ancora l'ambizione di esplorare il reale, sia per quegli autori che non si accontentano di raccontare il mondo ma che lo rigenerano ogni volta che si mettono all'opera (non riesco a immaginare L'arcobaleno della gravità senza un Ballard a fare da apripista, ma più in generale credo che tutta la letteratura post post moderna abbia più di un debito con l'autore inglese - penso a Lethem, penso a Wallace, ma l'elenco è lungo).
Ballard se n'è andato, le sue visioni rimangono. Teniamocele strette, che le sue mappe psichiche ci sono ancora indispensabili per orientarci nel deserto che si apre fuori dai nostri televisori, nello spazio infinito tra la coscienza dell'incidente e la realtà dello scontro, nel tempo incosciente che dovremo attraversare.
…
07 aprile 2009
Rapporto letture - Marzo 2009
Ed Kramer & Neil Gaiman (a cura di) - The Sandman Book of Dreams
Era da tempo che non frequentavo il signore dei sogni, tanto da aver quasi dimenticato il fascino del mondo ricreato dalla fantasia di Neil Gaiman.
Questa antologia di racconti mi ha riportato indietro a quando la lettura delle storie di Sandman era una delle mie personali piccole meraviglie quotidiane. Fortunatamente i racconti raccolti in questo volume non hanno il sapore del tributo scolastico o dell'operazione nostalgica. Gli autori coinvolti dimostrano anzi una buona conoscenza del reame del sogno e soprattutto rendono bene l'idea di come le suggestioni evocate dal capolavoro di Gaiman abbiano arricchito la letteratura fantastica contemporanea.
Come ogni antologia anche questa non fa eccezione alla regola per cui racconti brillanti si alternano ad altri più deboli, ma se devo trovare un difetto più sostanziale, beh… mi è dispiaciuto solo che Morfeo compaia in primo piano un po' troppo di rado e lateralmente, anche se la sua presenza (e quella dei suoi fratelli e sorelle immortali) è sempre ben percepibile.
Tra le storie che più mi hanno colpito non posso non citare almeno quelle di John M. Ford (Chain Home, Low), di Robert Rodi (An Extra Smidgen of Eternity), George Alec Effinger (Seven Nights in Slumberland) e soprattutto quella di Susanna Clarke (Stopp’t-Clock Yard) l'unica in cui Sandman è davvero protagonista.
(e per finire un grazie a Sarmax che mi ha regalato il volume)
James Joll - Gli anarchici
Ho sempre avuto sentimenti contrastanti nei riguardi dell'anarchia. Da un lato c'è la convinzione dell'impossibilità di una società anarchica funzionante vista la disparità di risorse disponibili, dall'altro il principio bellissimo e coraggioso che vede tutti gli uomini liberi dal giogo e dalle tentazioni del Potere con la responsabilità della propria vita unicamente nelle proprie mani.
Questo volume racconta la storia del movimento anarchico attraverso la figura dei suoi principali esponenti. Gli anarchici è un libro illuminante soprattutto quando lascia emergere nel racconto delle vicende del movimento la situazione dell'umanità disperata che popola le città e le campagne tra l'otto e il novecento. E ben più interessante delle vite dei protagonisti (che fossero ideologhi da salotto - pochi - o rivoluzionari internazionali - i più - erano comunque per la maggior parte un branco di irriducibili idealisti, di illusi e di fondamentalisti) si percepisce il rigore e la dedizione dei singoli anarchici, anonimi per lo più, ma capaci di trasmettere nel tempo un ideale fondamentale, se non come pratica sociale almeno come utopica etica individuale. Per immaginare un futuro diverso, qualcosa che ormai non siamo più nemmeno capaci di concepire.
Dario Tonani - L'algoritmo bianco
Del romanzo di Dario Tonani ho parlato abbondantemente qui. Altri spunti interessanti li potete trovare su Lo strano attrattore.
David Ohle - L'era di Sinatra
Il sottotitolo de L'era di Sinatra recita "un romanzo molto strano". Ma può bastare una caratteristica aleatoria coma la stranezza a rendere interessante un romanzo?
In questo caso la mia risposta è decisamente no. Non basta infarcire un testo di parole inventate e situazioni paradossali, e calcare il pedale del disgustoso per rendere un'opera interessante. Soprattutto se poi ci si ritrova a constatare che, stranezze a parte, L'era di Sinatra, che pure sembra essere stato concepito come romanzo di fantascienza sperimentale, si rivela in realtà essere un ode al tempo che fu, sia per lo stile che adotta l'autore, sia per la costante sensazione che il rimpianto per un passato mitico sia l'unica molla capace di muovere l'azione. La mancanza di qualsiasi logica interna fa il resto, rendendo il procedere della lettura una noia senza scampo.
E dire che inizialmente L'era di Sinatra pare funzionare, con il lettore - questo lettore almeno - che rimane affascinato e incuriosito dagli strani meccanismi che sembrano governare il mondo di Ohle. Quando però appare evidente come sia il caso, se non l'estro del momento, a dirigere la penna dell'autore, tutta l'elaborata costruzione della vicenda perde molto del suo fascino riducendosi infine a uno sterile esercizio di stile.
…
Era da tempo che non frequentavo il signore dei sogni, tanto da aver quasi dimenticato il fascino del mondo ricreato dalla fantasia di Neil Gaiman.
Questa antologia di racconti mi ha riportato indietro a quando la lettura delle storie di Sandman era una delle mie personali piccole meraviglie quotidiane. Fortunatamente i racconti raccolti in questo volume non hanno il sapore del tributo scolastico o dell'operazione nostalgica. Gli autori coinvolti dimostrano anzi una buona conoscenza del reame del sogno e soprattutto rendono bene l'idea di come le suggestioni evocate dal capolavoro di Gaiman abbiano arricchito la letteratura fantastica contemporanea.
Come ogni antologia anche questa non fa eccezione alla regola per cui racconti brillanti si alternano ad altri più deboli, ma se devo trovare un difetto più sostanziale, beh… mi è dispiaciuto solo che Morfeo compaia in primo piano un po' troppo di rado e lateralmente, anche se la sua presenza (e quella dei suoi fratelli e sorelle immortali) è sempre ben percepibile.
Tra le storie che più mi hanno colpito non posso non citare almeno quelle di John M. Ford (Chain Home, Low), di Robert Rodi (An Extra Smidgen of Eternity), George Alec Effinger (Seven Nights in Slumberland) e soprattutto quella di Susanna Clarke (Stopp’t-Clock Yard) l'unica in cui Sandman è davvero protagonista.
(e per finire un grazie a Sarmax che mi ha regalato il volume)
James Joll - Gli anarchici
Ho sempre avuto sentimenti contrastanti nei riguardi dell'anarchia. Da un lato c'è la convinzione dell'impossibilità di una società anarchica funzionante vista la disparità di risorse disponibili, dall'altro il principio bellissimo e coraggioso che vede tutti gli uomini liberi dal giogo e dalle tentazioni del Potere con la responsabilità della propria vita unicamente nelle proprie mani.
Questo volume racconta la storia del movimento anarchico attraverso la figura dei suoi principali esponenti. Gli anarchici è un libro illuminante soprattutto quando lascia emergere nel racconto delle vicende del movimento la situazione dell'umanità disperata che popola le città e le campagne tra l'otto e il novecento. E ben più interessante delle vite dei protagonisti (che fossero ideologhi da salotto - pochi - o rivoluzionari internazionali - i più - erano comunque per la maggior parte un branco di irriducibili idealisti, di illusi e di fondamentalisti) si percepisce il rigore e la dedizione dei singoli anarchici, anonimi per lo più, ma capaci di trasmettere nel tempo un ideale fondamentale, se non come pratica sociale almeno come utopica etica individuale. Per immaginare un futuro diverso, qualcosa che ormai non siamo più nemmeno capaci di concepire.
Dario Tonani - L'algoritmo bianco
Del romanzo di Dario Tonani ho parlato abbondantemente qui. Altri spunti interessanti li potete trovare su Lo strano attrattore.
David Ohle - L'era di Sinatra
Il sottotitolo de L'era di Sinatra recita "un romanzo molto strano". Ma può bastare una caratteristica aleatoria coma la stranezza a rendere interessante un romanzo?
In questo caso la mia risposta è decisamente no. Non basta infarcire un testo di parole inventate e situazioni paradossali, e calcare il pedale del disgustoso per rendere un'opera interessante. Soprattutto se poi ci si ritrova a constatare che, stranezze a parte, L'era di Sinatra, che pure sembra essere stato concepito come romanzo di fantascienza sperimentale, si rivela in realtà essere un ode al tempo che fu, sia per lo stile che adotta l'autore, sia per la costante sensazione che il rimpianto per un passato mitico sia l'unica molla capace di muovere l'azione. La mancanza di qualsiasi logica interna fa il resto, rendendo il procedere della lettura una noia senza scampo.
E dire che inizialmente L'era di Sinatra pare funzionare, con il lettore - questo lettore almeno - che rimane affascinato e incuriosito dagli strani meccanismi che sembrano governare il mondo di Ohle. Quando però appare evidente come sia il caso, se non l'estro del momento, a dirigere la penna dell'autore, tutta l'elaborata costruzione della vicenda perde molto del suo fascino riducendosi infine a uno sterile esercizio di stile.
…
04 aprile 2009
Algoritmi, letteratura di genere (e violenza gratuita)
Dopo aver finito L'algoritmo bianco mi ero ripromesso di buttare giù qualche nota per aiutarmi a chiarire i dubbi nati nel corso della lettura. Ci ho messo più tempo di quanto prevedessi anche perché nel frattempo c'è stata l'ItalCon con la possibilità quindi di un proficuo scambio di opinioni con Dario Tonani. Sebbene io non sia stato proprio tenero con il suo romanzo Dario s'è dimostrato un signor autore accettando e discutendo le critiche che non mi sono trattenuto dal rivolgergli.
Ecco quindi cosa penso de L'algoritmo bianco.
Il romanzo si distingue per lo stile di scrittura sopraffino, per un mondo delineato in modo esemplare, per un'idea fantascientifica forte e in grado di sorreggere da sola ben più dell'esile storia - esile ma decisamente adrenalinica - che Dario Tonani ha imbastito. Se questi aspetti del romanzo sono senza dubbio positivi, altri non lo sono affatto: i personaggi, le relazioni che li legano e gli scambi di battute che dovrebbero rendere viva la vicenda sono ben lungi dall'essere all'altezza del buon romanzo che mi aspettavo di leggere. Immaginatevi quindi la mia sorpresa nello scoprire dalle parole di altri lettori quanto Gregorius Moffa, il killer protagonista della vicenda, abbia favorevolmente impressionato il pubblico di Urania.
Questa divergenza di valutazione mi costringe a fare una breve deviazione che forse aiuterà a chiarire meglio la mia critica al romanzo di Dario Tonani.
Partiamo subito con una domanda ai lettori che seguono con attenzione le poche uscite fantascientifiche nostrane: perché vi ostinate a leggere fantascienza?
Non è una domanda retorica e non voglio nemmeno imbastire la solita polemica sulla situazione che vive la letteratura di genere in Italia. È un domanda dettata dalla curiosità, con lo scopo nemmeno troppo recondito di capire se i motivi che ci portano a frequentare il genere siano davvero così diversi.
Il mio punto di vista è riassumibile nella constatazione che nessun altro genere letterario ha nel suo complesso lo stesso impatto intellettuale e viscerale che è in grado di generare una buona storia di fantascienza.
In effetti ciò che caratterizza la fantascienza, almeno quella che preferisco, è la sua straordinaria capacità di coniugare storie avvincenti, divertenti, emozionanti con una profonda riflessione su un qualche aspetto del reale (che si tratti di scienza o di politica piuttosto che di tecnologia o di etica, beh… è solo un dettaglio: sono le potenzialità della speculazione che fanno la differenza).
Certo, la fantascienza ha le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie sono dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa che si rinunci a rendere più veri i personaggi o più credibile l'ambientazione). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer).
A questo punto dovrebbe essere più chiara la modalità con cui io mi accosto a una storia di fantascienza, e forse anche a capire come mai abbia trovato difettoso il romanzo di Dario Tonani.
Detto in maniera esplicita: una storia che si fonda esclusivamente sul sovraccarico sensoriale del lettore non mi basta più.
L'algoritmo bianco parte subito col botto: gli scenari, l'azione, l'idea fantascientifica che sorregge la trama sono tutti elementi resi alla perfezione dall'autore. La Milano del 2045 emerge in tutta la sua desolazione grazie alla scrittura densa e stratificata dell'autore. Il tono della narrazione è sempre equilibrato e non scade mai nel grottesco o nel didascalico, al contempo l'ambiente emerge molto vivido e presente agli occhi del lettore.
Questa maestria nella resa dell'ambiente non viene mai meno nel corso della lettura ed è la cosa che ho apprezzato di più in tutto il romanzo. Quello che invece emerge come difetto sostanziale è la qualità dei personaggi che si muovono in questo scenario. Gregorius Moffa, il protagonista indiscusso del romanzo, è un killer. Ci viene detto che è un autore di snuff movies, la sua dubbia moralità ci viene ribadita a ogni piè sospinto, eppure per tutto il tempo in cui lo vediamo in azione quest'aspetto del suo carattere non viene mai effettivamente visto tanto che il suo agire pare un esempio da manuale di equilibro e buoni principi (tranne in quell'esplosione di violenza finale, che visto il suo comportamento fino a quel punto m'è parsa del tutto gratuita e in definitiva illogica e incomprensibile).
Ma Moffa oltre a essere molto più bravo-ragazzo di quanto sarebbe lecito aspettarsi ha un difetto ancora più evidente: è totalmente anonimo. Se si distingue in qualche modo dallo sfondo è per i punti esclamativi che circondano ogni sua mossa, non certo perché la sua personalità riesca ad emergere autonomamente (vedi ad esempio la difficoltà a distinguerlo - per carattere, fisionomia e pensieri - dal criminale in fuga di Picta Muore nella seconda parte del volume).
Anche i personaggi di contorno non brillano per particolare tridimensionalità. A parte Mama, che vive unicamente per muovere l'azione (e il cui destino finale m'è parso decisamente incredibile), il ruolo che ho trovato più irritante è quello assegnato a Salima: gli scambi di battute - e di fluidi corporei - che caratterizzano la sua presenza in scena hanno lo spessore di un (buon?) film porno. Possibile che si debba ridurre l'unico personaggio femminile degno di questo nome in tutto il romanzo alla macchietta di uno stereotipo?
Confrontandomi su questi punti con Dario Tonani a me è sorto il dubbio che la sua idea di Gregorius Moffa fosse così precisa e reale e viva da dare per scontata che tale conoscenza percolasse automaticamente dalle pagine del romanzo alla consapevolezza del lettore (…e in effetti la maggior parte del suo pubblico pare dargli ragione). Per quanto riguarda invece i comprimari è possibile che parte del mio disappunto dipenda dal progressivo deteriorarsi delle mie aspettative riguardo al romanzo, anche se il trattamento riservato a Salima mi lascia comunque molto perplesso.
Per tornare all'inizio di queste note, non so come mai il mio giudizio si discosti tanto da quello della maggior parte dei lettori. Forse sono io che ho troppe pretese. Magari il lettore fantascientifico standard con un romanzo come questo è più che soddisfatto.
Dal mio punto di vista l'etichetta sf non dovrebbe servire a giustificare il fatto che un romanzo parta già con un piede zoppo, per magari godere a fine lettura di un giudizio più tollerante. Per me la fantascienza ha la stessa dignità di qualsiasi altro genere letterario, e lo standard minimo richiesto dovrebbe essere uguale per tutti.
Detto questo io sono tutt'ora convinto che Dario Tonani abbia tutte le qualità per scrivere un grande romanzo, zeppo di idee, immaginazione e umanità. Io avrei voluto che quel romanzo fosse L'algoritmo bianco, spero che l'appuntamento sia solo rinviato.
Io me lo auguro proprio.
…
Ecco quindi cosa penso de L'algoritmo bianco.
Il romanzo si distingue per lo stile di scrittura sopraffino, per un mondo delineato in modo esemplare, per un'idea fantascientifica forte e in grado di sorreggere da sola ben più dell'esile storia - esile ma decisamente adrenalinica - che Dario Tonani ha imbastito. Se questi aspetti del romanzo sono senza dubbio positivi, altri non lo sono affatto: i personaggi, le relazioni che li legano e gli scambi di battute che dovrebbero rendere viva la vicenda sono ben lungi dall'essere all'altezza del buon romanzo che mi aspettavo di leggere. Immaginatevi quindi la mia sorpresa nello scoprire dalle parole di altri lettori quanto Gregorius Moffa, il killer protagonista della vicenda, abbia favorevolmente impressionato il pubblico di Urania.
Questa divergenza di valutazione mi costringe a fare una breve deviazione che forse aiuterà a chiarire meglio la mia critica al romanzo di Dario Tonani.
Partiamo subito con una domanda ai lettori che seguono con attenzione le poche uscite fantascientifiche nostrane: perché vi ostinate a leggere fantascienza?
Non è una domanda retorica e non voglio nemmeno imbastire la solita polemica sulla situazione che vive la letteratura di genere in Italia. È un domanda dettata dalla curiosità, con lo scopo nemmeno troppo recondito di capire se i motivi che ci portano a frequentare il genere siano davvero così diversi.
Il mio punto di vista è riassumibile nella constatazione che nessun altro genere letterario ha nel suo complesso lo stesso impatto intellettuale e viscerale che è in grado di generare una buona storia di fantascienza.
In effetti ciò che caratterizza la fantascienza, almeno quella che preferisco, è la sua straordinaria capacità di coniugare storie avvincenti, divertenti, emozionanti con una profonda riflessione su un qualche aspetto del reale (che si tratti di scienza o di politica piuttosto che di tecnologia o di etica, beh… è solo un dettaglio: sono le potenzialità della speculazione che fanno la differenza).
Certo, la fantascienza ha le sue radici più popolari nel pulp. Quelle che almeno in origine erano le sue espressioni più conosciute si sovrapponevano per buona parte alla letteratura d'avventura, con scenari alieni a sostituire nell'ambientazione il far west piuttosto che la classica metropoli americana. Le vicende di queste storie sono dominate dall'azione continua, dal succedersi di episodi sorprendenti o scenari mozzafiato, dalla riduzione ai minini termini di ogni complessità (poco importa che si rinunci a rendere più veri i personaggi o più credibile l'ambientazione). Lo scopo principale di queste storie era travolgere il lettore con la portata spettacolare dell'immaginazione dell'autore all'opera.
Nel corso dei decenni questa vocazione avventurosa ha lasciato spazio a suggestioni più complesse e all'elaborazione di strutture narrative più evolute. Contestualmente a tali cambiamenti la fantascienza si è trasformata da genere eminentemente popolare a letteratura di nicchia. Lo spazio per l'avventura non è mai venuto meno ma la progressiva complicazione (delle tematiche affrontate, dei riferimenti letterari, del background minimo - scientifico o tecnologico - spesso richiesto al lettore) ha allontanato la gran massa del pubblico delle origini, che magari ritrova oggi lo stesso tipo di godimento fantascientifico in altri media (penso ai blockbuster cinematografici degli ultimi decenni, penso ai giochi da consolle e da computer).
A questo punto dovrebbe essere più chiara la modalità con cui io mi accosto a una storia di fantascienza, e forse anche a capire come mai abbia trovato difettoso il romanzo di Dario Tonani.
Detto in maniera esplicita: una storia che si fonda esclusivamente sul sovraccarico sensoriale del lettore non mi basta più.
L'algoritmo bianco parte subito col botto: gli scenari, l'azione, l'idea fantascientifica che sorregge la trama sono tutti elementi resi alla perfezione dall'autore. La Milano del 2045 emerge in tutta la sua desolazione grazie alla scrittura densa e stratificata dell'autore. Il tono della narrazione è sempre equilibrato e non scade mai nel grottesco o nel didascalico, al contempo l'ambiente emerge molto vivido e presente agli occhi del lettore.
Questa maestria nella resa dell'ambiente non viene mai meno nel corso della lettura ed è la cosa che ho apprezzato di più in tutto il romanzo. Quello che invece emerge come difetto sostanziale è la qualità dei personaggi che si muovono in questo scenario. Gregorius Moffa, il protagonista indiscusso del romanzo, è un killer. Ci viene detto che è un autore di snuff movies, la sua dubbia moralità ci viene ribadita a ogni piè sospinto, eppure per tutto il tempo in cui lo vediamo in azione quest'aspetto del suo carattere non viene mai effettivamente visto tanto che il suo agire pare un esempio da manuale di equilibro e buoni principi (tranne in quell'esplosione di violenza finale, che visto il suo comportamento fino a quel punto m'è parsa del tutto gratuita e in definitiva illogica e incomprensibile).
Ma Moffa oltre a essere molto più bravo-ragazzo di quanto sarebbe lecito aspettarsi ha un difetto ancora più evidente: è totalmente anonimo. Se si distingue in qualche modo dallo sfondo è per i punti esclamativi che circondano ogni sua mossa, non certo perché la sua personalità riesca ad emergere autonomamente (vedi ad esempio la difficoltà a distinguerlo - per carattere, fisionomia e pensieri - dal criminale in fuga di Picta Muore nella seconda parte del volume).
Anche i personaggi di contorno non brillano per particolare tridimensionalità. A parte Mama, che vive unicamente per muovere l'azione (e il cui destino finale m'è parso decisamente incredibile), il ruolo che ho trovato più irritante è quello assegnato a Salima: gli scambi di battute - e di fluidi corporei - che caratterizzano la sua presenza in scena hanno lo spessore di un (buon?) film porno. Possibile che si debba ridurre l'unico personaggio femminile degno di questo nome in tutto il romanzo alla macchietta di uno stereotipo?
Confrontandomi su questi punti con Dario Tonani a me è sorto il dubbio che la sua idea di Gregorius Moffa fosse così precisa e reale e viva da dare per scontata che tale conoscenza percolasse automaticamente dalle pagine del romanzo alla consapevolezza del lettore (…e in effetti la maggior parte del suo pubblico pare dargli ragione). Per quanto riguarda invece i comprimari è possibile che parte del mio disappunto dipenda dal progressivo deteriorarsi delle mie aspettative riguardo al romanzo, anche se il trattamento riservato a Salima mi lascia comunque molto perplesso.
Per tornare all'inizio di queste note, non so come mai il mio giudizio si discosti tanto da quello della maggior parte dei lettori. Forse sono io che ho troppe pretese. Magari il lettore fantascientifico standard con un romanzo come questo è più che soddisfatto.
Dal mio punto di vista l'etichetta sf non dovrebbe servire a giustificare il fatto che un romanzo parta già con un piede zoppo, per magari godere a fine lettura di un giudizio più tollerante. Per me la fantascienza ha la stessa dignità di qualsiasi altro genere letterario, e lo standard minimo richiesto dovrebbe essere uguale per tutti.
Detto questo io sono tutt'ora convinto che Dario Tonani abbia tutte le qualità per scrivere un grande romanzo, zeppo di idee, immaginazione e umanità. Io avrei voluto che quel romanzo fosse L'algoritmo bianco, spero che l'appuntamento sia solo rinviato.
Io me lo auguro proprio.
…
01 aprile 2009
Le nuove avventure del Fuco
Qualcuno di voi forse ricorderà quello splendido periodo in cui si sono tracciate per la prima volta le coordinate di un universo fumettistico supereroistico coerente anche sul suolo di questa provincia dell'impero. Quei trentasette numeri di Fustiga! usciti tra il marzo del 1983 e l'aprile del 1986 hanno segnato la storia del fumetto italiano. Le avventure di quello sparuto gruppo di pseudo-eroi nostrani (ricordiamo il Fuco, ma anche Bacio, Vespaio, il Supermobile, e la straordinaria Maluria) hanno riacceso il fuoco del fumetto italiano che in quegli anni vedeva i più famosi supereroi americani disertare dopo oltre un decennio di splendore le edicole italiane (a quei tempi le fumetterie erano ancora lungi dal nascere…).
Purtroppo anche allora la storia fini troppo presto, nessuno degli eroi citati ha mai goduto di un albo monografico e forse l'essere costretti in Fustiga! che volente o nolente doveva accontentare un pubblico piuttosto variegato (dopotutto le avventure del Supermobile ambientate com'erano nei territori nel noir urbano mal si coniugavano con quelle a carattere space-operistico della Maluria).
Quando nelle ultime pagine del numero 37 di Fustiga! si vedono i nostri eroi caracollare melanconicamente verso l'uscita del Sunset Bar di Como dopo la loro ultima avventura corale mai avremmo creduto che li avremmo visti nuovamente in azione.
Quanto ci sbagliavamo!
Grazie agli sforzi congiunti di un manipolo di creativi nei prossimi mesi gli eroi della nostra infanzia vedranno nuovamente la luce in una serie di albi monografici che presenteranno Le Nuove Avventure del Fuco.
Gli autori, tutti nomi di primissimo piano con notevoli esperienze nel fumetto supereroistico d'oltreoceano, si sono riproposti una completa riscrittura del background dei vari personaggi.
Così mentre il Fuco originale era un giovane studente piuttosto scialbo che grazie al potere della Tempesta Ormonale si ritrovava coinvolto di una serie di sfortunati eventi che dai vicoli di Teramo lo conducevano a combattere per la salvezza del nostro universo sacrificando lungo la strada ciò che aveva di più caro, il nuovo Fuco si muoverà in uno scenario diverso, tra la via Emilia e il West - come canta il poeta - e vestirà i grigi panni di un impiegato della motorizzazione intorno alla quarantina. Le sue uniche amiche, un po' famiglia, un po' compagne d'avventura saranno un gruppo di anziane prostitute bolognesi capeggiate, e cui si può notare il genio del team creativo, dalla straordinaria Maluria che non mancherà di assegnare al nostro eroe una serie di incarichi che lo porteranno a confrontarsi con la dura realtà odierna.
Il super potere che ha segnato il destino del Fuco, che nella sua prima incarnazione era una non meglio precisata Tempesta ormonale, in questa nuova edizione verrà svecchiato dandogli un carattere più preciso e una funzione sociale inedita. La scia feromonica che lo circonda conferirà infatti al Fuco una sorta di impenetrabilità emotiva e un destino di sottomissione e prudenza che caratterizzerà in modo estremamente originale le sue gesta pseudo-eroiche.
Segnatelo nelle vostre agende: l'ora del Fuco si avvicina.
A presto in tutte le librerie e nelle migliori edicole delle vostre città.
…
Purtroppo anche allora la storia fini troppo presto, nessuno degli eroi citati ha mai goduto di un albo monografico e forse l'essere costretti in Fustiga! che volente o nolente doveva accontentare un pubblico piuttosto variegato (dopotutto le avventure del Supermobile ambientate com'erano nei territori nel noir urbano mal si coniugavano con quelle a carattere space-operistico della Maluria).
Quando nelle ultime pagine del numero 37 di Fustiga! si vedono i nostri eroi caracollare melanconicamente verso l'uscita del Sunset Bar di Como dopo la loro ultima avventura corale mai avremmo creduto che li avremmo visti nuovamente in azione.
Quanto ci sbagliavamo!
Grazie agli sforzi congiunti di un manipolo di creativi nei prossimi mesi gli eroi della nostra infanzia vedranno nuovamente la luce in una serie di albi monografici che presenteranno Le Nuove Avventure del Fuco.
Gli autori, tutti nomi di primissimo piano con notevoli esperienze nel fumetto supereroistico d'oltreoceano, si sono riproposti una completa riscrittura del background dei vari personaggi.
Così mentre il Fuco originale era un giovane studente piuttosto scialbo che grazie al potere della Tempesta Ormonale si ritrovava coinvolto di una serie di sfortunati eventi che dai vicoli di Teramo lo conducevano a combattere per la salvezza del nostro universo sacrificando lungo la strada ciò che aveva di più caro, il nuovo Fuco si muoverà in uno scenario diverso, tra la via Emilia e il West - come canta il poeta - e vestirà i grigi panni di un impiegato della motorizzazione intorno alla quarantina. Le sue uniche amiche, un po' famiglia, un po' compagne d'avventura saranno un gruppo di anziane prostitute bolognesi capeggiate, e cui si può notare il genio del team creativo, dalla straordinaria Maluria che non mancherà di assegnare al nostro eroe una serie di incarichi che lo porteranno a confrontarsi con la dura realtà odierna.
Il super potere che ha segnato il destino del Fuco, che nella sua prima incarnazione era una non meglio precisata Tempesta ormonale, in questa nuova edizione verrà svecchiato dandogli un carattere più preciso e una funzione sociale inedita. La scia feromonica che lo circonda conferirà infatti al Fuco una sorta di impenetrabilità emotiva e un destino di sottomissione e prudenza che caratterizzerà in modo estremamente originale le sue gesta pseudo-eroiche.
Segnatelo nelle vostre agende: l'ora del Fuco si avvicina.
A presto in tutte le librerie e nelle migliori edicole delle vostre città.
…
31 marzo 2009
EuroCon/ItalCon - The Day After
Godetevi 'sta prima infornata di brutti ceffi (si scherza, eh!) e tra una foto e l'altra fatemi fare qualche considerazione sulla Euro/ItalCon che si è appena conclusa.
Non so cosa mi aspettassi di trovare a Fiuggi, di certo dopo averne tanto sentito parlare negli anni scorsi ero piuttosto curioso. Se ero sicuro di trascorrere un ottimo fine settimana in buona compagnia, ero anche un pochino titubante rispetto all'entusiasmo che circonda questo appuntamento, viste almeno le mie personali idiosincrasie maturate negli anni sullo stato della fantascienza italiana.
In effetti in questi tre giorni sia le certezze che i dubbi hanno trovato piena conferma.
Le ore trascorse a chiacchiere e fantascienza sono state splendide, che è sempre bello incontrare i vecchi amici e fare nuove conoscenze. Le discussioni su romanzi, film e tendenze varie, fantascientifiche e non, non sono mancate (una particolare nota di merito a Dario Tonani che ha stoicamente sopportato il sottoscritto sproloquiare in lungo e in largo sul suo romanzo - a breve se ne riparlerà qui dentro), così come non sono mai mancati cibo e bevande a sciogliere anche le lingue più recalcitranti. Gli inteventi degli ospiti della manifestazione si sono rivelati anche meglio di quanto mi aspettassi (Ian Watson memorabile, Bruce Sterling incredibilmente affabile, Marina Sirtis semplicemente adorabile) e l'atmosfera generale dell'hotel che ci ospitava s'è mantenuta su standard decisamente accoglienti. (Per non parlar del Fuco!)
Se dal punto di vista personale questa Euro/Ital/DeepCon non poteva andare meglio, dal punto di vista del movimento fantascientifico nostrano credo non ci sia poi molto da stare allegri. Ciò che soprattutto m'è parso mancare a Fiuggi era solo il futuro, e per una convention di fantascienza non è poco.
Insomma, parliamoci chiaro, quando alla Convention italiana di fantascienza, ovvero l'appuntamento che più di tutti dovrebbe riunire appassionati e professionisti del genere ti ritrovi a (ri)conoscere il 90% delle facce che vedi (nonostante fossi alla mia prima partecipazione), quando il numero totale dei partecipanti interessati ai vari incontri che riguardavano la scena italiana non supera mai le venti persone (con l'eccezione dell'incontro con Lippi, ma lì si parlava dei 40 anni di 2001 Odissea nello spazio, mica di sf italica), quando pur essendo in poche decine di individui non si perde occasione per dividersi e litigare per una cosa che tende al ridicolo come il Premio Italia, quando la maggior parte delle discussioni sono declinate al passato, beh… non è che ci sia poi proprio molto di cui essere soddisfatti.
Per capirci, se è vero che in libreria la presenza di libri di fantascienza è sempre più rarefatta e mimetica, privilegiando sempre e comunque il vecchio classico alla novità del momento, lo stesso si potrebbe dire del numero e dell'età degli appassionati. Lascio al visitatore di queste pagine ogni valutazione sulla reciprocità di questi fenomeni.
Ragazzi, siamo una razza in via d'estinzione. Godiamocela finché dura, ma non lamentiamoci troppo se anche alla prossima Convention si celebreranno le glorie (!!!) del passato piuttosto che le speranze o le inquietudini del futuro.
…
Non so cosa mi aspettassi di trovare a Fiuggi, di certo dopo averne tanto sentito parlare negli anni scorsi ero piuttosto curioso. Se ero sicuro di trascorrere un ottimo fine settimana in buona compagnia, ero anche un pochino titubante rispetto all'entusiasmo che circonda questo appuntamento, viste almeno le mie personali idiosincrasie maturate negli anni sullo stato della fantascienza italiana.
In effetti in questi tre giorni sia le certezze che i dubbi hanno trovato piena conferma.
Le ore trascorse a chiacchiere e fantascienza sono state splendide, che è sempre bello incontrare i vecchi amici e fare nuove conoscenze. Le discussioni su romanzi, film e tendenze varie, fantascientifiche e non, non sono mancate (una particolare nota di merito a Dario Tonani che ha stoicamente sopportato il sottoscritto sproloquiare in lungo e in largo sul suo romanzo - a breve se ne riparlerà qui dentro), così come non sono mai mancati cibo e bevande a sciogliere anche le lingue più recalcitranti. Gli inteventi degli ospiti della manifestazione si sono rivelati anche meglio di quanto mi aspettassi (Ian Watson memorabile, Bruce Sterling incredibilmente affabile, Marina Sirtis semplicemente adorabile) e l'atmosfera generale dell'hotel che ci ospitava s'è mantenuta su standard decisamente accoglienti. (Per non parlar del Fuco!)
Se dal punto di vista personale questa Euro/Ital/DeepCon non poteva andare meglio, dal punto di vista del movimento fantascientifico nostrano credo non ci sia poi molto da stare allegri. Ciò che soprattutto m'è parso mancare a Fiuggi era solo il futuro, e per una convention di fantascienza non è poco.
Insomma, parliamoci chiaro, quando alla Convention italiana di fantascienza, ovvero l'appuntamento che più di tutti dovrebbe riunire appassionati e professionisti del genere ti ritrovi a (ri)conoscere il 90% delle facce che vedi (nonostante fossi alla mia prima partecipazione), quando il numero totale dei partecipanti interessati ai vari incontri che riguardavano la scena italiana non supera mai le venti persone (con l'eccezione dell'incontro con Lippi, ma lì si parlava dei 40 anni di 2001 Odissea nello spazio, mica di sf italica), quando pur essendo in poche decine di individui non si perde occasione per dividersi e litigare per una cosa che tende al ridicolo come il Premio Italia, quando la maggior parte delle discussioni sono declinate al passato, beh… non è che ci sia poi proprio molto di cui essere soddisfatti.
Per capirci, se è vero che in libreria la presenza di libri di fantascienza è sempre più rarefatta e mimetica, privilegiando sempre e comunque il vecchio classico alla novità del momento, lo stesso si potrebbe dire del numero e dell'età degli appassionati. Lascio al visitatore di queste pagine ogni valutazione sulla reciprocità di questi fenomeni.
Ragazzi, siamo una razza in via d'estinzione. Godiamocela finché dura, ma non lamentiamoci troppo se anche alla prossima Convention si celebreranno le glorie (!!!) del passato piuttosto che le speranze o le inquietudini del futuro.
…
24 marzo 2009
Appuntamento a Fiuggi
Non posto più foto su flickr, non aggiorno il blog, visito pochissimo gli amici in rete, però oh… non sono mica scomparso del tutto! Il fatto è che la vita vera ultimamente è stata davvero piena di cose, tra lavoro e rugby e famiglia e fantascienza.
Per esempio tra i vari impegni di queste ultime settimane c'è stata la preparazione del numero speciale di Next (International!) che abbiamo impaginato insieme a Giovanni De Matteo per la Convention Europea di Fantascienza che si terrà a Fiuggi questo fine settimana.
Alla Convention quest'anno parteciperò anch'io, ed è la prima volta. Ma non sarò a Fiuggi solo come spettatore: grazie alla disponibilità dell'organizzazione potrò portare alla Convention buona parte di Rumore di fondo. Non so come andrà la mostra, non so nemmeno quante opere riuscirò ad esporre, ma di sicuro sarà un fine settimana pieno di persone interessanti, di chiacchiere e bevute e fantascienza. Difficile chiedere di meglio.
Ci si vede a Fiuggi!
…
Per esempio tra i vari impegni di queste ultime settimane c'è stata la preparazione del numero speciale di Next (International!) che abbiamo impaginato insieme a Giovanni De Matteo per la Convention Europea di Fantascienza che si terrà a Fiuggi questo fine settimana.
Alla Convention quest'anno parteciperò anch'io, ed è la prima volta. Ma non sarò a Fiuggi solo come spettatore: grazie alla disponibilità dell'organizzazione potrò portare alla Convention buona parte di Rumore di fondo. Non so come andrà la mostra, non so nemmeno quante opere riuscirò ad esporre, ma di sicuro sarà un fine settimana pieno di persone interessanti, di chiacchiere e bevute e fantascienza. Difficile chiedere di meglio.
Ci si vede a Fiuggi!
…
19 marzo 2009
Rugby Under 11

In attesa di avere (finalmente!) un po' di tempo da dedicare alla rete, beccatevi qualche foto dei giovani rugbisti modenesi in azione.
Buon divertimento!
…
09 marzo 2009
Iain M. Banks Reloaded

Qualche tempo fa si parlava di Iain Banks a Verona e di una nostra fantomatica intervista all'autore scozzese.
Ora quell'intervista è finalmente disponibile nel nuovo numero di Robot appena pubblicato da Delos Books.
Enjoy!
…
06 marzo 2009
Rapporto letture - Febbraio 2009
Charles Stross - Glasshouse
In Glasshouse Charlie Stross continua ad esplorare l'evoluzione dell'umanità post-singolarità vista in Accelerando. Per farlo adotta un tono decisamente più sobrio e pacato di quello cui ci aveva abituato. In effetti Glasshouse è caratterizzato da un'atmosfera cupa e a tratti angosciante, calato com'è in una realtà fatta di guerra, paranoia e controllo totale.
Partendo dall'idea del panopticon Stross tenta un'indagine sulla natura della coscienza e della memoria decidendo di fare un passo indietro rispetto all'approccio iperaccelerato e tecno-gadgetistico che contraddistingue la sua produzione precedente. Se il centro dei suoi romanzi fino a questo momento era infatti la sfrenata speculazione tecnologica, con personaggi perfettamente integrati e pronti a cavalcare l'onda del futuro, in Glasshouse ci troviamo per la prima volta a fare i conti con un protagonista che non ha la più pallida idea di cosa stia succedendo, che si ritrova privato della sua stessa identità e totalmente in balia di poteri su cui non ha alcun controllo.
I legami con la fantascienza sociologica che ha caratterizzato una lunga e fortunata stagione della letteratura di genere dello scorso secolo sono evidenti e vengono ancora più sottolineati dalla scelta di collocare la maggior parte dell'azione nell'archetipo del classico sobborgo americano anni '60, con la fortissima tensione al conformismo che lo caratterizza e l'emarginazione - se non la punizione - di chi tarda ad integrarsi.
Scegliere un approccio di questo tipo comporta il rischio di scivolare nella sterile satira d'antan o addirittura nella parodia. Stross evita abilmente questo genere di trappola con un controllo davvero magistrale dei toni, rinunciando magari alla sua caratteristica leggerezza e limitando al minimo le strizzate d'occhio al lettore.
Oltre ai temi già accennati dell'identità, della memoria e del controllo, Glasshouse è densissimo di ulteriori suggestioni (la guerra, il trauma, la religione) sempre comunque tratteggiate con eleganza e integrate ottimamente nella trama. Quest'ultima non è forse troppo sorprendente e i cambiamenti di prospettiva che si succedono paiono a volte un poco forzati, ma la tensione che regge la vicenda rimane comunque sempre alta, con la realtà sottesa all'esperimento sociale al centro del romanzo che si rivela progressivamente al lettore fino al degno finale. Se in Glasshouse c'è un difetto probabilmente sta nella parte iniziale del romanzo. In poche decine di pagine si accumula un tal numero di premesse appena accennate - necessarie poi nel prosieguo della vicenda - che rendono l'inizio della storia troppo macchinoso e incredibile.
Nonostante non sia un romanzo perfetto, Glasshouse è l'ulteriore dimostrazione della capacità di Charlie Stross di coniugare storie brillanti con riflessioni non banali sullo stato della realtà, dimostrando oltretutto una capacità di evoluzione nei temi e soprattutto nella scrittura che lo pongono ancora una volta ai vertici del genere.
Joe Haldeman - Guerra eterna: Ultimo Atto
Joe Haldeman è un simpaticone, basta leggere le note ai racconti e la presentazione di Connie Willis per farsene un'idea. I racconti che compongono l'antologia non fanno che confermare quest'impressione.
Che si tratti di traumi bellici, di catastrofi naturali o di apocalissi politiche, i personaggi di Haldeman hanno in comune la loro insistenza nel voler mantenere un minimo di equilibrio mentale nonostante gli eventi tentino in tutti i modi di sopraffarli. Quale strumento migliore dunque della leggera ironia con cui l'autore gestisce i loro rapporti con una realtà intollerabile?
Non aspettatevi però il tipo di autore che copre con sagace ironia la vacuità dei propri racconti, che Haldeman è invece uno scrittore decisamente pragmatico, brillante certo, ma memorabile soprattutto per la solidità delle storie che racconta piuttosto che per lo stile letterario (che pure c'è, ma non è mai più importante dell'idea che supporta). Per questo motivo e pure per una certa similitudine nei temi e nei personaggi - se non nell'ideologia - mi pare che Joe Haldeman ricordi in qualche modo il buon vecchio Robert Heinlein. Certo, in quest'ultimo si trova 'sta maledetta insistenza sul destino superomistico del singolo, che fortunatamente è del tutto esclusa dal panorama di Haldeman (se i suoi protagonisti sopravvivono è già un successo!). A parte questo aspetto le spinte e le motivazioni dei personaggi sono molto simili, vedi ad esempio la continua compenetrazione della sfera sessuale nella motivazione e nella costruzione dei racconti, lo sfrontato pragmatismo degli uomini e delle donne che animano i rispettivi universi narrativi e infine l'attenzione che entrambi gli autori dedicano all'aspetto politico-sociale delle vicende che raccontano, attenzione che lascia comunque pochi dubbi sull'individualismo del loro approccio alla scrittura.
Magari la fantascienza di Haldeman non sarà quella che preferisco, ma in ogni caso un'antologia come questa si legge molto molto volentieri.
AA.VV. - Robot 54
Un numero con buoni contenuti questo 54 di Robot anche se non particolarmente memorabile. Tolti i pezzi giornalistico/saggistici - che interviste alle star del cinema a parte sono sempre interessanti - la parte narrativa soffre forse la mancanza di un vero pezzo forte.
Tra le varie proposte del volume il racconto che più mi ha colpito è probabilmente Tre terrestri e un marziano di L.R. Johannis recuperato e pubblicato grazie al pregevole sforzo che Vittorio Catani dedica alla riscoperta della fantascienza italiana del tempo che fu. Certo, il racconto sorprende più per la sua curiosa natura di buon-racconto-anglosassone-d'epoca-scritto-da-un-italiano che per le sue qualità intrinseche, ma a volte tocca accontentarsi.
Del resto sono piacevoli anche Sogni Impossibili di Tim Pratt e La casa oltre il cielo di Benjamin Rosenbaum con il loro rivisitare in chiave moderna dei classici temi fantascientifici (il negozio magico, il magazzino dei mondi). Degli altri racconti presenti quello di Giuseppe De Micheli nonostante pecchi di qualche ingenuità è comunque interessante (probabilmente più per i risvolti storici che per quelli fantascientifici) mentre quello del russo Oleg Ovchinnikov soffre di un'idea un po' troppo abusata per risultare davvero memorabile.
Al sottoscritto non sono invece piaciuti né Cardanica di Dario Tonani (letteralmente indigesto, e poi pretende un po' troppo dalla mia sospensione d'incredulità), né Le vigilie di Natale della zia Elise di Thomas Ligotti che ho trovato oltremodo pretenzioso e stucchevole.
Ah… una nota a parte merita Valerio Evangelisti: forse sono l'unico a lamentarsene ma trovo i suoi pezzi cinefobici davvero insopportabili.
Jacques Spitz - Segnali dal sole
Segnali dal sole m'ha lasciato basito. Nella mia ignoranza non mi aspettavo certo che uno scrittore francese praticamente sconosciuto potesse narrare con tanta melodrammatica leggerezza una storia apocalittica come questa. Ma soprattutto Segnali dal sole mi ha sorpreso per la difficoltà che ho avuto nel conciliare l'esistenza di un libro simile con l'anno e il luogo in cui è stato pubblicato. Per quanto ne so la Francia del 1943 non doveva essere il posto più sereno del pianeta, immaginatevi quindi la mia sorpresa nello scoprire che nonostante la guerra e l'occupazione nazista c'era evidentemente, almeno per qualcuno, la possibilità di avere una vita normale, addirittura di pubblicare fantascienza (e venderla! e leggerla!). Certo, a pensarci razionalmente è quasi scontato che sia così, ma ritrovarsi con delle prove effettive in mano è stato davvero illuminante, tanto che oltre ad appassionarmi alla vicenda narrata mi sono spesso trovato a interrogarmi sulla vita dell'autore del romanzo.
In qualunque modo abbia trascorso i suoi giorni è innegabile che Jacques Spitz sapesse scrivere in maniera brillante e avvincente. Nonostante siano passati più di sessant'anni dalla sua uscita la lettura di Segnali dal sole non si limita ad essere un vacuo esercizio nostalgico e il sapore retrò della storia narrata rivela più di qualche aspetto interessante anche per il lettore attuale. Insomma, se vi capita di incrociare Jacques Spitz sul vostro cammino di lettori dategli una possibilità, credo rimarrete piacevolmente sorpresi anche voi.
…
Seguite il link per le letture di gennaio.
…
In Glasshouse Charlie Stross continua ad esplorare l'evoluzione dell'umanità post-singolarità vista in Accelerando. Per farlo adotta un tono decisamente più sobrio e pacato di quello cui ci aveva abituato. In effetti Glasshouse è caratterizzato da un'atmosfera cupa e a tratti angosciante, calato com'è in una realtà fatta di guerra, paranoia e controllo totale.
Partendo dall'idea del panopticon Stross tenta un'indagine sulla natura della coscienza e della memoria decidendo di fare un passo indietro rispetto all'approccio iperaccelerato e tecno-gadgetistico che contraddistingue la sua produzione precedente. Se il centro dei suoi romanzi fino a questo momento era infatti la sfrenata speculazione tecnologica, con personaggi perfettamente integrati e pronti a cavalcare l'onda del futuro, in Glasshouse ci troviamo per la prima volta a fare i conti con un protagonista che non ha la più pallida idea di cosa stia succedendo, che si ritrova privato della sua stessa identità e totalmente in balia di poteri su cui non ha alcun controllo.
I legami con la fantascienza sociologica che ha caratterizzato una lunga e fortunata stagione della letteratura di genere dello scorso secolo sono evidenti e vengono ancora più sottolineati dalla scelta di collocare la maggior parte dell'azione nell'archetipo del classico sobborgo americano anni '60, con la fortissima tensione al conformismo che lo caratterizza e l'emarginazione - se non la punizione - di chi tarda ad integrarsi.
Scegliere un approccio di questo tipo comporta il rischio di scivolare nella sterile satira d'antan o addirittura nella parodia. Stross evita abilmente questo genere di trappola con un controllo davvero magistrale dei toni, rinunciando magari alla sua caratteristica leggerezza e limitando al minimo le strizzate d'occhio al lettore.
Oltre ai temi già accennati dell'identità, della memoria e del controllo, Glasshouse è densissimo di ulteriori suggestioni (la guerra, il trauma, la religione) sempre comunque tratteggiate con eleganza e integrate ottimamente nella trama. Quest'ultima non è forse troppo sorprendente e i cambiamenti di prospettiva che si succedono paiono a volte un poco forzati, ma la tensione che regge la vicenda rimane comunque sempre alta, con la realtà sottesa all'esperimento sociale al centro del romanzo che si rivela progressivamente al lettore fino al degno finale. Se in Glasshouse c'è un difetto probabilmente sta nella parte iniziale del romanzo. In poche decine di pagine si accumula un tal numero di premesse appena accennate - necessarie poi nel prosieguo della vicenda - che rendono l'inizio della storia troppo macchinoso e incredibile.
Nonostante non sia un romanzo perfetto, Glasshouse è l'ulteriore dimostrazione della capacità di Charlie Stross di coniugare storie brillanti con riflessioni non banali sullo stato della realtà, dimostrando oltretutto una capacità di evoluzione nei temi e soprattutto nella scrittura che lo pongono ancora una volta ai vertici del genere.
Joe Haldeman - Guerra eterna: Ultimo Atto
Joe Haldeman è un simpaticone, basta leggere le note ai racconti e la presentazione di Connie Willis per farsene un'idea. I racconti che compongono l'antologia non fanno che confermare quest'impressione.
Che si tratti di traumi bellici, di catastrofi naturali o di apocalissi politiche, i personaggi di Haldeman hanno in comune la loro insistenza nel voler mantenere un minimo di equilibrio mentale nonostante gli eventi tentino in tutti i modi di sopraffarli. Quale strumento migliore dunque della leggera ironia con cui l'autore gestisce i loro rapporti con una realtà intollerabile?
Non aspettatevi però il tipo di autore che copre con sagace ironia la vacuità dei propri racconti, che Haldeman è invece uno scrittore decisamente pragmatico, brillante certo, ma memorabile soprattutto per la solidità delle storie che racconta piuttosto che per lo stile letterario (che pure c'è, ma non è mai più importante dell'idea che supporta). Per questo motivo e pure per una certa similitudine nei temi e nei personaggi - se non nell'ideologia - mi pare che Joe Haldeman ricordi in qualche modo il buon vecchio Robert Heinlein. Certo, in quest'ultimo si trova 'sta maledetta insistenza sul destino superomistico del singolo, che fortunatamente è del tutto esclusa dal panorama di Haldeman (se i suoi protagonisti sopravvivono è già un successo!). A parte questo aspetto le spinte e le motivazioni dei personaggi sono molto simili, vedi ad esempio la continua compenetrazione della sfera sessuale nella motivazione e nella costruzione dei racconti, lo sfrontato pragmatismo degli uomini e delle donne che animano i rispettivi universi narrativi e infine l'attenzione che entrambi gli autori dedicano all'aspetto politico-sociale delle vicende che raccontano, attenzione che lascia comunque pochi dubbi sull'individualismo del loro approccio alla scrittura.
Magari la fantascienza di Haldeman non sarà quella che preferisco, ma in ogni caso un'antologia come questa si legge molto molto volentieri.
AA.VV. - Robot 54
Un numero con buoni contenuti questo 54 di Robot anche se non particolarmente memorabile. Tolti i pezzi giornalistico/saggistici - che interviste alle star del cinema a parte sono sempre interessanti - la parte narrativa soffre forse la mancanza di un vero pezzo forte.
Tra le varie proposte del volume il racconto che più mi ha colpito è probabilmente Tre terrestri e un marziano di L.R. Johannis recuperato e pubblicato grazie al pregevole sforzo che Vittorio Catani dedica alla riscoperta della fantascienza italiana del tempo che fu. Certo, il racconto sorprende più per la sua curiosa natura di buon-racconto-anglosassone-d'epoca-scritto-da-un-italiano che per le sue qualità intrinseche, ma a volte tocca accontentarsi.
Del resto sono piacevoli anche Sogni Impossibili di Tim Pratt e La casa oltre il cielo di Benjamin Rosenbaum con il loro rivisitare in chiave moderna dei classici temi fantascientifici (il negozio magico, il magazzino dei mondi). Degli altri racconti presenti quello di Giuseppe De Micheli nonostante pecchi di qualche ingenuità è comunque interessante (probabilmente più per i risvolti storici che per quelli fantascientifici) mentre quello del russo Oleg Ovchinnikov soffre di un'idea un po' troppo abusata per risultare davvero memorabile.
Al sottoscritto non sono invece piaciuti né Cardanica di Dario Tonani (letteralmente indigesto, e poi pretende un po' troppo dalla mia sospensione d'incredulità), né Le vigilie di Natale della zia Elise di Thomas Ligotti che ho trovato oltremodo pretenzioso e stucchevole.
Ah… una nota a parte merita Valerio Evangelisti: forse sono l'unico a lamentarsene ma trovo i suoi pezzi cinefobici davvero insopportabili.
Jacques Spitz - Segnali dal sole
Segnali dal sole m'ha lasciato basito. Nella mia ignoranza non mi aspettavo certo che uno scrittore francese praticamente sconosciuto potesse narrare con tanta melodrammatica leggerezza una storia apocalittica come questa. Ma soprattutto Segnali dal sole mi ha sorpreso per la difficoltà che ho avuto nel conciliare l'esistenza di un libro simile con l'anno e il luogo in cui è stato pubblicato. Per quanto ne so la Francia del 1943 non doveva essere il posto più sereno del pianeta, immaginatevi quindi la mia sorpresa nello scoprire che nonostante la guerra e l'occupazione nazista c'era evidentemente, almeno per qualcuno, la possibilità di avere una vita normale, addirittura di pubblicare fantascienza (e venderla! e leggerla!). Certo, a pensarci razionalmente è quasi scontato che sia così, ma ritrovarsi con delle prove effettive in mano è stato davvero illuminante, tanto che oltre ad appassionarmi alla vicenda narrata mi sono spesso trovato a interrogarmi sulla vita dell'autore del romanzo.
In qualunque modo abbia trascorso i suoi giorni è innegabile che Jacques Spitz sapesse scrivere in maniera brillante e avvincente. Nonostante siano passati più di sessant'anni dalla sua uscita la lettura di Segnali dal sole non si limita ad essere un vacuo esercizio nostalgico e il sapore retrò della storia narrata rivela più di qualche aspetto interessante anche per il lettore attuale. Insomma, se vi capita di incrociare Jacques Spitz sul vostro cammino di lettori dategli una possibilità, credo rimarrete piacevolmente sorpresi anche voi.
…
Seguite il link per le letture di gennaio.
…
Iscriviti a:
Post (Atom)