Oggi è l'otto marzo, festa della donna, e quella che segue è una storia che racconta il senso di questa data. L'ha scritta la mia amica Lui un paio d'anni fa. Nel frattempo abbiamo scoperto che quell'episodio non è realmente successo, ma nonostante le cose non siano andate esattamente così, le parole della Lui non hanno perso nulla della loro forza.
Io sono convinto che siano le storie più ancora della Storia a fare di noi quello che siamo. Per questo motivo il racconto della Lui rimane per me molto più vero e vivo di molta della retorica che accompagna questa giornata.
Buona lettura.
1908: come unghie a graffiare vetro nero
Erano arrabbiate. Tristi, erano sfruttate. Vivevano come animali, lavoravano come schiave. Non avevano diritti, solo doveri. Non avevano un compenso che si potesse chiamare paga. Poi, altro. Di peggio. Erano donne. Erano niente. Erano carne da macello.
Una di loro alza la testa. Quale sarà stata la causa scatenante? Un figlio ammalato, la dignità ancora una volta calpestata da una mano addosso, la stanchezza che non permette un razionale pensiero? Comunque, una di loro alza la testa. Basta. Pensa. Basta. Dice. Basta. Urla. Altre donne alzano la testa. Alcune per zittirla, perché non possono rinunciare a quei quattro soldi, e non hanno mai pensato di poter vivere in maniera diversa. Ma altre no, si uniscono. Basta. La voce si alza, le braccia si incrociano. Mi immagino il “padrone”. Cazzo vogliono, queste. Cazzo dicono, cazzo fanno. Dovrebbero ringraziarmi, dovrebbero baciarmi i piedi.
L’urlo è alto, le braccia si uniscono, le donne spengono le macchine, non producono. Non solo. Parlano. Di cose assurde, di dignità, di compenso, di orari, di diritti. Parlano. Poi si alzano ed escono. Da quella fabbrica fumo polvere sudore ansia sfruttamento. Escono e guardano in alto. Quanto tempo è che non vedono il sole? quanti anni sono che entrano col buio della notte ed escono col buio di quella successiva, e via a correre, e via a lavorare e via a preparare lavare accudire via via via. Escono e c’è il sole. Alzano la faccia a quel calore, nonostante sia ancora freddo.
Il giorno dopo ancora. Le donne ci tornano, in fabbrica, ma parlano. Dicono cose che fanno pensare. Le parole sanno di pulito, di bello. Sanno di una vita che forse, ecco, forse sarebbe possibile vivere.
I giorni passano. Le donne guardano con occhi fissi quelli del padrone, ed i suoi urli non sono alti come il loro silenzio improvviso.
I giorni passano, le donne sono più alte, ci scappa un sorriso, ogni tanto, perché la rabbia che avevano dentro sta uscendo fuori, e con quella il veleno che inacidiva il loro viso e la loro vita.
Un sorriso che ha nome: si chiama speranza. si chiama dignità.
E’ ora di uscire. E’ finito l’orario. Si preparano. Vanno alle porte, parlano ancora fra loro. Domani sarà un altro giorno di lotta, ma adesso è tempo di andarsene. Che capisca il padrone che non scherzano. Si piegherà anche lui.
Le porte sono bloccate. Ci provano insieme. Corrono, da una porta all’altra. Niente. Cosa succede. Cosa…urlano, adesso. Prima è rabbia, sono insulti, sono pugni alzati, sono botte a quelle porte chiuse. Poi è paura, che serpeggia, si allunga, prende alla gola. No, non è solo paura. E’ puzza di fumo. Il terrore. Il panico. Donne corrono, si scontrano, i pugni alle porte si fanno forsennati, sangue dalle mani, graffi sui volti, pensieri impazziti, i miei figli, il mio uomo, devo uscire, devo vivere, voglio vivere.
Il fumo diventa fiamme, le fiamme diventano fuoco tutto brucia, tutto: pareti, legno, tutto. I vestiti delle donne, sembrano torce che fuggono, si scontrano contro altre torce, il fuoco nei capelli, la pelle, il dolore, l’odore osceno di carne bruciata…
Tutto si consuma, in quelle fiamme. Una fabbrica, 129 storie personali, ed una storia collettiva.
Mr. Johnson, il padrone della fabbrica, ha bloccato tutte le porte della fabbrica. E poi, è stato dato fuoco. E’ New York. E’ il 1908. 129 donne sono morte. Per credere ad una vita dignitosa. Per ribellarsi ad una condizione disumana. Morte ammazzate, come topi in trappola.
A loro, e a tutte le PERSONE, persone e non solo donne, il mio ringraziamento, per avermi permesso una vita migliore.
…
grazie.
RispondiElimina:-*
Come sarebbe non e' accaduto? Certo che e' accaduto, e' il famoso Triangle Fire. A parte il fatto che il fuoco e' stato accidentale e non deliberato, e che la cosa e' accaduta il 25 Marzo 1911 e non l'8, e che i morti sono stati 148 e non 129, e che il padrone non si chiamava Johnson - ma il fatto non solo e' ben noto, e' stato il peggior disastro che ha colpito New York fino all'11 Settembre 2001.
RispondiEliminaPer citare Wikipedia:
Triangle Shirtwaist Factory fire in New York City on March 25, 1911, was the largest industrial disaster in the history of the city of New York, causing the death of 148 garment workers who either died from the fire or jumped to their deaths. It was the worst workplace disaster in New York City until September 11th, 2001. The fire led to legislation requiring improved factory safety standards and helped spur the growth of the International Ladies' Garment Workers' Union, which fought for better working conditions for sweatshop workers in that industry. The Triangle Shirtwaist Factory Building, also known as the Asch Building and as the Brown Building, survives and was named a National Historic Landmark.
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Se mai doveste andare a New York, io consiglio di andare a visitare il Tenements Museum, un piccolo museo di incallitti sporchirossisenzadio nel Lower East Side, dove fra le altre cose vi raccontano la storia dell'industria dell'abbigliamento di New York.
Anna: la storia dell'industria è (purtroppo) ricca di episodi analoghi, proprio per questo motivo il racconto della Lui non perde nulla della sua forza.
RispondiEliminaCiò non toglie che l'episodio specifico riguardante la fantomatica industria Johnson è comunque un falso storico.
Viva loro, anche se sono il nemico :-)
RispondiEliminaSempre viva!
RispondiElimina(nah… magari tutti i nemici fossero così! :-))