Haruki Murakami - L'elefante scomparso e altri racconti
È passato qualche anno da quando, dopo aver letto L'uccello che girava le viti del mondo, mi chiedevo quali fossero i motivi per cui Murakami Haruki mi piace così tanto. Dopo quello splendido romanzo molte altre pagine son passate sotto i miei occhi, ma Murakami è rimasto lì, in una sorta di limbo, dove gli scrittori amati rimangono in attesa di tempi migliori.
Nel frattempo Einaudi ha continuato a proporre al pubblico italiano le opere dello scrittore giapponese, che fossero nuovi romanzi o nuove edizioni di vecchi libri già editi in precedenza (e chissà che prima o poi non riproponga l'ormai mitologico Sotto il segno della pecora). Tra i volumi riproposti è uscito anche L'elefante scomparso, una raccolta della produzione breve di Murakami.
Leggendo questo volume non potevo fare a meno di chiedermi, di nuovo, cosa ci fosse di tanto affascinante nella scrittura di questo autore. Insomma, è ormai parecchio tempo che le storie che raccontano le vicissitudini di giovani annoiati e/o senza destinazione, i racconti pseudo-autobiografici traboccanti birra e vecchie canzoni, le menate esistenziali di impiegati più o meno frustrati hanno smesso di attirarmi. Eppure…
Eppure, nonostante i personaggi di Murakami ricadano spesso nei cliché summenzionati le sue storie hanno una qualità speciale che non solo mi fa digerire tranquillamente le caratteristiche dei protagonisti, ma mi lascia pure sazio ed emozionato come solo raramente contesti simili sono capaci di fare. Cos'è questa qualità speciale? Non saprei davvero come definirla: forse la Murakamità è data dalla strana alchimia che si genera dall'esasperata omologazione dell'ambiente che stride e deraglia sotto le spinte centrifughe dei personaggi che animano i racconti, o forse è prodotta dal sottile sfiorarsi del fantastico (inquietante, onirico e mai consolatorio) con la malinconia del vivere giapponese. Ma più probabilmente lo spirito che anima la scrittura di Murakami è più semplicemente la capacità di offrire al lettore uno sguardo su una diversa normalità. Una normalità che riesce a fondere un individualismo che ha perso finanche l'idea di una ribellione, con la consapevolezza che l'emarginazione che produce più che una condanna, è forse l'unica liberazione.
Arto Paasilinna - L'anno della lepre
L'estremo nord scandinavo mi ha sempre affascinato. Saranno le letture dell'infanzia (ci sarà sempre un posticino nel mio cuore per il piccolo Nils Holgersson, come pure per tutti quei libri di Astrid Lindgren letti tanta tanti anni fa) o forse più semplicemente sono quelle enormi distese di boschi e laghi e montagne, del cui fascino sono succube da sempre. Quale che sia il motivo L'anno della lepre mi ha confermato ancora una volta che io prima o poi in Scandinavia ci devo proprio andare. Le avventure di Vatanen su e giù per la Finlandia sono un ottimo (e divertente!) pretesto per un immersione nella natura gelida e ostile e bellissima del grande nord, per il confronto tra civiltà e barbarie dei villaggi sperduti, ritrovati dal protagonista nel suo vagabondaggio, e la metropoli abbandonata precipitosamente alla prima occasione, per una - forse facile, ma mai inutile - riconsiderazione delle priorità che ci muovono.
Prima di questo fortuito incontro non avevo mai letto nulla di Arto Paasilinna, credo non mancherò di approfondirne la conoscenza.
Stefano Liberti - A sud di Lampedusa
A sud di Lampedusa c'è il rischio di perdersi, non tanto a causa della geografia complessa delle migrazioni, ben raccontata nel volume, quanto piuttosto per il percorso ineguale dei tempi, (che siano gli anni che separano i viaggi dell'autore nelle varie località o gli intervalli, i tempi morti, le accelerazioni, i ritardi e insomma tutte le complicate vicissitudini che la vita del viaggiatore più o meno obbligato porta con se). E poi c'è il rischio più grande, quello di smarrirsi nel gioco di specchi che il confronto con la realtà riportata a casa da Stefano Liberti si trascina inevitabilmente dietro.
Parlare di gioco di specchi per un libro che affronta il tema difficilissimo dell'immigrazione può suonare stonato. Ma lo stesso autore ne è ben consapevole: raccontando storie di cui nessuno parla, calandovisi anima e corpo, si rischia di perdere la distanza necessaria all'obiettività, che per quanto utopistica, dovrebbe comunque rappresentare il faro di riferimento per il giornalista. Quando poi in gioco ci sono differenze così estreme tra chi racconta e chi viene raccontato, il rischio di confondere l'interesse professionale con la motivazione personale, con l'impegno civile, il rischio di diventare addirittura parte (quasi) inconsapevole del motore che macina le vite di tutte queste persone che tentano quotidianamente la via del nord, beh… credo che facendo seriamente un mestiere come quello del reporter i dubbi ricorrenti sulla propria identità e il proprio dovere professionale più che un rischio diventano una certezza, forse addirittura una strategia di sopravvivenza.
Senza questa consapevolezza il racconto che fa l'autore delle persone, e ancor più dei luoghi che costituiscono le tappe delle rotte migratorie verso l'Europa, forse è altrettanto illuminante, ma rende meno l'idea dell'enorme confusione esistente sotto il cielo, che sia d'Africa, d'Asia o d'Europa.
Stefano Liberti è molto bravo a raccontare una realtà tanto aliena, a lasciare che sia il racconto stesso a prender forma di denuncia, con la voce dell'autore ben presente, certo, ma più per avvertire il lettore dei rischi cui accennavo sopra, che per puntare il dito verso il cattivo di turno.
A sud di Lampedusa è una lettura consigliatissima per avere un'idea seppur minima dell'inferno del viaggio migratorio, correndo magari il rischio che la figura del giornalista-narratore, che non esita ad abbandonare le comodità per recarsi novello esploratore nel deserto, tra popoli diversi e diverse civiltà per riportare a casa la gemma preziosa di una conoscenza esotica, risulti alla fine anche più interessante del contenuto vero e proprio del volume.
…
Nessun commento:
Posta un commento