30 agosto 2012

Letture: Murakami, Lindqvist, Murgia, Walton, Lansdale.

© giorgio raffaelli
Benritrovati! Le vacanze son finite già da qualche giorno, ma ho esitato un po' a farmi vivo qui dentro. Quando il blog rimane fermo per più di una settimana faccio sempre fatica a riprenderlo in mano. C'è l'inerzia della pigrizia estiva, la timidezza del rifar vedere la propria faccia virtuale in giro dopo tanto tempo, e poi c'è la quantità di cose di cui vorresti parlare e che fai fatica a mettere in fila.
Per uscire dall'imbarazzo partiamo con una raffica di note sulle letture dei mesi passati. Ho in saccoccia qualche decina di recensioni (chiamiamole così, per questa volta) appena abbozzate. Se aspetto di svilupparle per bene il blog rischia di morire d'inedia. Ho deciso quindi di spararne qualcuna in una serie di post cumulativi. Se poi qualcuno di voi là fuori avesse voglia di discutere di questo o quel romanzo, non ha che da dirlo, e se ne può parlare in maniera più diffusa e approfondita.


Murakami Haruki - Kafka sulla spiaggia
Finalmente Murakami Haruki ha ricominciato a raccontare storie capaci di emozionarmi come quelle dei suoi esordi; finalmente ci sono personaggi riconoscibili, vivi, vitali; finalmente l'autore giapponese ha trovato una via d'uscita dal vicolo cieco solipsista ed etereo di almeno un paio dei romanzi che hanno preceduto Kafka sulla spiaggia.
Kafka sulla spiaggia è un'ode alla marginalità. Nei romanzi di Murakami essere esclusi dal consesso civile non è una condanna ma una benedizione: permette una libertà limitata solo dai vincoli (amore, abbandono, dolore e altre inquietudini) che i personaggi si impongono e con cui si confrontano per tutto il corso della narrazione. E lo sconfinamento della vicenda nel fantastico, ambiguo, quasi ipnotico, sempre necessario, non è altro che un'altra possibilità che ci offre il nostro quotidiano, individuale, solitario punto di vista sulla realtà.
Mi piace Murakami, mi regala una serenità che non trovo altrove.


John Ajvide Lindqvist -L'estate dei morti viventi
"Scrivo versi tra i non morti nella fase REM"
Queste parole da un pezzo di Salmo (Prima di dormire) non smettono di risuonarmi in testa ogni volta che ripenso al romanzo di John Ajvide Lindqvist.
Non so cosa me le faccia accostare a L'estate dei morti viventi, che in fondo i due testi c'entrano ben poco uno con l'altro. Forse l'atmosfera di tranquilla disperazione, la rassegnazione a una sconfitta che non è una resa, ma nasce dalla consapevolezza di essere minoranza isolata, o forse è solo la mescolanza bastarda di riferimenti narrativi e musicali… (che poi vogliate leggere queste parole in riferimento al romanzo, all'hip-hop italiano, o alla nostra natura di lettori di genere, beh… fate voi.)
Non sono avezzo ai topoi dell'horror. Gli zombi li conosco, come la maggior parte di voi, per qualche frequentazione cinematografica e per la loro ubiquità mediatica, ma non sono un esperto. Non so quindi dove collocare L'estate dei morti viventi nel panorama dell'horror contemporaneo. Di sicuro so che m'è piaciuto parecchio, forse per il tono quieto, senza strepiti o urla, con cui è narrata la solita storia di zombi, o forse per la capacità di affrontare il tema dei non-morti non eccedendo in facili simbolismi o metafore sociali, ma riuscendo comunque a parlare di scienza e religione e politica e sentimenti, non perdendo mai il fuoco sui personaggi, sulle loro storie, e sull'orrore che li circonda.
Per finire un ringraziamento a Elvezio Sciallis: è la sua recensione che mi ha spinto verso L'estate dei morti viventi. (E se per caso in questo grazie ci leggi un sottile invito a riprendere a parlare di libri, beh… cosa stai aspettando?)


Michela Murgia - Accabadora
Erano anni che giravo intorno a questo romanzo. Me ne avevano parlato bene in tanti, ma la politica dei prezzi Einaudi mi ha tenuto lontano da 'sto libro per un sacco di tempo. (Non compero romanzi che costino più di 12/15 euro, Vendere le 164 pagine di Accabadora a diciotto euro a me pare un latrocinio.)
Nel 2011 è uscita però un'edizione economica del volume, ed eccomi quindi qui a parlarne.
Accabadora merita tutti i riconoscimenti che ha avuto. È un ottimo romanzo da tutti i punti di vista: c'è la ricostruzione storica (la campagna sarda, la Torino anni '50); la tridimensionalità dei personaggi, che son tanto veri e vicini che è difficile metterli da parte una volta concluso il romanzo; una scrittura asciutta e coinvolgente; la possibilità di riflettere tra le righe della storia di condizione femminile, di etica, di scelta e di destino; una trama solida, con mistero, dramma e passioni, ottimamente gestita e risolta.
Io però non posso a fare a meno di chiedermi com'è possibile che un'autrice trentenne, capace e sensibile come Michela Murgia, debba ritrovarsi a scrivere l'ennesima storia sul passato che mai più ritornerà? Perché qua da noi non si riescono a leggere storie altrettanto profonde e interessanti di questa Accabadora capaci però di riflettere sul nostro futuro? Sarà solo un'impressione - smentitemi se potete! - ma perché in Italia non siamo capaci di mettere il nostro passato in un angolo e vedere quel che c'è più avanti? Domanda retorica, lo so, ma quale occasione migliore per riproporla?


Jo Walton - Tooth and Claw
Avete presente quelle storie fine ottocento, tipicamente inglesi, con la classica famiglia in difficoltà, il padre improvvisamente scomparso, le figlie da sistemare, i fratelli su cui si può contare fino a un certo punto, un nobile malvagio all'orizzonte e poche speranze di salvezza, vincolati come sono tutti alla rete di convenzioni sociali che legano e immobilizzano qualsiasi tentativo di cambiamento, con magari la brezza lontana di una rivoluzione alle porte? Lo sviluppo di una storia simile può sfociare in dramma o risolversi in commedia, ma ha tutta l'apparenza, riproposto qui e ora, di una vicenda stucchevole e retorica.
Jo Walton però ne sa una più del diavolo e su questa struttura opera un unico magnifico cambiamento, sufficiente a rendere entusiasmante la lettura di Tooth and Claw: tutti i protagonisti di questa saga familiare sono draghi. Sì, proprio draghi: vari metri di lunghezza, ali, artigli e zanne.
La conseguenza più immediata di questa scelta è che la struttura della società in cui i draghi vivono non è definita (solo) da vincoli sociali, ma bensì fisici: le dimensioni contano.
Ma Jo Walton non ha alcuna intenzione di scrivere una parodia: il meraviglioso lavoro di world building che sta alla base della vicenda ne è la prova più evidente, così come la sensibilità nella creazione e nella gestione dei personaggi. Come nella miglior tradizione del romanzo ottocentesco ci sono momenti esilaranti, altri piuttosto drammatici (e screziati di una certa vena granguignolesca che non stona per nulla, visto il contesto). La scelta di attenersi al registro della commedia romantica non impedisce all'autrice sottili osservazioni sui rapporti tra i sessi o le strutture di potere, che avvicinano il mondo dei draghi a realtà più prossime all'esperienza del lettore.  
Tooth and Claw è un romanzo fantasy, non ci sono dubbi, ma un fantasy piuttosto diverso da quelli che si trovano solitamente nelle nostre librerie. Da leggere, e goderne pagina dopo pagina.


Joe Lansdale - Sotto un cielo cremisi
Hap Collins e Leonard Pine hanno cambiato editore italiano, ma la sostanza non cambia. Nonostante gli anni passino e gli acciacchi dell'età comincino a farsi sentire, il duo più famoso del Texas orientale continua a far danni. Nonostante il ritmo non sia più quello dei tempi d'oro, e alcuni momenti e situazioni risultino forzati, Hap e Leonard tengono botta anche Sotto un cielo cremisi, sorretti dal mestiere di Lansdale e dalla potenza di fuoco che schierano contro un mondo sempre più brutto e cattivo.
Era da qualche anno che non leggevo nulla del mio autore texano preferito, forse potevo scegliere un romanzo migliore, ma oh… Joe Lansdale non riesce proprio a deludermi.




10 agosto 2012

Frisbee Freestyle World Championship - Tutte le foto


Credo di aver battuto un record personale in questi ultimi dieci giorni: forse in passato ho già scattato un numero altrettanto elevato di foto in così poco tempo, ma di sicuro non ho mai caricato la quantità esorbitante di foto che potete trovare collegate qui sotto.

È successo che la settimana scorsa siamo stati a Riccione dove i nostri amici riminesi hanno contribuito ad organizzare (e a giocare! e a vincere!) i Campionati mondiali di Frisbee Freestyle. Siamo andati per dare una mano: Annalisa, Francesco e Jacopo contribuendo alla gestione quotidiana del torneo, io fotografando a più non posso.
Il risultato sono stati 7 giga di schede di memoria piene e circa 1500 foto caricate su Picasa.
Sono abbastanza soddisfatto dei risultati fotografici. Per la prima volta ho caricato on-line praticamente tutte le foto appena appena decenti fatte, ho sistemato in automatico curve e contrasti e nonostante le lavorazioni grossolane la qualità media mi pare più che accettabile.
Certo non tutte le foto sono memorabili, soprattutto quelle dell'ultimo blocco, che - maledizione! - s'era fatto tardi e il sole c'ha lasciato, ma per un lavoro di tali dimensioni e svolto in così poco tempo (per i miei standard almeno) sono davvero contento.

Qui di seguito trovate i collegamenti ai vari album. Se avete un po' di tempo (parecchio tempo!) dategli un'occhiata. Le routine che i freestyler ci hano fatto vedere sul Red Carpet di Riccione sono state spettacolari. Spero che le foto riescana a trasmettere un po' dell'energia e della passione che i giocatori hanno messo in campo.


Open Pairs - Qualificazioni

Open Pairs - Semifinali

Open Pairs - Finali


Women Pairs - Semifinali

Women Pairs - Finale

Mixed Pairs - Semifinali

Mixed Pairs - Finale

Open Co-op - Semifinali

Open Co-op - Finale


Per finire un grazie di cuore alla Lui, a Clay e ad Ale per l'ospitalità e tutto quanto il resto; al'infaticabile Claudio Cigna e ai ragazzi e le ragazze che lo hanno aiutato nell'organizzazione e nella gestione del torneo; ai freestyler, che sono delle gran belle persone.


07 agosto 2012

Fantascienza in arrivo: Lois McMaster Bujold

Con un paio d'anni di ritardo rispetto all'edizione americana, arriva in questi giorni in edicola un nuovo romanzo di Lois McMaster Bujold ambientato nell'universo di Miles Vorkosigan. Il titolo originale, Cryoburn, è stato tradotto nel terribile La criocamera di Vorkosigan, ma va bene così, non si può avere tutto…

Io sono un fan e quindi molto poco obiettivo, ma il ciclo dei Vor è una delle letture più  divertenti e appassionanti io ricordi.
La saga è arrivata ormai a 15 volumi + 1 (Gravità Zero, che si svolge nello stesso universo, qualche secolo prima dela nascita di Miles). Tutti i romanzi sono stati tradotti in italiano dall'editrice Nord prima e da Delos (alcuni romanzi brevi) poi. Parecchi di questi volumi sono purtroppo difficilmente reperibili (ma bancarelle e reminders aiutano). Per orientarsi tra i romanzi e la cronologia della saga consiglio di dare un'occhiata a questo vecchio post.

Diversamente dai romanzi precedenti questo nuovo capitolo delle avventure di Miles esce solo su Urania. È quindi d'obbligo il solito avvertimento: alla fine del mese viene ritirato dal distributore e in edicola non lo trovate più. Ma stavolta gli avvertimenti sono due: da qualche mese Mondadori ha deciso di provare a battere le piste dell'ebook anche per Urania. Le uscite digitali della rivista sono però ancora del tutto aleatorie e ad oggi non è dato sapere se La criocamera di Vorkosigan godrà di un'edizione elettronica. 


30 luglio 2012

Campionati mondiali di Frisbee Freestyle

© giorgio raffaelli
Vi state abbuffando d'Olimpiadi? Siete diventati espertissimi conoscitori di tiro con l'arco, scherma, nuoto, ginnastica, judo e compagnia bella? La vostra televisione non ne può più di vedervi lì seduti a sudare, con gli occhi pieni d'atleti e record e gioia o delusioni?
Beh… potreste sempre fare un salto a Riccione, che da giovedì in avanti c'è il campionato mondiale di Frisbee Freestyle: un sacco di sport, tanta bella gente (vera! dal vivo!) e ottima compagnia, oltre a tante piadine da non poterne più.
Tutte le informazioni pratico-logistiche le trovare qui.
Noi ci saremo.


26 luglio 2012

Letture: Il ritorno delle furie, di Richard K. Morgan

© giorgio raffaelli
Avevo lasciato Takeshi Kovacs in fuga da un pianeta condannato alla guerra, un po' più ricco e  ancora più disperato di come lo avevo trovato dopo le sue avventure hard-boiled a Bay City. Nel terzo romanzo che Richard K. Morgan  dedica all'ex spedi, il buon Kovacs torna a casa.
Finalmente si scopre  la verità su ciò che ha tormentato i sogni e ricordi del nostro eroe negli ultimi decenni, custodia dopo custodia, guerra dopo guerra, un sistema stellare dopo l'altro.

Il ritorno delle furie  sembra fatto apposta per essere trasformato in un blockbuster hollywoodiano. Takeshi Kovacs è l'eroe perfetto per questi tempi disastrati: cinico e disincantato, con un passato torbido alle spalle e una coscienza che non riesce a mettere a tacere. L'ambientazione non è da meno:  guerra e disperazione, sangue, esplosioni e lacrime. Uno scenario divenuto ormai classico sfondo per l'azione a gogò:qualcosa a metà strada tra I mercenari e Serenity, se sapete di cosa sto parlando.

Ma il paragone è superficiale e non rende piena giustizia al lavoro di Richard K. Morgan. L'autore inglese tenta in ogni modo di infondere profondità e pathos alla sua creatura, ma nonostante il risultato si lasci apprezzare, Il ritorno delle furie mi pare meno riuscito rispetto ai precedenti romanzi che raccontano le avventure di Kovacs.
Se alla base di Bay City e Angeli spezzati c'erano idee sufficientemente complesse su cui fondare le relative vicende (le custodie, i marziani), Il ritorno delle furie si limita a proporre al lettore quella che pare essere null'altro che una trovata (il supercattivo) e una rivelazione (il ritorno di uno spettro dal passato), sfruttando  gli stessi elementi presentati nei capitoli precedenti per dare spessore al romanzo.
L'invenzione del nemico di Kovacs è gestita in modo brillante, certo, ma l'ho trovata al contempo eccessiva e non sufficientemente articolata per costituire da sola (o quasi) il nucleo del romanzo. Focalizzare buona parte della trama sullo scontro tra l'eroe e la sua nemesi costringe la storia a muoversi sui binari del confronto individuale, mentre i temi politico/sociali che avrebbero potuto dare complessità e vigore al romanzo (e per lunghi tratti ci riescono) finiscono per rimanere quasi soffocati dal fragore delle esplosioni che più di una volta riducono il romanzo al confronto elementare tra chi ha il cannone più grosso.

Nel romanzo precedente Kovacs si muoveva in uno scenario di tangibile disperazione, pieno di dubbi personali e misteri cosmici, ne Il ritorno delle furie il suo procedere nella vicenda è invece piuttosto meccanico, quasi distaccato, e sebbene le sorprese non manchino, le rivelazioni che lo aspettano non ripagano il lettore (questo lettore almeno) delle aspettative.
Per quanto la storia si riveli comunque appassionante fino all'ultima pagina, ci si ritrova a chiudere il libro non del tutto soddisfatti. Il paragone è forse troppo duro, ma viene da pensare che come quell'idea di rivoluzione che ha accompagnato Kovacs per tre romanzi viene costantemente sconfitta dal pragmatico cinismo della pratica politica quotidiana, così, ne Il ritorno delle furie, si assiste con rassegnazione alla progressiva normalizzazione delle ambizioni narrative del suo autore. Richard K. Morgan rimane comunque uno scrittore da tenere d'occhio, ma da questo romanzo mi aspettavo qualcosa di più.

23 luglio 2012

Letture: Magic for Beginners, di Kelly Link

© giorgio raffaelli
"Some things that you could try with zombies, but which won’t work:
Panic.
Don’t panic. Remain calm.
Call the police.
Take them out to dinner.
Buy them drinks. Buy them flowers.
Give them raises.
Ignore them.
Tell them your dreams.
Tell them jokes.
Tell them you love them.
Rescue them."

(Estratto da Some Zombie Contingency Plans, Kelly Link)



Magic for Beginners è un'antologia stupefacente, un viaggio in nove tappe nella fantasia inquieta e intrigante di Kelly Link. Tra vecchi cliché e nuove suggestioni, le storie raccolte in questo volume  travolgono il lettore con un universo pieno di strane cose, ma con i buoni vecchi esseri umani a risultare comunque i tizi più pericolosi, divertenti, complicati e spaventosi sulla piazza.
La qualità media dei racconti contenuti in Magic for Beginners è pazzesca. Così come la varietà di temi o il tono variopinto delle varie storie: si passa dalla favola brillante venata d'oscurità al mainstream corrotto dall'aggressione degli archetipi dedl genere, dal fantasy goticheggiante al racconto fantastico tradizionale, costeggiando una certa attitudine post-moderna (a la Aimee Bender) che rimane sotterranea e non prende quasi mai il sopravvento sulle forme più tradizionali della narrazione lineare.

Magic for beginners, il racconto che da il titolo alla raccolta, è forse l'esempio migliore del talento della Link nella composizione di storie in perenne bilico  tra normalità, fantastico e surreale. I suoi giovani adolescenti in amore, la soap opera come stile di vita, le (in)solite famiglie in crisi,  i supereroi e il grande vuoto là fuori sono gli elementi di una storia che per quanto cerchi la fuga consolatrice ti tiene invece incollato a terra, con le sue inespresse domande fondamentali, con tutti i dubbi e la mancanza di risposte con cui ci siamo abituati a convivere.

Peccato soltanto per il racconto lungo che chiude l'antologia, unica nota stonata in un volume altrimenti perfetto. Lull ha il difetto di essere probabilmente troppo ambizioso: è talmente pieno di idee, cose, suggestioni, riferimenti e mescolanze (viaggi nel tempo e demoni, separazioni, case abbandonate, poker, cloni e donne verdi, tra le tante) da risultarmi nel complesso piuttosto indigesto.  Ma un racconto così così contro otto storie che vanno dall'avvincente al memorabile, beh… mi sembra un ottimo risultato.

Magic for Beginners è disponibile con licenza creative commons presso il sito dell'autrice.
Provatelo e poi sappiatemi dire.

18 luglio 2012

L'inevitabile bellezza della montagna

© giorgio raffaelli
Il ritmo dei passi sulla terra battuta, un alito di vento a rinfrescare il cammino, intorno il verde dell'erba, più in là i colori caldi della roccia dolomitica. Il cielo è azzurro ghiaccio, grigio di nuvole, con il sole che spunta a tratti. Minaccia pioggia, ma chi se ne frega: non sono mai stato meglio che in questo luogo, zaino in spalla, a camminare in mezzo alle montagne.

Non faccio grandi pensate mentre attraverso una valle o mi inerpico per un ghiaione. Passeggiare nel bosco o scendere da una forcella non sono esperienze illuminanti, anzi. Camminare in montagna, almeno nei tratti più rilassati del sentiero, è forse la cosa che più mi avvicina alla meditazione: svuotare la mente, respirare, fare un passo, farne un altro.

Però ogni tanto mi  fermo a considerare quel che mi circonda. Mi guardo intorno e mi chiedo cos'è che mi fa stare così bene. Certo, c'è la componente puramente sensoriale, che va insieme alla memoria e riporta a casa il me stesso più giovane. La montagna vissuta da bambino, l'esplorazione e l'avventura, il gioco e la scoperta. Ma il viaggio nel tempo non basta a spiegare il godimento. Ci dev'essere anche una componente razionale che fonde estetica e ragionamento per produrre, qui e ora, la soddisfazione del momento.

Non trovo modo migliore per spiegare l'inevitabile bellezza della montagna che riflettere su caos e casualità, sull'ordine e il disordine della visione, sugli scambi tra osservatore e osservato.
L'aspetto delle Dolomiti per come appaiono all'escursionista è frutto del caso. Non c'è alcun progetto sotteso alla maestosità della loro presenza tranne che quello caotico delle forze geologiche che hanno modellato il territorio. Avete presente il teorema del milione di scimmie che battono a macchina? Fatevi un giro sulle Dolomiti, lo vedrete dimostrato.  Ed è liberatorio, e consolante, considerare come caso e probabilità abbiano prodotto un panorama tanto accessibile e meraviglioso.
Siamo abituati ad associare la bellezza alla creazione consapevole. Ammiriamo musica, pittura, letteratura. Rimaniamo affascinati dalla potenza della creatività umana. È quindi stupefacente ritrovare le stesse emozioni in un contesto che di umano non ha nulla. Non c'è ordine ne disciplina in un panorama montuoso, eppure ci ritroviamo un equilibrio e un'armonia che non manca di colpire la nostra immaginazione. Com'è possibile?

Credo che il senso di meraviglia che mi esalta quando interagisco con la montagna rappresenti il nucleo del rapporto di scambio che si instaura con qualsiasi soggetto noi entriamo in contatto. Come accade di fronte a un'opera d'arte, quello che percepiamo non è altro che un riflesso di quello che siamo e di quello che siamo disposti a concedere all'oggetto della nostra osservazione. L'autore non conta nulla o quasi, quel che conta è la capacità reciproca, dell'osservato e del'osservatore, di riflettersi nell'altro e raccontare, l'uno all'altro, la propria singola narrazione dell'esistente. E la montagna, che contiene nel momento del cammino tutta la nostra esperienza, fatta di tempo e sensi, e quindi di lavoro, di muscoli, di clima, è capace, come le migliori opere d'arte, di rompere il velo della quotidianità e portarci altrove, in quello che probabilmente è il nostro migliore riflesso, la nostra storia migliore.

06 luglio 2012

25 Miles

© giorgio raffaelli
Ok, con 25 miglia arriviamo a 3/4 della camminata che ci aspetta nei prossimi giorni, ma non conosco una canzone migliore di quella di Edwin Starr per accompagnare noi viandanti che si parte per i monti. (se ci fosse qualche dubbio, già, baby, è la montagna.)

Dopo l'ottima esperienza dell'anno scorso, quest'anno ci si riprova e si rilancia. Ci aspetta una camminata di una cinquantina di chilometri o poco più lungo le prime tre tappe dell'Alta Via delle Dolomiti N. 1, per poi deviare verso nord-est e tornare a valle. Si parte da Braies e si arriva a Cortina dopo essere saliti al Rifugio Biella, passati dall'Alpe di Fanes, inerpicati fino ai 2700 metri del rifugio Lagazuoi e scesi per tutta la val Travenanzes.

Non vedo l'ora di essere lassù, zaino in spalla e via a camminare.


03 luglio 2012

Letture: Alia, Robot, IASFM

© giorgio raffaelli
Tra un romanzo e l'altro cerco sempre di inserire tra le mie letture qualche volume di racconti. Negli ultimi mesi è toccato ad Alia Anglosfera, a un paio di numeri di Robot (il 61 e il 62) e a un vecchio numero dell'edizione italiana della Isaac Asimov Science Fiction Magazine (il numero 7 della gestione Phoenix). Quelle che seguono sono alcune note sui racconti contenuti nelle quattro pubblicazioni.

Partiamo da Alia Anglosfera, edizione del 2009.
Come già fatto nelle note agli altri numeri di Alia, la prima considerazione da fare appena terminata la lettura è notare quali risultati si riescano a raggiungere e cosa si riesca a realizzare se sufficientemente motivati, pur senza godere di budget significativi. Questo volume è stato infatti realizzato da un pugno di appassionati che risponde ai nomi di Davide Mana, Silvia Treves e Massimo Citi, che si sono occupati di ricerca e traduzione dei racconti, supervisione, impaginazione e stampa.
Alia Anglosfera contiene sette racconti a cavallo tra fantastico e fantascienza scritti da Ted Chiang, Lillian Csernica, Ellen Kushner, Michael Moorcock, Tim Pratt, Delia Sherman e Karl Schroeder.
Se conoscete questi nomi (io ne conoscevo solo qualcuno) potrete forse immaginare la varietà dei temi dei racconti e della scrittura, varietà che in effetti può lasciare spiazzato più di un lettore. Dal mio punto di vista la proposta variegata di Alia è un ottimo sistema per assaggiare una serie di piatti narrativi  che altrimenti non avrei mai provato. E mi ha confermato quel che in fondo già sapevo: mi devo procurare al più presto un romanzo di Tim Pratt.



E veniamo a Robot. Per qualche nota generale sulla rivista di Delos Book vi rimando a questo post. Stavolta mi voglio concentrare sui racconti contenuti negli ultimi numeri letti.
Nello specifico, il numero 61 di Robot contiene il racconto premio Hugo 2010 La sposa fredda di Will McIntosh, piccola storia dal respiro molto ampio, capace di raccontare da un punto di vista insolito l'evoluzione delle relazioni umane (o la mancanza delle stesse), a me è piaciuto. Di seguito Hidden di Luigi Rinaldi storia di una ricerca senza speranza, in una zona aliena. Il racconto ha il passo pesante di chi si trova a ripercorrere strade già frequentate da altri, e con ben diversi risultati, con la frenesia di dover dimostrare la propria originalità, e forse per questo motivo non mi è piaciuto.
Nelle pagine successive un altro racconto italiano, Vestiti usati a Treptow Markt di Marialuisa Amodia che è invece formidabile nel mescolare fantastico e quotidiano, con un'ottima gestione dell'ambientazione e una trama che mescola storia personale e mistero con grande equilibrio e leggerezza, senza per questo suonare accomodante o superficiale. Secondo me il punto più alto di questo numero di Robot e forse il miglior racconto italiano letto quest'anno.
Il racconto successivo è il recupero dai primi anni '70 de L’ultima giga di Remo Guerrini. Racconto solido e ben scritto ambientato in uno scenario post-apocalittico dal sapore spiccatamente fantasy. È il genere di storia che ha sicuramente i suoi meriti, ma che io faccio fatica ad apprezzare per quanto derivativa appare. Chiudono questo Robot due racconti, Alice davanti allo specchio di Sergio Cicconi e Pervertito di Charles Coleman Finlay che non mi sono piaciuti per motivi analoghi: un voler estremizzare situazioni e prospettive senza avere poi la capacità di portare la propria scrittura agli stessi punti di rottura che le loro storie richiederebbero, con il risultato di non riuscire a coinvolgere il lettore (questo lettore perlomeno).

Il numero 62 di Robot si apre con una copertina davvero invitante ad opera di Brian Despain, forse una delle più azzeccate della storia recente della rivista. I racconti stranieri presenti nel volume sono tutti made in Canada, così come il contenuto redazionale che è dedicato per la gran parte alla produzione del paese nordamericano (spicca a questo proposito l'articolo di Salvatore Proietti dedicato alla fantascienza locale, davvero ricco e informato). La narrativa italiana è rappresentata dall'ultimo racconto scritto da Vittorio Curtoni. Procedura empatica ripercorre i temi e le sensazioni più care a Vittorio, con quella vena di amarezza mescolata insieme a un esile speranza e all'eterno pessimismo che è forse il tratto distintivo dell'autore. A me la sua fantascienza non ha mai convinto: troppo autoreferenziale e involuta per i miei gusti, ma questo racconto rappresenta una testimonianza unica di quel che è stato l'ultimo periodo di Vittorio Curtoni e per questo merita comunque il massimo rispetto.
Dicevamo degli autori canadesi presenti in questo Robot. Sono Peter Watts con L'isola, una storia piuttosto ambiziosa che racconta insieme di esplorazione, alienazione, famiglia e lotta di potere. L'isola è un racconto complesso e interessante, pieno di suggestioni e interrogativi. Forse un po' troppo freddo nel suo essere spietatamente analitico, ma ce ne fossero…
Non altrettanto interessanti gli altri racconti di Tanya Huff (Una volta conoscevo un tipo) e Robert J. Sawyer (Questione di tempo) che battono piste già battute un milione di volte prima di loro. Eentrambi lo fanno però con garbo e mestiere, lasciandosi leggere fino in fondo.
Per dovere di completezza vanno segnalati anche Il significato del Natale di Riccardo Restelli e Distacco da Garics di Maurizio Del Santo, il primo è un  racconto nostalgico e melenso che vorrebbe magari suonare fiabesco ma che invece appare solo terribile nei contenuti come nello svolgimento, il secondo è un racconto di primo contatto con tutte le sue cose al posto giusto, ma che per un motivo o per l'altro non è riuscito ad appassionarmi quanto avrebbe dovuto.



Concludo questa carrellata con un tuffo nel passato prossimo delle pubblicazioni che hanno portato in italia la fantascienza più innovativa e dirompente. Sto parlando dell'unica, indimenticabile, incredibile, Isaac Asimov Science Fiction Magazine, che in una manciata di numeri usciti tra il 1993 e il 1995, sotto l'etichetta di Telemaco prima e Phoenix poi, ha tentato di dirottare la fantascienza nazionale su una strada diversa da quella percorsa dagli editori dell'epoca.
Il numero 7, uscito nel novembre del 1994, è una raccolta antologica a tema, dedicata in toto alla realtà virtuale. Leggendo i vari racconti raccolti nel volume (sono 9, ad opera di Mary Rosenblum, Robert Silverberg, Geoffrey A. Landis, Nancy Kress, Pat Cadigan, Eileen Gunn, Sonia Orin Lyris, Jonathan Lethem e Cherry Wilder) la prima cosa che salta agli occhi è quanto velocemente invecchi la fantascienza che cavalca la moda del momento. Fantascienza che all'epoca colpiva per l'approccio user friendly a materie magari esotiche, ma che senza il supporto di una scrittura all'altezza perde in fretta il suo pregio migliore che è quello della novità. E come sia facile (soprattutto col senno di poi!) riconoscere invece quegli autori capaci di lasciare un segno indelebile nella memoria, Nel caso di questo numero della IASFM i racconti che si leggono tuttora con autentico piacere sono Chip runner di Bob Silverberg, solida fantascienza classica ma potente, Post mortem di Pat Cadigan, un racconto che più anni '80 di così è difficile immaginarlo (ma in senso buono!) e "Per Sempre" disse il papero di un giovane Jonathan Lethem, allora ancora alle prese con i dintorni della fantascienza, che ci da dentro come suo solito.
Ritrovarsi a leggere queste vecchie storie (si fa per dire…)  che hanno già un paio di decenni sulle spalle è comunque esperienza interessante. Aiuta a mettere meglio a fuoco il presente, e non solo quello fantascientifico. Esperimento da ripetere.

29 giugno 2012

Fantascienza in arrivo: William Gibson

Gioite, fantascientifici nostrani, arriva oggi in libreria un nuovo romanzo di William Gibson!

Nonostante Guerreros (Spook Country in originale) non mi abbia convinto, William Gibson* rimane una delle pietre angolari su cui ho costruito il mio gusto.
Leggere che Zero History,  uscito in origine nel 2010, ha trovato finalmente un editore italiano è dunque notizia degna di attenzione.

L'editore in questione è Fanucci, e come mi è già capitato di sottolineare di recente (vedi post dedicato a China Miéville), l'editore romano sta continuando ad applicare, anche su romanzi nuovi e attesi come questo, una politica dei prezzi che mi pare molto favorevole (12,90 euro per 560 pagine è un prezzo ottimo per i tempi che corrono).

Il traduttore di Zero History è Daniele Brolli, un nome che dovrebbe offrire qualche garanzia di qualità (tutti i romanzi di Gibson editi in Italia sono passati tra le sue mani),  ma che dopo le cantonate prese in Guerreros, ci si augura sia stato un po' più attento.

Ah… pare che  Zero History non sia fantascienza. Io qualche dubbio ce l'ho. Non resta che leggerselo e verificare di persona.

* William Gibson è un nome citato più di una volta in questo blog. Per ogni riferimento seguite l'apposito tag.




28 giugno 2012

I ragazzi giocano a rugby

© giorgio raffaelli
Negli ultimi anni ho trascorso parecchi dei miei fine settimana a bordo campo accompagnando i figli a giocare a rugby. Già che c'ero ne approfittavo per scattare qualche foto, un po' per l'album di famiglia, un po' perché fotografare lo sport, il rugby in particolare, è una bella sfida, almeno per un fotografo dilettante come il sottoscritto.
Ho iniziato a scattare quando mio figlio maggiore giocava in quella che allora era l'Under 11, e ho continuato a seguirlo fino a vederlo in campo con l'Under 14. Nel frattempo anche il più piccolo ha iniziato a giocare e accompagnandolo al campo fotografavo e fotografavo e fotografavo.
Visto che di genitori muniti di macchina fotografica non se ne trovano poi molti, ma a tutti fa piacere vedere il proprio figliolo in azione, ho iniziato a caricare le mie foto sul sito del Modena Rugby, cercando di riprendere la maggior parte delle squadre e dei giovani rugbisti impegnati sul terreno di gioco.

Se fotografare l'Under 14 è relativamente semplice - ti metti a bordo campo e segui l'azione - fotografare le partite del minirugby è un po' più complicato: le varie categorie - si va dall'Under 6 all'Under 12 - giocano contemporaneamente, spesso su campi distribuiti in impianti parecchio estesi, in partite che durano pochi minuti ognuna. Ciò significa spostarsi continuamente da un campo all'altro, cercare di esserci quando la squadra gioca e sperare che lo faccia in favore di luce. D'altra parte riuscire a immortalare l'entusiasmo, la concentrazione e la gioia dei bimbi in campo è sempre una bella soddisfazione, tanto che mostrare le foto solo per via telematica, in piccole dimensioni, scegliendole di volta in volta dopo ogni incontro, mi sembrava sempre più riduttivo. Oltretutto quest'anno è stato l'ultimo in cui i miei figli hanno giocato nelle rispettive categorie. Dal prossimo anno il figlio minore passerà nell'Under 14, il maggiore nell'Under 16.

Per concludere nel migliore dei modi il mio impegno con il minirugby del Modena Junior Rugby Club, m'è parsa quindi una buona idea raccogliere le foto migliori scattate durante tutta la stagione in un paio di volumi, che raccontano per immagini la stagione appena conclusa delle squadre modenesi del minirugby (Under 6, Under, 8, Under 10 e Under 12) e dell'Under 14.
Con l'aiuto di Annalisa, che ha curato il progetto grafico, ho scelto e impaginato qualche centinaio di immagini che spero costituiscano un buon ricordo per i ragazzi e le famiglie che hanno calcato i campi di rugby da settembre a giugno.
I volumi sono stati stampati e distribuiti, ma mi dispiaceva lasciare i file a prender polvere nel mio hard disk (si fa per dire) e ho pensato bene di mettere on-line una versione digitale dei due libri.

 

Ecco dunque i due volumi in tutto lo splendore del pdf. Cliccando sulle copertine potrete sfogliare le pagine e farvi un'idea di cosa significhi il rugby per i ragazzi in campo e per i genitori che li seguono. Non tutte le foto sono perfette, ma spero che nel complesso si riesca a cogliere almeno un pochino della passione che questo sport è riuscito a trasmettermi.

Per finire un doveroso ringraziamento va al Modena Junior Rugby Club per il supporto nella realizzazione di questo progetto, a tutti gli allenatori delle varie categorie per il magnifico lavoro svolto insieme ai ragazzi e per aver arricchito con i loro contributi i due volumi, ai Modena Rugby Veterans con cui ho capito cos’è davvero il rugby.


25 giugno 2012

Letture: Anathem, di Neal Stephenson


© giorgio raffaelli
Se il compito dello scienziato è creare una narrazione del reale coerente con i dati e le informazioni disponibili per poi portarla alle estreme conseguenze; se il compito del filosofo è invece il racconto del come e dei perché queste narrazioni possano aver luogo, allora Neal Stephenson è la voce ideale per illustrare al lettore come scienza e filosofia si possano incrociare, e per di più con ottimi esiti narrativi se non letterari.
Con Anathem (pubblicato in Italia da Rizzoli in due volumi, intitolati rispettivamente Il pellegrino e Il nuovo cielo) la carriera letteraria di Stephenson riparte da zero. O meglio, con Anathem, Neal Stephenson fonde (finalmente?) la sua passione per la conoscenza enciclopedica e multidisciplinare del passato (vedi il Cryptonomicon prima e il Ciclo Barocco poi) con l'invenzione e la speculazione della miglior fantascienza. Quella fantascienza che Stephenson ha contribuito a plasmare negli anni '90 dello scorso secolo (Snow Crash, L'era del diamante), finendo per  diventare uno degli autori fondamentali per comprendere le caratteristiche che il genere ha assunto negli ultimi decenni. Che scriva fantascienza o meno, c'è però un tratto comune a tutta l'opera dell'autore americano. I romanzi di Stephenson sono forse il miglior esempio contemporaneo di quella letteratura definita d'idee. Letteratura che privilegia cioé la discussione di uno o più elementi scientifici/storici/filosofici,  affrontati all'interno di un nucleo romanzesco dai punti di vista più disparati, con il supporto di una storia, di personaggi, e di ambienti che pur fondamentali non costituiscono il centro della narrazione.

Anathem richiede un grosso impegno al lettore, che deve affrontare dalle prime pagine un'immersione totale e spiazzante nella realtà complessa del romanzo.
La storia di Anathem è la storia di fraa Erasmas, giovane studente del concento di Saunt Edhar - sorta di convento laico in cui  da secoli scienziati e filosofi vivono isolati dal resto del mondo per dedicarsi alle rispettive ricerche -  che a causa di una situazione eccezionale nella storia di Arbre - il pianeta su cui si svolge l'azione - si ritroverà protagonista di un'epopea di esplorazione, scoperta e cambiamento.
La sovrabbondanza di neologismi e invenzioni, insieme all'approccio diretto della prosa di Stephenson, rischiano di stordire il lettore. D'altra parte le soddisfazioni non mancano, che la cura con cui l'autore assembla ogni singolo dettaglio è fonte continua di stupore e meraviglia, soprattutto in quei momenti in cui si realizza il parallelo tra il medesimo concetto particolare espresso nei temini arbreiani e la sua successiva identificazione nella nostra realtà, nella nostra lingua.

La vicenda narrata dal romanzo è piuttosto semplice nel suo sviluppo. Ciò che rende Anathem speciale nel panorama letterario attuale è la profondità e il dettaglio della costruzione narrativa di Neal Stephenson. Sviluppare una cronologia della storia socio/politica di Arbre e svilupparla in modo coerente con quella parallela e particolare dell'evoluzione - non priva di vicoli ciechi, improvvisi freni e momenti di feconda esplosione - del pensiero scientifico/intellettuale del pianeta, narrando la vicenda da un singolo, limitato - nel tempo e nello spazio - punto di vista è impresa che  da sola rende la lettura del romanzo un'esperienza a tratti entusiasmante. Collocare il tutto all'interno di una vicenda romanzesca altrettanto coerente e brillante per accadimenti e prospettiva, fa ben capire come mai il nome di Stephenson sia tra quelli più osannati dentro e fuori i confini del genere.

Se le avventure di Erasmas, nel concento prima e a spasso per il pianeta poi, seguono uno schema classico di indagine ed esplorazione, il progressivo allargarsi della visione del protagonista dalle mura della sua cella e dalle riflessioni sulla sua carriera scolastica, fino ad abbracciare gli estremi limiti della conoscenza scientifica, arrivando nel frattempo a tastare con mano pregi e difetti della millenaria società umana di Arbre, permette all'autore le più varie speculazioni: da quelle più prosaiche (si fa per dire) sul calcolo matematico e la coltivazione della terra, dalla geometria fino alla fisica quantistica, dalla politica alla religione, dal concetto di multiverso alla filosofia alla cosmologia, rendendo di fatto Anathem un concentrato di idee e meraviglie come di rado capita incontrare. E di fronte a un libro con una tale densità di stimoli intellettuali diventa quasi irrilevante che Stephenson tratti i propri personaggi più come vettori di informazione che come persone. Certo, i momenti di introspezione e relazione tra Erasmas e le persone che lo circondano sono presenti e servono a rendere la storia più partecipata e avvincente, ma lasciano comunque l'impressione di essere accessori al vero fulcro del romanzo.
Se vi aspettate quindi una storia appassionante di eroici scontri ed esplosioni cataclismatiche, se volete leggere di buoni e cattivi che si confrontano per un premio finale, se apprezzate l'introspezione dei personaggi o cercate storie d'amore o sentimenti, beh… forse Anathem non è il libro giusto (tutti quegli elementi ci sono, ma sono fuori fuoco, laterali, sfumati). Se invece la complessità del reale vi appassiona e  le innumerevoli relazioni tra idee, storia e persone non mancano di affascinarvi, se la meraviglia del cosmo è un aspetto fondamentale che cercate nella narrazione in cui siete immersi, beh… allora Anathem diventa probabilmente una lettura fondamentale.

Per concludere queste note mi pare doveroso citare Valentina Ricci, che ha tradotto Anathem in italiano. Affrontare un romanzo che sulle invenzioni linguistiche fonda moltissimo della complessità della narrazione non dev'essere stato un lavoro facile. Non so se la sua traduzione è perfetta (per quel che significa…), di certo io l'ho apprezzata molto, che leggere il romanzo di Stephenson in lingua originale credo sarebbe stato piuttosto difficoltoso.

18 giugno 2012

Bestini 2012

© giorgio raffaelli

La gatta che vedete ritratta qui sopra è Bestia
Bestia vive con noi da un paio d'anni, e lo scorso 25 aprile ha sfornato la sua seconda cucciolata. Com'era già successo l'anno scorso i mici neonati erano tre, ma stavolta uno di loro non è sopravvissuto alla prima settimana di vita.


I due che sono rimasti sono cresciuti in fretta e sono ormai pronti ad affrontare nuove avventure.
Potete ammirarli qui sotto: quello tigrato arancio è un maschietto pacifico e sereno (almeno quanto può esserlo un gatto con neanche due mesi di vita sulle spalle). Quella grigio-bianca è invece una gatta piuttosto vivace e brillante, ma nonostante il caratterino che si ritrova - devono essere i geni materni - non è ancora riuscita a distruggerci casa.
Sono entrambi ben educati (non la fanno in giro) e ben disposti nei confronti degli umani.  
Se là fuori ci fosse qualcuno disposto a ospitarli è il benvenuto.

© giorgio raffaelli

© giorgio raffaelli

Per ogni ulteriore informazione potete contattarmi via mail, oppure qui sotto, nello spazio commenti.

… 

Aggiornamento 25.06.2012

Pare proprio che i due mici abbiano trovato una nuova sistemazione. Andranno a vivere insieme a casa di una mia collega. Yuppie!

11 giugno 2012

Glory Days

Questo post è per Bruce Springsteen.
Lo scrivo dopo aver assistito al suo concerto di Firenze.
Lo scrivo perché sono in debito con lui.
© Marco Borrelli


Bruce Springsteen non è mai stato in cima alle mie preferenze musicali. Massimo rispetto, certo, ma ho sempre fatto molta fatica ad ascoltare un suo disco dall'inizio alla fine. Poi sì, ci sono canzoni che ti entrano dentro e rimangono, (la Thunder Road all'inizio del triplo live 1975-'85, giusto per fare un esempio), ma nel complesso ho sempre giudicato la musica del Boss troppo popolare e troppo americana per andarci del tutto d'accordo.
Ma il rispetto per l'uomo, per l'artista, beh… quello c'è sempre stato, perché se quell'americano e quel popolare sono i limiti nel mio rapporto con la sua musica, rappresentano anche gli aspetti migliori della sua personalità pubblica: Bruce Springsteen m'è sempre parso il miglior esempio di artista che riesce a essere genuinamente popolare senza la necessità di svendersi, oltre a incarnare al meglio tutti gli aspetti per cui gli Stati Uniti d'America calamitano da sempre la mia attenzione, influenzando i mie gusti, i miei ascolti, le  mie letture.

Quando Annalisa mi ha regalato i biglietti per il concerto di Springsteen a Firenze, mi son detto ok, fantastico, andiamo a vedere il Boss prima che sia troppo vecchio per suonare ancora in giro. Sarà anche un concerto da anziani, ma la fama di Springsteen dal vivo è tale che non sarà certo una delusione.
Per prepararci al meglio abbiamo provato ad ascoltare Wrecking Ball, e beh… c'è salita un po' la preoccupazione, che, dite quel che volete, ma quel disco suona davvero troppo old-style e nostalgico per i nostri palati. Ma ok, siamo in ballo, balliamo.

Domenica pomeriggio partenza dopo pranzo. Un paio d'ore di viaggio, auto parcheggiata in zona tattica a due passi dallo stadio, ci rimane da trascorrere il pomeriggio. Proprio di fianco al Franchi c'è il campo del Firenze Rugby che, neanche a farlo apposta, ospita la finale del campionato under 16 nazionale tra Benetton Treviso e Unione Rugby Capitolina Roma. Potevamo rinunciare a una partita di rugby, soprattutto pensando che il figlio maggiore il prossimo anno giocherà in quella categoria?
Per la cronaca vince il Treviso, ma a noi è piaciuta di più la Roma, più brillante e intraprendente dei pari età veneti. Finita la partita c'è giusto il tempo per una birra e un panino e via, Springsteen ci aspetta.

Se siete mai stati a un concerto sapete bene come il tempo nell'attesa dell'inizio passi molto lentamente. Ci si guarda intorno, si chiacchiera, si osserva il pubblico con quel misto di noia e aspettative che crescono di ora in ora fino a non poterne più. Almeno fino a che non risuonano le note di C'era una volta il West a introdurre l'ingresso della E Street Band sul palco. Nel frattempo il clima che sembrava l'ideale per una serata di inizio giugno, temperatura perfetta, leggermente ventilato, sole che va e viene tra le nuvole, vira decisamente al grigio piombo con minaccia di pioggia. Springsteen non fa in tempo a finire Badlands che inizia a piovere. "Saran due gocce, vedrai che smette" saranno le più classiche delle ultime parole famose. La pioggia non smetterà più per tutte le tre ore e mezza di concerto, aumentando anzi d'intensità man mano che la serata procede.

Il concerto conferma tutto ciò che di buono avevamo sentito in precedenza sulle prestazioni live di Springsteen. Il Boss è una macchina da guerra, macina canzoni e chilometri su e giù per il palco, scendendo tra il pubblico in mezzo all'acqua, dirigendo la E Street Band, alternando momenti intensi ed emozionanti ad altri in cui il rock'n'roll più sfrenato la fa da padrone.
Bruce Springsteen non molla mai, nemmeno per un secondo, la presa sul pubblico. Si concede senza riserve, dando tutto e ancora di più, sia che scherzi o che provi qualche frase in un italiano stentato,  quando gigionegga o nei momenti più seri, con una voce che nonostante i suoi sessantadue anni è capace di toccare tutte le corde dello spettro sonoro: dall'urlo al sussurro, dal lamento in coda a The River, alla pura gioia di Twist and Shout, dall'intensità soul di My City of Ruins (per me il momento più alto della serata) al più classico dei rock'n'roll.

Anche senza conoscere più d'una delle canzoni (l'ho detto che non sono un fan, no?) l'esperienza del live di Springsteen è qualcosa che supera abbondantemente qualsiasi aspettativa potessi avere prima del concerto. E capisci perché c'è gente che lo segue da anni con decine di concerti alle spalle. Per un attimo credi di nuovo al sogno del rock'n'roll e comprendi come si possa arrivare ad adorare un tizio del genere. E a fine concerto, stremato, bagnato fradicio, con lui che proprio non ne vuol sapere di mollare lì e andarsi a riposare, ti rendo conto che è impossibile non volergli bene.
Continuerò a non riuscire a finire di ascoltare i suoi dischi, ma dopo le tre e mezzo di Firenze mi porterò per sempre un pezzo di Springsteen nel cuore.

© Paolo Arnetoli



Aggiornamento:
Ho appena scoperto queste foto. Che siate stati al concerto o meno, dategli un'occhiata, vi assicuro che ne vale la pena…



07 giugno 2012

I piedi per terra

© Aelle
La nostra casa è ancora in piedi. Noi siamo ancora vivi. Ma non avrei mai immaginato che convivere col terremoto portasse via tante energie. Saranno l'insicurezza e i nervi tesi, in attesa della prossima botta; la notte, quando vai a dormire con un occhio aperto, lo zaino per l'emergenza vicino all'uscio, e speri non ci siano sorprese dietro l'angolo; la sensazione costante di instabilità, che ormai non distingui più le scosse vere da quelle che ti immagini soltanto.

Modena sta tornando lentamente alla normalità (lo dico sottovoce, sperando che nel frattempo non ci siano ulteriori sussulti, vedi domenica sera), ma in questi giorni ha vissuto una sospensione dalla realtà quotidiana che ha mescolato visioni surreali (decine di tende nei giardini, il centro deserto, la fuga dalla città) con un ritorno alla terra, a uno spirito d'accampamento, con gente sconosciuta a condividere la cena all'aperto, bimbi a giocare nei parchi fino a tardi, chiacchiere e consolazione. Sarà che qua non siamo troppo abituati a piangerci addosso, e anche nelle situazioni più serie cerchiamo un buon motivo per trasformare in positivo anche il momento più drammatico, ma queste serate passate in compagnia rimarranno un buon ricordo in mezzo a giornate dominate dall'ansia.

Per sconfiggere la tensione la terapia migliore è tenersi occupati, tentare la via della normalità, mantenere gli impegni e lavorare.
Forse è per questo che nonostante il momento sono in pochi tra i Veterans del Modena Rugby ad aver rinunciato alla trasferta di Arezzo per il Torneo del Rinascimento. Certo, il programma originale prevedeva la partenza al venerdì e il ritorno di domenica, con in mezzo un sacco di rugby e gozzoviglia. Alla fine son partito e tornato in giornata, ma staccare un po' e trovarsi su un terreno solido in buona compagnia è servito a tutti per rilassarci e recuperare un po' di energie.
Così come portare i ragazzi a giocare a rugby domenica a Colorno e rimanere colpiti dalle magliette che una squadra bresciana ha stampato per l'occasione. A volte basta anche solo un pensiero come quello per sentirsi meno soli. E a proposito di rugby, in questi giorni ho finalmente mandato in stampa i due volumi sulla stagione dei giovani rugbisti modenesi, e anche questa è stata una bella soddisfazione.


Se in queste settimane ho trascurato il blog e la rete in generale, sentire la vicinanza degli amici preoccupati per il sisma, e disponibili a darci una mano, è stata comunque una bella sensazione. E quindi, per finire, un bel grazie a tutti coloro che si son resi disponibili ad aiutarci nel caso ne avessimo avuto bisogno, a tutti quelli che han semplicemente chiesto come va, che un pensiero in questi casi è davvero apprezzato. Ma soprattutto un enorme grazie a chi da tutta Italia si sta sbattendo per dare una mano ai nostri vicini della bassa, che nonostante lo stress noi siamo quelli fortunati, che invece laggiù, a pochi chilometri da casa nostra, la situazione è davvero brutta. Voi non dimenticateli, vedrete che loro si ricorderanno di voi.

21 maggio 2012

Terremoto

Foto di Giorgio Raffaelli
Alle 21.00 del 6 maggio 1976 ero già a nanna, nel letto a castello che condividevo con i miei fratelli più piccoli. Non avevo ancora 10 anni, ma quella sera me la ricordo bene. A Bolzano il terremoto era un evento sconosciuto, di cui né io né i miei genitori avevamo alcuna memoria.
Ricordo di essermi alzato, preoccupato, e i miei fratelli che continuavano a dormire. Ricordo di essere stato raggiunto da mia madre (mio padre quella sera era fuori), ricordo la gente per strada, sorpresa, spaventata, vista dalla finestra. Il resto della serata passato davanti alla Tv, con le informazioni  che arrivavano a spizzichi e bocconi, e un film, Il mistero delle dodici sedie, di cui non ho praticamente alcun ricordo, salvo una sensazione strana d'angoscia e il suo essere legato indissolubilmente a quella data.

Quando domenica alle 4 di mattina il letto ha iniziato a ballare svegliandomi, ero di nuovo a Bolzano, da solo con mia madre. "Se qui è arrivato così forte, che disastro sarà sucesso?" è stato il primo pensiero. E poi accendere il computer, e aggiornare twitter attimo dopo attimo, e capire dove aveva colpito, cosa era successo. Ho mandato un sms a casa, non telefoni a qualcuno, chiunque sia alle 4 di mattina, per verificare che stessero tutti bene. Annalisa mi ha richiamato, erano usciti in strada, un po' impanicati (tranne J, che avrebbe continuato a dormire), la casa sembra aver retto l'urto. Ci siamo salutati, sono tornato a letto (ormai erano le 5) e una nuova scossa ha reso tutto più difficile. Però ce la siamo cavata, ci siamo andati vicini, ma a noi non è successo nulla.

Il giorno dopo sono iniziate ad arrivare le notizie dei danni. È la prima volta che ci capita un terremoto dietro casa, fino a ieri  tutta questa distruzione sembrava inconcepibile nel bel mezzo della pianura Padana. Eppure è successo qui, e quei paesi che chiunque abiti a Modena ha visitato o frequentato, dove tutti conoscono qualcuno, dove abbiamo sposato - fotograficamente - la nostra penultima coppia, dove siamo andati a sentire concerti, o a qualche festa estiva, dove lavorano clienti delle aziende che ci pagano lo stipendio, ora sono tutti fermi, in bilico, in attesa, sull'orlo sottile che divide un giorno come gli altri da una vita completamente nuova e sconosciuta. Quei paesi, quelle persone, sono diventati casa mia, casa nostra. Lo shock passerà, e si ricostruirà. Se ho imparato a conoscere un po' la terra che mi ospita quei paesi torneranno meglio di prima.
Ma per ora rimaniamo fermi, in attesa, ad ascoltare la terra, a sperare che si metta tranquilla.

17 maggio 2012

Letture: La città e la città, di China Miéville

Foto di Giorgio Raffaelli
Cosa vediamo del mondo che ci circonda? Quanti segnali ignoriamo muovendoci per le strade delle nostre città? Quand'è successo che abbiamo smesso di guardare il panorama urbano che racchiude l'esistenza della maggior parte di noi? Perché certi dettagli non escono mai dalla periferia della nostra visione per assumere coerenza e sostanza?

China Miéville da corpo narrativo a queste domande e con La città e la città tenta una difficile indagine speculativa sulla complessità della vita urbana: grazie agli strumenti della narrativa di genere porta all'eccesso le particolarità ambientali in cui colloca la sua storia per evidenziare come i comportamenti individuali siano vincolati alle convenzioni sociali e alla deriva storica che le sottende, riflettendo al contempo su controllo, sorveglianza e punizione, sulla gestione del potere, su rivoluzione ed educazione.

La città e la città ha tutte le apparenze del romanzo giallo più tradizionale: una fanciulla sconosciuta viene trovata morta in un quartiere periferico della città di Besźel e Tadyur Borlù, poliziotto chiamato a indagare, si trova presto incastrato in una trama più grande di lui. Il protagonista del romanzo non si perde d'animo e grazie a sagacia, fortuna e buone conoscenze riesce a dipanare la complicata matassa, lasciando per strada più di una convinzione e ritrovandosi all'ultima pagina più solo che mai, ma con qualche certezza in più.

Ma se la scatola letteraria è un cliché, ben più originale e affascinante è il cuore del romanzo, che batte il ritmo asincrono delle due città in cui si svolge l'azione: Besźel e Ul Qoma.
Situate in una non meglio precisata regione del sud-est europeo, Besźel e Ul Qoma sono divise in tutto (dalla gastronomia alla forma di governo, dalla lingua all'architettura), ma condividono lo stesso territorio, sovrapponendosi e condividendo la morfologia urbana in cui si sono evolute. I cittadini delle due città vivono fianco a fianco, ma secoli di storia separata li hanno portati a diventare maestri dell'arte di disvedere, rendendo di fatto l'altra città, i suoi abitanti, la sua cultura e le sue costruzioni, invisibili a chi dovesse per caso posare lo sguardo sul suolo straniero. A dare coerenza all'invenzione e rendere di fatto tassativo l'obbligo a disvedere c'è una terza entità a sorvegliare il comportamento di tutti i residenti: la Violazione, un ente apparentemente inconoscibile, dotato di misteriosi poteri di intervento e punizione.

China Miéville gioca con l'incongruenza topologica di questa doppia città affrontandone i vari aspetti, dai più quotidiani (come sopravvivere al traffico urbano), ai più esoterici (i bambini considerati come veicoli d'infezione culturale), riuscendo nell'arduo compito di rendere credibile agli occhi del lettore la realtà impossibile del romanzo. Ma Mieville non si ferma alla descrizione degli aspetti pratici della vita in città e riflette sulle implicazioni politiche e sociali di una (anzi, due) comunità che si trovano a dover convivere con le solite divisioni (di ceto, di religione, di etnia) all'interno di una frattura che riflette, amplificando, tutte le tensioni che una situazione di convivenza coatta porta con sé. Esemplari in questo senso sono le pagine che l'autore dedica alle organizzazioni rivoluzionarie di vario colore e ai loro tentativi di unificazione egualitaria o di dominio politico dell'entità Besźel-Ul Qoma. In effetti i personaggi che bazzicano questi ambienti oscuri e settari, dominati dalla paranoia eppur vivi e vitali nel perseguire un loro scopo, sono forse quelli meglio tratteggiati dall'autore, che con quel misto di indulgenza e pessimismo, affetto e rassegnazione, riesce a rendere  bene l'idea di una vita ai margini di un regime allergico al cambiamento.

Se arrivati a fine lettura questi personaggi secondari rimangono più impressi nella memoria del lettore degli stessi protagonisti del romanzo, è però evidente che qualcosa ne La città e la città non funziona del tutto.

A mio avviso il difetto principale del testo di China Miéville è lo stesso riscontrato nel mio precedente incontro con l'autore inglese: la mancanza di personalità dei suoi protagonisti.
Tadyur Borlù non ha nulla che lo faccia risaltare, che permetta di metterne a fuoco una qualche caratteristica peculiare, o che almeno lo distingua quanto Besźel-Ul Qoma è distinguibile dalle centinaia di panorami urbani già incrociati in precedenza. A volte si fa fin fatica a riconoscere nelle movenze e nei gusti di Borlù qualcosa che ne identifichi nazionalità e cultura, tanto i suoi tratti  paiono sovrapponibili a quelli di un qualsiasi trentenne occidentale. Ed è con rammarico che tocca osservare quanto poco l'ispettore Borlù assomigli alle città che tanto si impegna a capire/conoscere/salvare.
D'altra parte, volendo parlare delle caratteristiche salienti un testo come La città e la città, è lecito chiedersi quanto peso si debba dare a personaggi e caratterizzazioni, quando è evidente che il nucleo forte del romanzo non è singolare ma collettivo; che l'interesse del lettore (di questo lettore perlomeno) è attirato più dal racconto degli spazi comuni, con le loro intersezioni, divisioni e sovrapposizioni, che dall'esplorazione dello spazio individuale del protagonista; che il mistero e la meraviglia del vivere in Beszel - Ul Qoma è certo più intrigante di qualunque combinazione affettiva possa legare i personaggi che si incontrano nel corso della lettura.

Dopotutto è facile capire come La città e la città avesse tutte le caratteristiche per catturare il mio interesse. Essendo cresciuto in una città doppia (per quanto lo sdoppiamento non sia esasperato e così ovviamente romanzesco come in Beszel - Ul Qoma) rivedere narrati, e quindi riscoprire, molti dei meccanismi di riconoscimento/negazione mostrati da Miéville è stata un'esperienza molto interessante.
L'arte di vedere e disvedere non è un'invenzione narrativa di China Miéville. È una cosa che impariamo a fare tutti. Crescendo in un ambiente complesso privilegiamo i segnali utili, ignoriamo ciò che ci può potenzialmente disturbare, scegliamo cosa vedere. E quando tutti i segnali sono doppi, come nella mia esperienza bolzanina, è facile arrivare a ignorare molto del panorama urbano che ci circonda. E di solito è una cosa che notiamo solo quando ce ne andiamo.

Ultima nota sull'edizione italiana del volume. La scelta di Fanucci di mettere in vendita il volume a un prezzo popolare è degna di merito e va doverosamente segnalata. Anche la copertina scelta è degna di menzione. Sul fronte traduzione, che è un caratteristico punto debole nella mia esperienza con l'editore romano, le cose non vanno troppo male. Sono i dialoghi a risentire soprattutto della trasposizione in un'altra lingua, che se nell'originale inglese la resa spezzata e sincopata del testo si può dire funzionale alla narrazione, la versione italiana risulta spesso legnosa e artificiale.
Detto questo va comunque precisato che dopo aver iniziato il volume in lingua originale (grazie a Paolo per il prestito) ho preferito proseguire la lettura in italiano. L'inglese di Miéville non m'è parso particolarmente complesso, ma la lettura non mi risultava piacevole come affrontando Charlie Stross (per quello che scrive) o Ian McDonald (per come lo scrive), mentre la traduzione di Maurizio Nati fa il suo sporco mestiere senza che il lettore abbia troppo a risentirne.

08 maggio 2012

Intervallo, con rugby

Il post su La città e la città sta per arrivare, portate pazienza. Nel frattempo vi mostro come sto passando parecchio del mio tempo libero ultimamente.

Foto di Giorgio Raffaelli

Sabato i Modena Rugby Veterans hanno giocato un triangolare con i Passatelli di Ravenna e il CUS Milano.
Io non ho giocato, che in questo periodo gli impegni si accavallano e non posso rischiare di rompermi, però ho fatto qualche foto.

Oltre a scattare come un forsennato, sto preparando un paio di volumi fotografici che raccoglieranno le foto migliori scattate durante tutta la stagione del minirugby e degli under 14 del Modena Junior Rugby.
Come se non bastasse ho un paio di servizi fotografici in corso di realizzazione e un altro paio di lavoretti di impaginazione da consegnare nei prossimi giorni.

Capite bene che da qualche parte il tempo lo devo riuscire a far saltar fuori e quindi, ahimé, gli aggiornamenti del blog sono rimandati. Se tutto va come deve andare per la fine della settimana dovrei essere un filo più libero, e magari riusciamo finalmente a parlare di Mieville. Ma non voglio fare promesse che non sono sicuro di riuscire a mantenere.
Per ora godetevi le foto. Ci si risente presto!



23 aprile 2012

Lettura analogica / Lettura digitale

Foto di Giorgio Raffaelli

Negli ultimi anni, in parallelo al diffondersi dei libri elettronici, c'è stato nei blog vicini un fiorire di post che hanno sviscerato il fenomeno dai punti di vista più disparati. La quantità di informazioni, giudizi, polemiche, opinioni, chiacchiere e discussioni è straripante, ed è difficile farsi un'idea obiettiva sullo stato dell'arte dell'editoria elettronica, che è oltretutto molto diverso a seconda del particolare quadrante geografico si voglia prendere in considerazione.
Qualche esempio? Nelle ultime settimane c'è stato l'intervento di Charlie Stross sulle caratteristiche e le conseguenze del dominio di Amazon sul settore, quello di Davide Mana sulle potenzialità inespresse del mezzo digitale o (con qualche mese in più sul groppone) quello più tecnico di Matteo Poropat sulle problematiche relative alla realizzazione editoriale degli ebook. Di carne al fuoco ce n'è in abbondanza e se finora mi sono astenuto dal trattare questo argomento non è per mancanza d'interesse, quanto piuttosto per chiarirmi le idee e non sbrodolare quattro cazzate tanto per.

Sebbene abbia avuto occasione di maneggiarli, non posseggo né un dispositivo e-ink nè un tablet, ma - lo dico subito a scanso di equivoci - non vedo l'ora di potermi permettere un ipad. Sono convinto che per fruire al meglio di un testo tecnico, un saggio, un manuale o una rivista la lettura su mezzo elettronica offra - e offrirà sempre più - una quantità di vantaggi rispetto a quella tradizionale.
Detto questo, non sono altrettanto convinto che per la lettura da diporto (per quanto mi riguarda mi riferisco soprattutto alla narrativa) l'utilizzo di un supporto tradizionale (leggasi libro) abbia poi tanto da perdere dall'avvento degli ebook.
Le mie considerazioni nascono dal confronto delle due esperienze di lettura. Sono del tutto soggettive, certo, ma credo che definire la lettura di un libro come esperienza più ricca di quella di un testo elettronico non sia solo frutto di fisime luddiste o di una mal riposta nostalgia per i bei tempi andati.

Il testo di un ebook sarà anche interattivo, ma quanto interattivo è il supporto che lo ospita? Un reader, a prescindere dalle sue specifiche tecniche, è un oggetto pressoché bidimensionale, almeno per quanto riguarda la sua interfaccia. Per quel che interessa il lettore si può benissimo considerare come uno schermo su cui si possono visualizzare parole e immagini, e una scelta di accessori più o meno utili per scegliere/scorrere/annotare il determinato testo.
La lettura di un libro è un'esperienza sensoriale parecchio diversa. Nel libro ci puoi infilare le dita dentro, puoi valutarne lo spessore, il peso, le dimensioni, te lo puoi rigirare tra le mani senza tema di grossi danni da caduta o urti. Un libro lo puoi scagliare contro un muro, lo puoi macchiare di caffè o riempire di briciole, lo puoi lasciare aperto o valutarne la progressione. Soprattutto le pagine di un libro le puoi toccare, e scoprire come la carta sia diversa da edizione a edizione, e offra al tatto sensazioni parecchio più amichevoli (materia organica vs plastica e vetro, c'è competizione? sì, c'è: ho toccato polimeri che voi umani… ma non in un ereader, non ancora, per lo meno).

C'è poi un ulteriore considerazione da fare. Quanti filtri intervengono nel percorso del testo fino all'occhio del lettore? Me lo chiedo perché ho l'impressione - e chi ha maggior pratica di e-lettura potrà confermare o meno, grazie! - che durante la lettura da un supporto elettronico la comprensione del testo attraversi un numero di filtri, che riguardano sensazione, percezione e predisposizione, decisamente maggiore che non dalla lettura della pagina stampata. Quest'impressione nasce dalla semplice constatazione che il rapporto tra lettore e testo tradizionalmente stampato è diretto, occhio-carta, mediato solo dall'inchiostro, quindi un supporto fisico, materico, utilizzato per sporcarla. Credo invece che accostandosi a un testo visualizzato su schermo intervengano molti più fattori in grado di influire sulla relazione testo/lettore. C'è la consapevolezza del supporto elettronico, oggetto infinitamente più complesso del volume cartaceo tradizionale; c'è la possibilità di variare carattere, dimensione, aspetto del testo che stiamo leggendo; c'è lo schermo a separare fisicamente il lavoro dell'autore dall'occhio del lettore. Dopotutto il mezzo è (anche) il messaggio, e un supporto più complesso influenza (magari poco, magari molto, credo sia questione molto soggettiva) la percezione del testo che veicola.

Ma allora? Dobbiamo rinunciare agli ebook, mandarli al macero (ops!) senza nemmeno dargli una possibilità?
Nemmeno per sogno.
I libri elettronici sono il futuro. Sono più economici, più convenienti, permettono una gestione delle risorse, a monte, e dei testi, a valle, più efficiente, meno dispendiosa, ottimizzata; oltre a consentire un interazione tra opere e lettore più libera e profonda.
Ma qui si parlava di lettura, non di editoria. Di lettura, non di studio. Di quel tipo di lettura fatta senza altro scopo se non quello della libera espressione di sè, di quell'esperienza individuale che porta a livello zero le complicazioni esterne, per aumentare esponenzialmente la possibilità di un incontro fortuito, di una rivelazione, di una gioia o un dolore del tutto personali. La lettura intesa come piacere singolo e individuale. Un piacere che ha ben poco a che fare con concetti come efficenza, economia o allocazione di risorse.
Prima o poi un ipad spero davvero di riuscire a prenderlo. Ma non so se lo userò per leggere il prossimo McDonald piuttosto che un Banks o un Murakami. Almeno non se avrò la possibilità di permettermi un libro fatto di carta e inchiostro.






21 aprile 2012

The Kids Are Alright

Per una volta si parla di musica. Di roba nuova. almeno per me. Roba che mi ha sorpreso e che mi pare giusto condividere con voi, a costo di fare la figura dell'anziano che arriva dopo che tutti se ne sono già andati.
Prima di arrivare al punto devo confessare la mia ignoranza. Ho pochissima esperienza con l'hip-hop. Nei remoti anni '80 mi ero fatto registrare una cassetta con Licensed to Ill, e ho ascoltato qualcosina dei Public Enemy. Poi c'è stato qualche anno di vuoto, per arrivare a Stop al panico e a un fugace innamoramento per gli Assalti frontali. In quegli anni ricordo un grande concerto a Correggio dei Disposable Heroes of Hiphoprisy e uno dimenticabile di un'altro gruppazzo rap rurale (che in effetti manco mi ricordo come si chiamavano, forse De La Soul?).
Cos'altro? Vediamo, mi piacque un sacco il primo Jazzmatazz, la colonna sonora di Ghost Dog, ho un disco di Jovanotti e i primi di Eminem. Fine.

Ma avere un figlio di 14 anni aiuta a scoprire cose che beh… sospettavi esistesssero, ma non avevi mai toccato con mano.
E quindi beccatevi questo paio di video. Sono un pezzo di Rancore & DJ Mike e un altro di Salmo.
A quanto pare là fuori i ragazzi si danno da fare.







16 aprile 2012

Letture: Nove gradi di libertà, di David Mitchell

Foto di Giorgio Raffaelli
Dopo aver apprezzato Sogno Numero 9 m'era rimasta la voglia di leggere ancora David Mitchell. Quando mi sono imbattuto in Nove gradi di libertà, venduto a metà prezzo in un reminder, qualsiasi dubbio potessi avere su cosa leggere è stato superato dagli eventi.

Nove gradi di libertà non è propriamente un romanzo, o meglio, lo è quanto una staffetta assomiglia a una gara in linea. I nove capitoli che compongono il volume sono legati l'uno agli altri dalla presenza di un particolare (un personaggio citato en passant, un episodio narrato da un altro punto di vista, una vicinanza geografica o spirituale) che sembra invitare il lettore a dare forma unica alla storie multiple che sta leggendo. Come i racconti hanno tutti una distinta collocazione geografica (si parte dal Giappone, attraversando poi in varie tappe l'oriente fino in Russia, per giungere fino in Irlanda e quindi a New York per il cataclismatico finale), anche il registro che l'autore adotta per narrarli cambia di volta in volta, adattandosi al contesto, alla specificità della storia, alla personalità dei protagonisti.

La mancanza di una voce riconoscibile (se n’era già parlato a proposito di Sogno Numero 9, vedi lo spazio commenti del post collegato) è una delle caratteristiche che rendono unico, almeno per la mia esperienza, un autore come David Mitchell. Le capacità mimetiche dell'autore inglese, e la conseguente organizzazione parcellizzata del suo romanzo, sono però anche il più grosso limite di Nove gradi di libertà. Il costante cambiamento di registro e situazioni che costituisce il nucleo del volume rischia infatti di ridurre il testo, da intensa ed emozionante  riflessione sulla realtà complessa che ci circonda, in mero esercizio di stile, apprezzabile per la qualità della scrittura, ma un poco vacuo nella consistenza delle sue riflessioni.

Nove gradi di libertà scorre comunque che è un piacere. Tra le storie che mi son rimaste impresse voglio ricordare almeno Hong Kong”, “La montagna sacra”, “Clear Island”. In questi racconti si fondono perfettamente personaggi credibili, invenzione narrativa e un'attenzione ai dettagli ambientali che in molti degli altri racconti ho trovato invece carente, vuoi perché in alcuni non sentivo del tutto vera la voce dei protagonisti, vuoi perché altri avevano sviluppo ed esito piuttosto prevedibile, vuoi per una certa inconsistenza della trama. Ma nonostante i difetti evidenziati, la lettura di Nove gradi di libertà rimane un'esperienza piuttosto originale e consigliabile.
La molteplicità di voci e luoghi, la mescolanza di registri narrativi e generi letterari, la ricchezza di punti di vista e riflessioni non fanno rimpiangere il tempo speso tra le sue pagine.