29 giugno 2012

Fantascienza in arrivo: William Gibson

Gioite, fantascientifici nostrani, arriva oggi in libreria un nuovo romanzo di William Gibson!

Nonostante Guerreros (Spook Country in originale) non mi abbia convinto, William Gibson* rimane una delle pietre angolari su cui ho costruito il mio gusto.
Leggere che Zero History,  uscito in origine nel 2010, ha trovato finalmente un editore italiano è dunque notizia degna di attenzione.

L'editore in questione è Fanucci, e come mi è già capitato di sottolineare di recente (vedi post dedicato a China Miéville), l'editore romano sta continuando ad applicare, anche su romanzi nuovi e attesi come questo, una politica dei prezzi che mi pare molto favorevole (12,90 euro per 560 pagine è un prezzo ottimo per i tempi che corrono).

Il traduttore di Zero History è Daniele Brolli, un nome che dovrebbe offrire qualche garanzia di qualità (tutti i romanzi di Gibson editi in Italia sono passati tra le sue mani),  ma che dopo le cantonate prese in Guerreros, ci si augura sia stato un po' più attento.

Ah… pare che  Zero History non sia fantascienza. Io qualche dubbio ce l'ho. Non resta che leggerselo e verificare di persona.

* William Gibson è un nome citato più di una volta in questo blog. Per ogni riferimento seguite l'apposito tag.




28 giugno 2012

I ragazzi giocano a rugby

© giorgio raffaelli
Negli ultimi anni ho trascorso parecchi dei miei fine settimana a bordo campo accompagnando i figli a giocare a rugby. Già che c'ero ne approfittavo per scattare qualche foto, un po' per l'album di famiglia, un po' perché fotografare lo sport, il rugby in particolare, è una bella sfida, almeno per un fotografo dilettante come il sottoscritto.
Ho iniziato a scattare quando mio figlio maggiore giocava in quella che allora era l'Under 11, e ho continuato a seguirlo fino a vederlo in campo con l'Under 14. Nel frattempo anche il più piccolo ha iniziato a giocare e accompagnandolo al campo fotografavo e fotografavo e fotografavo.
Visto che di genitori muniti di macchina fotografica non se ne trovano poi molti, ma a tutti fa piacere vedere il proprio figliolo in azione, ho iniziato a caricare le mie foto sul sito del Modena Rugby, cercando di riprendere la maggior parte delle squadre e dei giovani rugbisti impegnati sul terreno di gioco.

Se fotografare l'Under 14 è relativamente semplice - ti metti a bordo campo e segui l'azione - fotografare le partite del minirugby è un po' più complicato: le varie categorie - si va dall'Under 6 all'Under 12 - giocano contemporaneamente, spesso su campi distribuiti in impianti parecchio estesi, in partite che durano pochi minuti ognuna. Ciò significa spostarsi continuamente da un campo all'altro, cercare di esserci quando la squadra gioca e sperare che lo faccia in favore di luce. D'altra parte riuscire a immortalare l'entusiasmo, la concentrazione e la gioia dei bimbi in campo è sempre una bella soddisfazione, tanto che mostrare le foto solo per via telematica, in piccole dimensioni, scegliendole di volta in volta dopo ogni incontro, mi sembrava sempre più riduttivo. Oltretutto quest'anno è stato l'ultimo in cui i miei figli hanno giocato nelle rispettive categorie. Dal prossimo anno il figlio minore passerà nell'Under 14, il maggiore nell'Under 16.

Per concludere nel migliore dei modi il mio impegno con il minirugby del Modena Junior Rugby Club, m'è parsa quindi una buona idea raccogliere le foto migliori scattate durante tutta la stagione in un paio di volumi, che raccontano per immagini la stagione appena conclusa delle squadre modenesi del minirugby (Under 6, Under, 8, Under 10 e Under 12) e dell'Under 14.
Con l'aiuto di Annalisa, che ha curato il progetto grafico, ho scelto e impaginato qualche centinaio di immagini che spero costituiscano un buon ricordo per i ragazzi e le famiglie che hanno calcato i campi di rugby da settembre a giugno.
I volumi sono stati stampati e distribuiti, ma mi dispiaceva lasciare i file a prender polvere nel mio hard disk (si fa per dire) e ho pensato bene di mettere on-line una versione digitale dei due libri.

 

Ecco dunque i due volumi in tutto lo splendore del pdf. Cliccando sulle copertine potrete sfogliare le pagine e farvi un'idea di cosa significhi il rugby per i ragazzi in campo e per i genitori che li seguono. Non tutte le foto sono perfette, ma spero che nel complesso si riesca a cogliere almeno un pochino della passione che questo sport è riuscito a trasmettermi.

Per finire un doveroso ringraziamento va al Modena Junior Rugby Club per il supporto nella realizzazione di questo progetto, a tutti gli allenatori delle varie categorie per il magnifico lavoro svolto insieme ai ragazzi e per aver arricchito con i loro contributi i due volumi, ai Modena Rugby Veterans con cui ho capito cos’è davvero il rugby.


25 giugno 2012

Letture: Anathem, di Neal Stephenson


© giorgio raffaelli
Se il compito dello scienziato è creare una narrazione del reale coerente con i dati e le informazioni disponibili per poi portarla alle estreme conseguenze; se il compito del filosofo è invece il racconto del come e dei perché queste narrazioni possano aver luogo, allora Neal Stephenson è la voce ideale per illustrare al lettore come scienza e filosofia si possano incrociare, e per di più con ottimi esiti narrativi se non letterari.
Con Anathem (pubblicato in Italia da Rizzoli in due volumi, intitolati rispettivamente Il pellegrino e Il nuovo cielo) la carriera letteraria di Stephenson riparte da zero. O meglio, con Anathem, Neal Stephenson fonde (finalmente?) la sua passione per la conoscenza enciclopedica e multidisciplinare del passato (vedi il Cryptonomicon prima e il Ciclo Barocco poi) con l'invenzione e la speculazione della miglior fantascienza. Quella fantascienza che Stephenson ha contribuito a plasmare negli anni '90 dello scorso secolo (Snow Crash, L'era del diamante), finendo per  diventare uno degli autori fondamentali per comprendere le caratteristiche che il genere ha assunto negli ultimi decenni. Che scriva fantascienza o meno, c'è però un tratto comune a tutta l'opera dell'autore americano. I romanzi di Stephenson sono forse il miglior esempio contemporaneo di quella letteratura definita d'idee. Letteratura che privilegia cioé la discussione di uno o più elementi scientifici/storici/filosofici,  affrontati all'interno di un nucleo romanzesco dai punti di vista più disparati, con il supporto di una storia, di personaggi, e di ambienti che pur fondamentali non costituiscono il centro della narrazione.

Anathem richiede un grosso impegno al lettore, che deve affrontare dalle prime pagine un'immersione totale e spiazzante nella realtà complessa del romanzo.
La storia di Anathem è la storia di fraa Erasmas, giovane studente del concento di Saunt Edhar - sorta di convento laico in cui  da secoli scienziati e filosofi vivono isolati dal resto del mondo per dedicarsi alle rispettive ricerche -  che a causa di una situazione eccezionale nella storia di Arbre - il pianeta su cui si svolge l'azione - si ritroverà protagonista di un'epopea di esplorazione, scoperta e cambiamento.
La sovrabbondanza di neologismi e invenzioni, insieme all'approccio diretto della prosa di Stephenson, rischiano di stordire il lettore. D'altra parte le soddisfazioni non mancano, che la cura con cui l'autore assembla ogni singolo dettaglio è fonte continua di stupore e meraviglia, soprattutto in quei momenti in cui si realizza il parallelo tra il medesimo concetto particolare espresso nei temini arbreiani e la sua successiva identificazione nella nostra realtà, nella nostra lingua.

La vicenda narrata dal romanzo è piuttosto semplice nel suo sviluppo. Ciò che rende Anathem speciale nel panorama letterario attuale è la profondità e il dettaglio della costruzione narrativa di Neal Stephenson. Sviluppare una cronologia della storia socio/politica di Arbre e svilupparla in modo coerente con quella parallela e particolare dell'evoluzione - non priva di vicoli ciechi, improvvisi freni e momenti di feconda esplosione - del pensiero scientifico/intellettuale del pianeta, narrando la vicenda da un singolo, limitato - nel tempo e nello spazio - punto di vista è impresa che  da sola rende la lettura del romanzo un'esperienza a tratti entusiasmante. Collocare il tutto all'interno di una vicenda romanzesca altrettanto coerente e brillante per accadimenti e prospettiva, fa ben capire come mai il nome di Stephenson sia tra quelli più osannati dentro e fuori i confini del genere.

Se le avventure di Erasmas, nel concento prima e a spasso per il pianeta poi, seguono uno schema classico di indagine ed esplorazione, il progressivo allargarsi della visione del protagonista dalle mura della sua cella e dalle riflessioni sulla sua carriera scolastica, fino ad abbracciare gli estremi limiti della conoscenza scientifica, arrivando nel frattempo a tastare con mano pregi e difetti della millenaria società umana di Arbre, permette all'autore le più varie speculazioni: da quelle più prosaiche (si fa per dire) sul calcolo matematico e la coltivazione della terra, dalla geometria fino alla fisica quantistica, dalla politica alla religione, dal concetto di multiverso alla filosofia alla cosmologia, rendendo di fatto Anathem un concentrato di idee e meraviglie come di rado capita incontrare. E di fronte a un libro con una tale densità di stimoli intellettuali diventa quasi irrilevante che Stephenson tratti i propri personaggi più come vettori di informazione che come persone. Certo, i momenti di introspezione e relazione tra Erasmas e le persone che lo circondano sono presenti e servono a rendere la storia più partecipata e avvincente, ma lasciano comunque l'impressione di essere accessori al vero fulcro del romanzo.
Se vi aspettate quindi una storia appassionante di eroici scontri ed esplosioni cataclismatiche, se volete leggere di buoni e cattivi che si confrontano per un premio finale, se apprezzate l'introspezione dei personaggi o cercate storie d'amore o sentimenti, beh… forse Anathem non è il libro giusto (tutti quegli elementi ci sono, ma sono fuori fuoco, laterali, sfumati). Se invece la complessità del reale vi appassiona e  le innumerevoli relazioni tra idee, storia e persone non mancano di affascinarvi, se la meraviglia del cosmo è un aspetto fondamentale che cercate nella narrazione in cui siete immersi, beh… allora Anathem diventa probabilmente una lettura fondamentale.

Per concludere queste note mi pare doveroso citare Valentina Ricci, che ha tradotto Anathem in italiano. Affrontare un romanzo che sulle invenzioni linguistiche fonda moltissimo della complessità della narrazione non dev'essere stato un lavoro facile. Non so se la sua traduzione è perfetta (per quel che significa…), di certo io l'ho apprezzata molto, che leggere il romanzo di Stephenson in lingua originale credo sarebbe stato piuttosto difficoltoso.

18 giugno 2012

Bestini 2012

© giorgio raffaelli

La gatta che vedete ritratta qui sopra è Bestia
Bestia vive con noi da un paio d'anni, e lo scorso 25 aprile ha sfornato la sua seconda cucciolata. Com'era già successo l'anno scorso i mici neonati erano tre, ma stavolta uno di loro non è sopravvissuto alla prima settimana di vita.


I due che sono rimasti sono cresciuti in fretta e sono ormai pronti ad affrontare nuove avventure.
Potete ammirarli qui sotto: quello tigrato arancio è un maschietto pacifico e sereno (almeno quanto può esserlo un gatto con neanche due mesi di vita sulle spalle). Quella grigio-bianca è invece una gatta piuttosto vivace e brillante, ma nonostante il caratterino che si ritrova - devono essere i geni materni - non è ancora riuscita a distruggerci casa.
Sono entrambi ben educati (non la fanno in giro) e ben disposti nei confronti degli umani.  
Se là fuori ci fosse qualcuno disposto a ospitarli è il benvenuto.

© giorgio raffaelli

© giorgio raffaelli

Per ogni ulteriore informazione potete contattarmi via mail, oppure qui sotto, nello spazio commenti.

… 

Aggiornamento 25.06.2012

Pare proprio che i due mici abbiano trovato una nuova sistemazione. Andranno a vivere insieme a casa di una mia collega. Yuppie!

11 giugno 2012

Glory Days

Questo post è per Bruce Springsteen.
Lo scrivo dopo aver assistito al suo concerto di Firenze.
Lo scrivo perché sono in debito con lui.
© Marco Borrelli


Bruce Springsteen non è mai stato in cima alle mie preferenze musicali. Massimo rispetto, certo, ma ho sempre fatto molta fatica ad ascoltare un suo disco dall'inizio alla fine. Poi sì, ci sono canzoni che ti entrano dentro e rimangono, (la Thunder Road all'inizio del triplo live 1975-'85, giusto per fare un esempio), ma nel complesso ho sempre giudicato la musica del Boss troppo popolare e troppo americana per andarci del tutto d'accordo.
Ma il rispetto per l'uomo, per l'artista, beh… quello c'è sempre stato, perché se quell'americano e quel popolare sono i limiti nel mio rapporto con la sua musica, rappresentano anche gli aspetti migliori della sua personalità pubblica: Bruce Springsteen m'è sempre parso il miglior esempio di artista che riesce a essere genuinamente popolare senza la necessità di svendersi, oltre a incarnare al meglio tutti gli aspetti per cui gli Stati Uniti d'America calamitano da sempre la mia attenzione, influenzando i mie gusti, i miei ascolti, le  mie letture.

Quando Annalisa mi ha regalato i biglietti per il concerto di Springsteen a Firenze, mi son detto ok, fantastico, andiamo a vedere il Boss prima che sia troppo vecchio per suonare ancora in giro. Sarà anche un concerto da anziani, ma la fama di Springsteen dal vivo è tale che non sarà certo una delusione.
Per prepararci al meglio abbiamo provato ad ascoltare Wrecking Ball, e beh… c'è salita un po' la preoccupazione, che, dite quel che volete, ma quel disco suona davvero troppo old-style e nostalgico per i nostri palati. Ma ok, siamo in ballo, balliamo.

Domenica pomeriggio partenza dopo pranzo. Un paio d'ore di viaggio, auto parcheggiata in zona tattica a due passi dallo stadio, ci rimane da trascorrere il pomeriggio. Proprio di fianco al Franchi c'è il campo del Firenze Rugby che, neanche a farlo apposta, ospita la finale del campionato under 16 nazionale tra Benetton Treviso e Unione Rugby Capitolina Roma. Potevamo rinunciare a una partita di rugby, soprattutto pensando che il figlio maggiore il prossimo anno giocherà in quella categoria?
Per la cronaca vince il Treviso, ma a noi è piaciuta di più la Roma, più brillante e intraprendente dei pari età veneti. Finita la partita c'è giusto il tempo per una birra e un panino e via, Springsteen ci aspetta.

Se siete mai stati a un concerto sapete bene come il tempo nell'attesa dell'inizio passi molto lentamente. Ci si guarda intorno, si chiacchiera, si osserva il pubblico con quel misto di noia e aspettative che crescono di ora in ora fino a non poterne più. Almeno fino a che non risuonano le note di C'era una volta il West a introdurre l'ingresso della E Street Band sul palco. Nel frattempo il clima che sembrava l'ideale per una serata di inizio giugno, temperatura perfetta, leggermente ventilato, sole che va e viene tra le nuvole, vira decisamente al grigio piombo con minaccia di pioggia. Springsteen non fa in tempo a finire Badlands che inizia a piovere. "Saran due gocce, vedrai che smette" saranno le più classiche delle ultime parole famose. La pioggia non smetterà più per tutte le tre ore e mezza di concerto, aumentando anzi d'intensità man mano che la serata procede.

Il concerto conferma tutto ciò che di buono avevamo sentito in precedenza sulle prestazioni live di Springsteen. Il Boss è una macchina da guerra, macina canzoni e chilometri su e giù per il palco, scendendo tra il pubblico in mezzo all'acqua, dirigendo la E Street Band, alternando momenti intensi ed emozionanti ad altri in cui il rock'n'roll più sfrenato la fa da padrone.
Bruce Springsteen non molla mai, nemmeno per un secondo, la presa sul pubblico. Si concede senza riserve, dando tutto e ancora di più, sia che scherzi o che provi qualche frase in un italiano stentato,  quando gigionegga o nei momenti più seri, con una voce che nonostante i suoi sessantadue anni è capace di toccare tutte le corde dello spettro sonoro: dall'urlo al sussurro, dal lamento in coda a The River, alla pura gioia di Twist and Shout, dall'intensità soul di My City of Ruins (per me il momento più alto della serata) al più classico dei rock'n'roll.

Anche senza conoscere più d'una delle canzoni (l'ho detto che non sono un fan, no?) l'esperienza del live di Springsteen è qualcosa che supera abbondantemente qualsiasi aspettativa potessi avere prima del concerto. E capisci perché c'è gente che lo segue da anni con decine di concerti alle spalle. Per un attimo credi di nuovo al sogno del rock'n'roll e comprendi come si possa arrivare ad adorare un tizio del genere. E a fine concerto, stremato, bagnato fradicio, con lui che proprio non ne vuol sapere di mollare lì e andarsi a riposare, ti rendo conto che è impossibile non volergli bene.
Continuerò a non riuscire a finire di ascoltare i suoi dischi, ma dopo le tre e mezzo di Firenze mi porterò per sempre un pezzo di Springsteen nel cuore.

© Paolo Arnetoli



Aggiornamento:
Ho appena scoperto queste foto. Che siate stati al concerto o meno, dategli un'occhiata, vi assicuro che ne vale la pena…



07 giugno 2012

I piedi per terra

© Aelle
La nostra casa è ancora in piedi. Noi siamo ancora vivi. Ma non avrei mai immaginato che convivere col terremoto portasse via tante energie. Saranno l'insicurezza e i nervi tesi, in attesa della prossima botta; la notte, quando vai a dormire con un occhio aperto, lo zaino per l'emergenza vicino all'uscio, e speri non ci siano sorprese dietro l'angolo; la sensazione costante di instabilità, che ormai non distingui più le scosse vere da quelle che ti immagini soltanto.

Modena sta tornando lentamente alla normalità (lo dico sottovoce, sperando che nel frattempo non ci siano ulteriori sussulti, vedi domenica sera), ma in questi giorni ha vissuto una sospensione dalla realtà quotidiana che ha mescolato visioni surreali (decine di tende nei giardini, il centro deserto, la fuga dalla città) con un ritorno alla terra, a uno spirito d'accampamento, con gente sconosciuta a condividere la cena all'aperto, bimbi a giocare nei parchi fino a tardi, chiacchiere e consolazione. Sarà che qua non siamo troppo abituati a piangerci addosso, e anche nelle situazioni più serie cerchiamo un buon motivo per trasformare in positivo anche il momento più drammatico, ma queste serate passate in compagnia rimarranno un buon ricordo in mezzo a giornate dominate dall'ansia.

Per sconfiggere la tensione la terapia migliore è tenersi occupati, tentare la via della normalità, mantenere gli impegni e lavorare.
Forse è per questo che nonostante il momento sono in pochi tra i Veterans del Modena Rugby ad aver rinunciato alla trasferta di Arezzo per il Torneo del Rinascimento. Certo, il programma originale prevedeva la partenza al venerdì e il ritorno di domenica, con in mezzo un sacco di rugby e gozzoviglia. Alla fine son partito e tornato in giornata, ma staccare un po' e trovarsi su un terreno solido in buona compagnia è servito a tutti per rilassarci e recuperare un po' di energie.
Così come portare i ragazzi a giocare a rugby domenica a Colorno e rimanere colpiti dalle magliette che una squadra bresciana ha stampato per l'occasione. A volte basta anche solo un pensiero come quello per sentirsi meno soli. E a proposito di rugby, in questi giorni ho finalmente mandato in stampa i due volumi sulla stagione dei giovani rugbisti modenesi, e anche questa è stata una bella soddisfazione.


Se in queste settimane ho trascurato il blog e la rete in generale, sentire la vicinanza degli amici preoccupati per il sisma, e disponibili a darci una mano, è stata comunque una bella sensazione. E quindi, per finire, un bel grazie a tutti coloro che si son resi disponibili ad aiutarci nel caso ne avessimo avuto bisogno, a tutti quelli che han semplicemente chiesto come va, che un pensiero in questi casi è davvero apprezzato. Ma soprattutto un enorme grazie a chi da tutta Italia si sta sbattendo per dare una mano ai nostri vicini della bassa, che nonostante lo stress noi siamo quelli fortunati, che invece laggiù, a pochi chilometri da casa nostra, la situazione è davvero brutta. Voi non dimenticateli, vedrete che loro si ricorderanno di voi.

21 maggio 2012

Terremoto

Foto di Giorgio Raffaelli
Alle 21.00 del 6 maggio 1976 ero già a nanna, nel letto a castello che condividevo con i miei fratelli più piccoli. Non avevo ancora 10 anni, ma quella sera me la ricordo bene. A Bolzano il terremoto era un evento sconosciuto, di cui né io né i miei genitori avevamo alcuna memoria.
Ricordo di essermi alzato, preoccupato, e i miei fratelli che continuavano a dormire. Ricordo di essere stato raggiunto da mia madre (mio padre quella sera era fuori), ricordo la gente per strada, sorpresa, spaventata, vista dalla finestra. Il resto della serata passato davanti alla Tv, con le informazioni  che arrivavano a spizzichi e bocconi, e un film, Il mistero delle dodici sedie, di cui non ho praticamente alcun ricordo, salvo una sensazione strana d'angoscia e il suo essere legato indissolubilmente a quella data.

Quando domenica alle 4 di mattina il letto ha iniziato a ballare svegliandomi, ero di nuovo a Bolzano, da solo con mia madre. "Se qui è arrivato così forte, che disastro sarà sucesso?" è stato il primo pensiero. E poi accendere il computer, e aggiornare twitter attimo dopo attimo, e capire dove aveva colpito, cosa era successo. Ho mandato un sms a casa, non telefoni a qualcuno, chiunque sia alle 4 di mattina, per verificare che stessero tutti bene. Annalisa mi ha richiamato, erano usciti in strada, un po' impanicati (tranne J, che avrebbe continuato a dormire), la casa sembra aver retto l'urto. Ci siamo salutati, sono tornato a letto (ormai erano le 5) e una nuova scossa ha reso tutto più difficile. Però ce la siamo cavata, ci siamo andati vicini, ma a noi non è successo nulla.

Il giorno dopo sono iniziate ad arrivare le notizie dei danni. È la prima volta che ci capita un terremoto dietro casa, fino a ieri  tutta questa distruzione sembrava inconcepibile nel bel mezzo della pianura Padana. Eppure è successo qui, e quei paesi che chiunque abiti a Modena ha visitato o frequentato, dove tutti conoscono qualcuno, dove abbiamo sposato - fotograficamente - la nostra penultima coppia, dove siamo andati a sentire concerti, o a qualche festa estiva, dove lavorano clienti delle aziende che ci pagano lo stipendio, ora sono tutti fermi, in bilico, in attesa, sull'orlo sottile che divide un giorno come gli altri da una vita completamente nuova e sconosciuta. Quei paesi, quelle persone, sono diventati casa mia, casa nostra. Lo shock passerà, e si ricostruirà. Se ho imparato a conoscere un po' la terra che mi ospita quei paesi torneranno meglio di prima.
Ma per ora rimaniamo fermi, in attesa, ad ascoltare la terra, a sperare che si metta tranquilla.

17 maggio 2012

Letture: La città e la città, di China Miéville

Foto di Giorgio Raffaelli
Cosa vediamo del mondo che ci circonda? Quanti segnali ignoriamo muovendoci per le strade delle nostre città? Quand'è successo che abbiamo smesso di guardare il panorama urbano che racchiude l'esistenza della maggior parte di noi? Perché certi dettagli non escono mai dalla periferia della nostra visione per assumere coerenza e sostanza?

China Miéville da corpo narrativo a queste domande e con La città e la città tenta una difficile indagine speculativa sulla complessità della vita urbana: grazie agli strumenti della narrativa di genere porta all'eccesso le particolarità ambientali in cui colloca la sua storia per evidenziare come i comportamenti individuali siano vincolati alle convenzioni sociali e alla deriva storica che le sottende, riflettendo al contempo su controllo, sorveglianza e punizione, sulla gestione del potere, su rivoluzione ed educazione.

La città e la città ha tutte le apparenze del romanzo giallo più tradizionale: una fanciulla sconosciuta viene trovata morta in un quartiere periferico della città di Besźel e Tadyur Borlù, poliziotto chiamato a indagare, si trova presto incastrato in una trama più grande di lui. Il protagonista del romanzo non si perde d'animo e grazie a sagacia, fortuna e buone conoscenze riesce a dipanare la complicata matassa, lasciando per strada più di una convinzione e ritrovandosi all'ultima pagina più solo che mai, ma con qualche certezza in più.

Ma se la scatola letteraria è un cliché, ben più originale e affascinante è il cuore del romanzo, che batte il ritmo asincrono delle due città in cui si svolge l'azione: Besźel e Ul Qoma.
Situate in una non meglio precisata regione del sud-est europeo, Besźel e Ul Qoma sono divise in tutto (dalla gastronomia alla forma di governo, dalla lingua all'architettura), ma condividono lo stesso territorio, sovrapponendosi e condividendo la morfologia urbana in cui si sono evolute. I cittadini delle due città vivono fianco a fianco, ma secoli di storia separata li hanno portati a diventare maestri dell'arte di disvedere, rendendo di fatto l'altra città, i suoi abitanti, la sua cultura e le sue costruzioni, invisibili a chi dovesse per caso posare lo sguardo sul suolo straniero. A dare coerenza all'invenzione e rendere di fatto tassativo l'obbligo a disvedere c'è una terza entità a sorvegliare il comportamento di tutti i residenti: la Violazione, un ente apparentemente inconoscibile, dotato di misteriosi poteri di intervento e punizione.

China Miéville gioca con l'incongruenza topologica di questa doppia città affrontandone i vari aspetti, dai più quotidiani (come sopravvivere al traffico urbano), ai più esoterici (i bambini considerati come veicoli d'infezione culturale), riuscendo nell'arduo compito di rendere credibile agli occhi del lettore la realtà impossibile del romanzo. Ma Mieville non si ferma alla descrizione degli aspetti pratici della vita in città e riflette sulle implicazioni politiche e sociali di una (anzi, due) comunità che si trovano a dover convivere con le solite divisioni (di ceto, di religione, di etnia) all'interno di una frattura che riflette, amplificando, tutte le tensioni che una situazione di convivenza coatta porta con sé. Esemplari in questo senso sono le pagine che l'autore dedica alle organizzazioni rivoluzionarie di vario colore e ai loro tentativi di unificazione egualitaria o di dominio politico dell'entità Besźel-Ul Qoma. In effetti i personaggi che bazzicano questi ambienti oscuri e settari, dominati dalla paranoia eppur vivi e vitali nel perseguire un loro scopo, sono forse quelli meglio tratteggiati dall'autore, che con quel misto di indulgenza e pessimismo, affetto e rassegnazione, riesce a rendere  bene l'idea di una vita ai margini di un regime allergico al cambiamento.

Se arrivati a fine lettura questi personaggi secondari rimangono più impressi nella memoria del lettore degli stessi protagonisti del romanzo, è però evidente che qualcosa ne La città e la città non funziona del tutto.

A mio avviso il difetto principale del testo di China Miéville è lo stesso riscontrato nel mio precedente incontro con l'autore inglese: la mancanza di personalità dei suoi protagonisti.
Tadyur Borlù non ha nulla che lo faccia risaltare, che permetta di metterne a fuoco una qualche caratteristica peculiare, o che almeno lo distingua quanto Besźel-Ul Qoma è distinguibile dalle centinaia di panorami urbani già incrociati in precedenza. A volte si fa fin fatica a riconoscere nelle movenze e nei gusti di Borlù qualcosa che ne identifichi nazionalità e cultura, tanto i suoi tratti  paiono sovrapponibili a quelli di un qualsiasi trentenne occidentale. Ed è con rammarico che tocca osservare quanto poco l'ispettore Borlù assomigli alle città che tanto si impegna a capire/conoscere/salvare.
D'altra parte, volendo parlare delle caratteristiche salienti un testo come La città e la città, è lecito chiedersi quanto peso si debba dare a personaggi e caratterizzazioni, quando è evidente che il nucleo forte del romanzo non è singolare ma collettivo; che l'interesse del lettore (di questo lettore perlomeno) è attirato più dal racconto degli spazi comuni, con le loro intersezioni, divisioni e sovrapposizioni, che dall'esplorazione dello spazio individuale del protagonista; che il mistero e la meraviglia del vivere in Beszel - Ul Qoma è certo più intrigante di qualunque combinazione affettiva possa legare i personaggi che si incontrano nel corso della lettura.

Dopotutto è facile capire come La città e la città avesse tutte le caratteristiche per catturare il mio interesse. Essendo cresciuto in una città doppia (per quanto lo sdoppiamento non sia esasperato e così ovviamente romanzesco come in Beszel - Ul Qoma) rivedere narrati, e quindi riscoprire, molti dei meccanismi di riconoscimento/negazione mostrati da Miéville è stata un'esperienza molto interessante.
L'arte di vedere e disvedere non è un'invenzione narrativa di China Miéville. È una cosa che impariamo a fare tutti. Crescendo in un ambiente complesso privilegiamo i segnali utili, ignoriamo ciò che ci può potenzialmente disturbare, scegliamo cosa vedere. E quando tutti i segnali sono doppi, come nella mia esperienza bolzanina, è facile arrivare a ignorare molto del panorama urbano che ci circonda. E di solito è una cosa che notiamo solo quando ce ne andiamo.

Ultima nota sull'edizione italiana del volume. La scelta di Fanucci di mettere in vendita il volume a un prezzo popolare è degna di merito e va doverosamente segnalata. Anche la copertina scelta è degna di menzione. Sul fronte traduzione, che è un caratteristico punto debole nella mia esperienza con l'editore romano, le cose non vanno troppo male. Sono i dialoghi a risentire soprattutto della trasposizione in un'altra lingua, che se nell'originale inglese la resa spezzata e sincopata del testo si può dire funzionale alla narrazione, la versione italiana risulta spesso legnosa e artificiale.
Detto questo va comunque precisato che dopo aver iniziato il volume in lingua originale (grazie a Paolo per il prestito) ho preferito proseguire la lettura in italiano. L'inglese di Miéville non m'è parso particolarmente complesso, ma la lettura non mi risultava piacevole come affrontando Charlie Stross (per quello che scrive) o Ian McDonald (per come lo scrive), mentre la traduzione di Maurizio Nati fa il suo sporco mestiere senza che il lettore abbia troppo a risentirne.

08 maggio 2012

Intervallo, con rugby

Il post su La città e la città sta per arrivare, portate pazienza. Nel frattempo vi mostro come sto passando parecchio del mio tempo libero ultimamente.

Foto di Giorgio Raffaelli

Sabato i Modena Rugby Veterans hanno giocato un triangolare con i Passatelli di Ravenna e il CUS Milano.
Io non ho giocato, che in questo periodo gli impegni si accavallano e non posso rischiare di rompermi, però ho fatto qualche foto.

Oltre a scattare come un forsennato, sto preparando un paio di volumi fotografici che raccoglieranno le foto migliori scattate durante tutta la stagione del minirugby e degli under 14 del Modena Junior Rugby.
Come se non bastasse ho un paio di servizi fotografici in corso di realizzazione e un altro paio di lavoretti di impaginazione da consegnare nei prossimi giorni.

Capite bene che da qualche parte il tempo lo devo riuscire a far saltar fuori e quindi, ahimé, gli aggiornamenti del blog sono rimandati. Se tutto va come deve andare per la fine della settimana dovrei essere un filo più libero, e magari riusciamo finalmente a parlare di Mieville. Ma non voglio fare promesse che non sono sicuro di riuscire a mantenere.
Per ora godetevi le foto. Ci si risente presto!



23 aprile 2012

Lettura analogica / Lettura digitale

Foto di Giorgio Raffaelli

Negli ultimi anni, in parallelo al diffondersi dei libri elettronici, c'è stato nei blog vicini un fiorire di post che hanno sviscerato il fenomeno dai punti di vista più disparati. La quantità di informazioni, giudizi, polemiche, opinioni, chiacchiere e discussioni è straripante, ed è difficile farsi un'idea obiettiva sullo stato dell'arte dell'editoria elettronica, che è oltretutto molto diverso a seconda del particolare quadrante geografico si voglia prendere in considerazione.
Qualche esempio? Nelle ultime settimane c'è stato l'intervento di Charlie Stross sulle caratteristiche e le conseguenze del dominio di Amazon sul settore, quello di Davide Mana sulle potenzialità inespresse del mezzo digitale o (con qualche mese in più sul groppone) quello più tecnico di Matteo Poropat sulle problematiche relative alla realizzazione editoriale degli ebook. Di carne al fuoco ce n'è in abbondanza e se finora mi sono astenuto dal trattare questo argomento non è per mancanza d'interesse, quanto piuttosto per chiarirmi le idee e non sbrodolare quattro cazzate tanto per.

Sebbene abbia avuto occasione di maneggiarli, non posseggo né un dispositivo e-ink nè un tablet, ma - lo dico subito a scanso di equivoci - non vedo l'ora di potermi permettere un ipad. Sono convinto che per fruire al meglio di un testo tecnico, un saggio, un manuale o una rivista la lettura su mezzo elettronica offra - e offrirà sempre più - una quantità di vantaggi rispetto a quella tradizionale.
Detto questo, non sono altrettanto convinto che per la lettura da diporto (per quanto mi riguarda mi riferisco soprattutto alla narrativa) l'utilizzo di un supporto tradizionale (leggasi libro) abbia poi tanto da perdere dall'avvento degli ebook.
Le mie considerazioni nascono dal confronto delle due esperienze di lettura. Sono del tutto soggettive, certo, ma credo che definire la lettura di un libro come esperienza più ricca di quella di un testo elettronico non sia solo frutto di fisime luddiste o di una mal riposta nostalgia per i bei tempi andati.

Il testo di un ebook sarà anche interattivo, ma quanto interattivo è il supporto che lo ospita? Un reader, a prescindere dalle sue specifiche tecniche, è un oggetto pressoché bidimensionale, almeno per quanto riguarda la sua interfaccia. Per quel che interessa il lettore si può benissimo considerare come uno schermo su cui si possono visualizzare parole e immagini, e una scelta di accessori più o meno utili per scegliere/scorrere/annotare il determinato testo.
La lettura di un libro è un'esperienza sensoriale parecchio diversa. Nel libro ci puoi infilare le dita dentro, puoi valutarne lo spessore, il peso, le dimensioni, te lo puoi rigirare tra le mani senza tema di grossi danni da caduta o urti. Un libro lo puoi scagliare contro un muro, lo puoi macchiare di caffè o riempire di briciole, lo puoi lasciare aperto o valutarne la progressione. Soprattutto le pagine di un libro le puoi toccare, e scoprire come la carta sia diversa da edizione a edizione, e offra al tatto sensazioni parecchio più amichevoli (materia organica vs plastica e vetro, c'è competizione? sì, c'è: ho toccato polimeri che voi umani… ma non in un ereader, non ancora, per lo meno).

C'è poi un ulteriore considerazione da fare. Quanti filtri intervengono nel percorso del testo fino all'occhio del lettore? Me lo chiedo perché ho l'impressione - e chi ha maggior pratica di e-lettura potrà confermare o meno, grazie! - che durante la lettura da un supporto elettronico la comprensione del testo attraversi un numero di filtri, che riguardano sensazione, percezione e predisposizione, decisamente maggiore che non dalla lettura della pagina stampata. Quest'impressione nasce dalla semplice constatazione che il rapporto tra lettore e testo tradizionalmente stampato è diretto, occhio-carta, mediato solo dall'inchiostro, quindi un supporto fisico, materico, utilizzato per sporcarla. Credo invece che accostandosi a un testo visualizzato su schermo intervengano molti più fattori in grado di influire sulla relazione testo/lettore. C'è la consapevolezza del supporto elettronico, oggetto infinitamente più complesso del volume cartaceo tradizionale; c'è la possibilità di variare carattere, dimensione, aspetto del testo che stiamo leggendo; c'è lo schermo a separare fisicamente il lavoro dell'autore dall'occhio del lettore. Dopotutto il mezzo è (anche) il messaggio, e un supporto più complesso influenza (magari poco, magari molto, credo sia questione molto soggettiva) la percezione del testo che veicola.

Ma allora? Dobbiamo rinunciare agli ebook, mandarli al macero (ops!) senza nemmeno dargli una possibilità?
Nemmeno per sogno.
I libri elettronici sono il futuro. Sono più economici, più convenienti, permettono una gestione delle risorse, a monte, e dei testi, a valle, più efficiente, meno dispendiosa, ottimizzata; oltre a consentire un interazione tra opere e lettore più libera e profonda.
Ma qui si parlava di lettura, non di editoria. Di lettura, non di studio. Di quel tipo di lettura fatta senza altro scopo se non quello della libera espressione di sè, di quell'esperienza individuale che porta a livello zero le complicazioni esterne, per aumentare esponenzialmente la possibilità di un incontro fortuito, di una rivelazione, di una gioia o un dolore del tutto personali. La lettura intesa come piacere singolo e individuale. Un piacere che ha ben poco a che fare con concetti come efficenza, economia o allocazione di risorse.
Prima o poi un ipad spero davvero di riuscire a prenderlo. Ma non so se lo userò per leggere il prossimo McDonald piuttosto che un Banks o un Murakami. Almeno non se avrò la possibilità di permettermi un libro fatto di carta e inchiostro.






21 aprile 2012

The Kids Are Alright

Per una volta si parla di musica. Di roba nuova. almeno per me. Roba che mi ha sorpreso e che mi pare giusto condividere con voi, a costo di fare la figura dell'anziano che arriva dopo che tutti se ne sono già andati.
Prima di arrivare al punto devo confessare la mia ignoranza. Ho pochissima esperienza con l'hip-hop. Nei remoti anni '80 mi ero fatto registrare una cassetta con Licensed to Ill, e ho ascoltato qualcosina dei Public Enemy. Poi c'è stato qualche anno di vuoto, per arrivare a Stop al panico e a un fugace innamoramento per gli Assalti frontali. In quegli anni ricordo un grande concerto a Correggio dei Disposable Heroes of Hiphoprisy e uno dimenticabile di un'altro gruppazzo rap rurale (che in effetti manco mi ricordo come si chiamavano, forse De La Soul?).
Cos'altro? Vediamo, mi piacque un sacco il primo Jazzmatazz, la colonna sonora di Ghost Dog, ho un disco di Jovanotti e i primi di Eminem. Fine.

Ma avere un figlio di 14 anni aiuta a scoprire cose che beh… sospettavi esistesssero, ma non avevi mai toccato con mano.
E quindi beccatevi questo paio di video. Sono un pezzo di Rancore & DJ Mike e un altro di Salmo.
A quanto pare là fuori i ragazzi si danno da fare.







16 aprile 2012

Letture: Nove gradi di libertà, di David Mitchell

Foto di Giorgio Raffaelli
Dopo aver apprezzato Sogno Numero 9 m'era rimasta la voglia di leggere ancora David Mitchell. Quando mi sono imbattuto in Nove gradi di libertà, venduto a metà prezzo in un reminder, qualsiasi dubbio potessi avere su cosa leggere è stato superato dagli eventi.

Nove gradi di libertà non è propriamente un romanzo, o meglio, lo è quanto una staffetta assomiglia a una gara in linea. I nove capitoli che compongono il volume sono legati l'uno agli altri dalla presenza di un particolare (un personaggio citato en passant, un episodio narrato da un altro punto di vista, una vicinanza geografica o spirituale) che sembra invitare il lettore a dare forma unica alla storie multiple che sta leggendo. Come i racconti hanno tutti una distinta collocazione geografica (si parte dal Giappone, attraversando poi in varie tappe l'oriente fino in Russia, per giungere fino in Irlanda e quindi a New York per il cataclismatico finale), anche il registro che l'autore adotta per narrarli cambia di volta in volta, adattandosi al contesto, alla specificità della storia, alla personalità dei protagonisti.

La mancanza di una voce riconoscibile (se n’era già parlato a proposito di Sogno Numero 9, vedi lo spazio commenti del post collegato) è una delle caratteristiche che rendono unico, almeno per la mia esperienza, un autore come David Mitchell. Le capacità mimetiche dell'autore inglese, e la conseguente organizzazione parcellizzata del suo romanzo, sono però anche il più grosso limite di Nove gradi di libertà. Il costante cambiamento di registro e situazioni che costituisce il nucleo del volume rischia infatti di ridurre il testo, da intensa ed emozionante  riflessione sulla realtà complessa che ci circonda, in mero esercizio di stile, apprezzabile per la qualità della scrittura, ma un poco vacuo nella consistenza delle sue riflessioni.

Nove gradi di libertà scorre comunque che è un piacere. Tra le storie che mi son rimaste impresse voglio ricordare almeno Hong Kong”, “La montagna sacra”, “Clear Island”. In questi racconti si fondono perfettamente personaggi credibili, invenzione narrativa e un'attenzione ai dettagli ambientali che in molti degli altri racconti ho trovato invece carente, vuoi perché in alcuni non sentivo del tutto vera la voce dei protagonisti, vuoi perché altri avevano sviluppo ed esito piuttosto prevedibile, vuoi per una certa inconsistenza della trama. Ma nonostante i difetti evidenziati, la lettura di Nove gradi di libertà rimane un'esperienza piuttosto originale e consigliabile.
La molteplicità di voci e luoghi, la mescolanza di registri narrativi e generi letterari, la ricchezza di punti di vista e riflessioni non fanno rimpiangere il tempo speso tra le sue pagine.

12 aprile 2012

Letture: Dula di Marte, di Joe Haldeman


Foto di Giorgio Raffaelli

Chi segue questo blog sa che ho un debole per Joe Haldeman. Il suo nome sarà sempre legato al romanzo d'esordio, ma anche se non è più riuscito a rivivere i tempi gloriosi di Guerra eterna, Haldeman ha continuato a sfornare, regolare come un metronomo (e sono ormai 40 anni!), romanzi e racconti sempre abbondantemente sopra la media.

La fantascienza di Joe Haldeman ha tutta l'apparenza del prodotto standard. I contenuti delle sue storie sono tra i più classici del genere. Personaggi e situazioni non paiono discostarsi mai troppo dai cliché e dagli stereotipi che hanno fatto la fortuna della letteratura popolare. Ma ci sono due qualità che soprattutto distinguono la produzione dell'autore americano da quella dei tanti che nel corso del tempo hanno battuto e battono le stesse piste.
La leggerezza della scrittura è il motivo principale che mi fa apprezzare Haldeman. Non esiste tema troppo serio che non riesca ad affrontare con una parvenza di sorriso, senza che per questo le sue storie perdano drammaticità di sviluppo e contenuti. L'altro grosso merito che riconosco ad Haldeman è la costante tensione sovversiva che percorre appena sottotesto tutta la sua produzione. Niente di rivoluzionario o scandaloso, ma il semplice accostamento di temi fantascientifici ormai usurati, l'approccio estremamente serio e preparato alla componente scientifica delle sue storie, la brusca sterzata dal già letto al nuovo che avviene immancabile nel corso della lettura, condito con il tono scanzonato della narrazione, sono elementi che contribuiscono a sottolineare una visione non del tutto omologata e decisamente consapevole della fantascienza di Joe Haldeman.

Dula di Marte (Marsbound in originale) è l'ultimo esempio in ordine di tempo (ma il mese prossimo Urania pubblicherà Starbound, seconda parte di quello che dovrebbe essere un trittico), del talento di Joe Haldeman nel giocare con i topoi del genere. Costruito come una scatola cinese, Dula di Marte parte come un romanzo di formazione, con la giovane protagonista in rotta verso Marte con la famiglia, impegnata a prendere le misure di una nuova vita lontano da casa, si trasfoma di colpo in una storia di primo contatto, per poi rivelare nel finale la portata cosmica del disegno narrativo dell'autore.
Dula di Marte appartiene a quella schiera di romanzi che non hanno particolari ambizioni di innovazione. È una storia dal passo divertito ed efficiente caratteristico dei migliori esempi della produzione di genere ed è un ottimo esempio di fantascienza tradizionalmente intesa, capace di regalare qualche ora di piacevole lettura anche al lettore più scafato.

10 aprile 2012

Letture: Il canone occidentale, di Harold Bloom

Il canone occidentale è forse il libro più conosciuto di Harold Bloom. In questo volume Bloom, da molti considerato il critico letterario più influente al mondo, traccia una storia della letteratura occidentale analizzando le opere e gli autori che hanno creato quel canone con cui ogni scrittore si deve confrontare. Partendo da Shakespeare e Dante, Bloom riconosce come canonici altri 24 scrittori (Chaucer, Cervantes, Montaigne, Molière, Milton, Dr. Samuel Johnson, Goethe, Wordsworth, Jane Austen, Walt Whitman, Emily Dickinson, Charles Dickens, George Eliot, Tolstoi, Henrik Ibsen, Freud, Proust, James Joyce, Virginia Woolf, Franz Kafka, Jorge Luis Borges, Pablo Neruda, Fernando Pessoa, Samuel Beckett). Nel volume illustra con competenza e passione i meriti e i limiti di ognuno di loro.

Foto di Giorgio Raffaelli

Avete presente il classico vecchio zio brontolone?
Quello a cui non va bene nulla che non abbia sperimentato personalmente?
Quello che per quanto si guardi in giro quello che vede è solo quello che ha già visto?

Dopo la lettura de Il canone occidentale posso dire che Harold Bloom m'è parso la versione critico letterario di quel vecchio zio.
Fortunatamente il cliché del vecchio zio brontolone ha anche qualche lato positivo, che la competenza, la cultura, la passione di Harold Bloom sono fuori discussione. Grazie ai suoi scritti ho scoperto autori di cui conoscevo a malapena il nome e ho potuto ammirare e approfondire le particolarità di quelli che invece conoscevo solo superficialmente.


Non ne so abbastanza per cogliere tutta la messe di informazioni e suggestioni che Bloom dedica al corpus di titoli e agli autori che ritiene degni di far parte del canone letterario occidentale, ma ci sono due aspetti più volte ribaditi nel volume che mi paiono quantomeno curiosi: l'idea di letteratura come competizione, per cui secondo Bloom gli autori farebbero a gara per superarsi vicendevolmente e la polemica nei confronti dei critici di scuola diversa (quelli devoti al politically correct, ma anche quei critici che - semplifico - vedono legami vicendevoli tra letteratura e società), che Bloom non perde occasione per sbeffeggiare, riducendo a battuta qualsiasi possibile occasione di confronto. E senza la possibilità di confrontare in modo serio e pacato le relative posizioni, l'unico che ci rimette è il lettore comune, che si trova spiazzato di fronte alla stentoreità di certe affermazioni. Anche perché quei criteri estetici che secondo Bloom sono l'unico metro per giudicare un'opera d'arte, assomigliano molto a un voler attribuire valori oggettivi a giudizi che in definitiva (e per quanto condivisibili) sono del tutto soggettivi. Ma mi fermo qua, che dal basso del mio blog non posso certo mettermi a discutere con un nume tutelare della critica letteraria come Harold Bloom.
(Annoto comunque che se mai leggerò Proust sarà per merito di questo volume).

02 aprile 2012

Letture: Perdido Street Station, di China Miéville

È inutile, non riesco proprio a trovare il tempo per proporvi quattro chiacchiere a proposito delle ultime letture (che nel frattempo si vanno accumulando: ho ormai largamente superato la dozzina di volumi di cui vorrei parlare, toccherà trovare un modo per spendere almeno due righe due per molti dei libri degli ultimi mesi… vedremo). Cerco di porre parziale rimedio riproponendo quel che scrivevo nel lontano 2004 a proposito di Perdido Street Station, primo romanzo di China Miéville tradotto in italiano.
Queste note erano disponibili nel mio vecchio sito, in una versione leggermente diversa. Le ripropongo qui e ora un po' perché il nome di Mieville è saltato fuori nei commenti agli ultimi post, un po' perché ho finito di leggere da poco La città & la città, e beh… i due romanzi hanno qualche caratteristica comune.

Foto di Giorgio Raffaelli


Perdido Street Station è un buon romanzo, con idee notevoli e immagini memorabili, penalizzato da qualche passaggio troppo interlocutorio e da un protagonista non sempre convincente.

Ma andiamo con ordine.

Tra gli aspetti memorabili nel romanzo al primo posto va citata la città di New Crobuzon, vera protagonista di Perdido Street Station: un mix tra una Londra vittoriana ancor più decadente, un'invenzione di Jeronimus Bosch e la Gotham City di qualche Batman ben riuscito. L'incrocio tra magia, tecnologia al vapore e il grottesco melting pot che caratterizza il mondo del romanzo è un altro dei motivi d'interesse del libro. Mentre la scrittura di China Miéville, per quanto a volte rischi il didascalico e lo stucchevole, riesce sempre a salvare capra e cavoli (ma non il formaggio...).

Anche la vicenda, una volta decollata, diventa interessante e sufficientemente appassionante. Dal mio punto di vista, il problema del romanzo sta forse nell'eccessivo stacco tra la parte introduttiva e quella in cui si sviluppa (finalmente!) l'azione. Il secondo quarto del romanzo è infatti eccessivamente e inutilmente pesante: crea un continuo senso di aspettativa nel lettore ribadendo più e più volte situazioni di tensione senza mai farle esplodere nelle loro conseguenze, tanto che, quando infine la situazione precipita, lo fa in maniera quasi scontata e liberatoria (penso per esempio a tutta la storia del bruco, dopo un po' non se ne poteva più...).

L'altro difetto del romanzo sta tutto nel protagonista (in uno dei protagonisti): Isaac Dan der Grimnebulin. Per certi aspetti Isaac è gestito benissimo dall'autore, ma mi ha dato la sensazione (che non saprei spiegare meglio) di essere leggermente fuori sincrono con la realtà che lo circonda. Isaac è un personaggio troppo facilmente riconducibile al nostro continuum spazio-temporale e la sua maniera di pensare e di agire è troppo da occidente-fine-XX-secolo per non risultare fuori posto nell'universo assai diverso del romanzo.

Perdido Street Station è comunque una romanzo consigliabile, un originale incrocio tra i generi, un grandioso affresco sociale a metà strada tra il grottesco e l'antropologico e (soprattutto?) un'avventura divertente, commovente e appassionante. Tutti ingredienti indispensabili per un'ottima lettura.

29 marzo 2012

Fantascienza in arrivo: Gene Wolfe


No, nessuna novità in arrivo da Gene Wolfe - magari! - che sono anni che dell'autore americano arriva da noi solo qualche racconto sparso. 
Ma la nuova edizione a marchio Fanucci de Il Libro del Nuovo Sole da oggi in libreria merita comunque una menzione.
Uscita negli Stati Uniti tra il 1980 nel 1982, la tetralogia del Nuovo Sole ha goduto di ottima visibilità anche qui in Italia. L'editrice Nord l'ha pubblicata una prima volta nel 1983/84, per riproporla poi nel 1997/98 in un nuovo formato (e con nuove traduzioni). Quest'edizione è stata quindi riproposta in tascabile da Sperling Paperback nel biennio successivo.

A distanza di 15 anni tocca a Fanucci riportare Gene Wolfe in libreria con un'edizione che si fa immediatamente notare per il prezzo: il primo volume, L'ombra del Torturatore costa 6,90 euro, i successivi L'artiglio del Concigliatore, La Spada del Littore e La Cittadella dell'Autarca 9,90 euro l'uno. In un momento in cui i libri costano mediamente il doppio va sottolineato lo sforzo economico dell'editore romano.
L'edizione Fanucci aggiunge ai quattro volumi originali anche il quinto Urth del Nuovo Sole scritto da Wolfe parecchi anni più tardi. In questo seguito si scopre il destino finale di Severian, oltre a qualche altro aspetto dell'opera originale rimasto piuttosto misterioso.
Trattandosi di Gene Wolfe la qualità del romanzo è comunque buona, ma non raggiunge mai le vette dei primi quattro libri.

Per chi là fuori non lo conoscesse, il romanzo di Gene Wolfe (che nonostante i quattro volumi cui è stato diviso Il Libro del Nuovo Sole va inteso come opera unica) narra l'epopea di Severian, apprendista torturatore, in esilio dalla sua terra natale per non aver compiuto il proprio dovere e del suo viaggio tra le genti e i luoghi di Urth.
Narrato in prima persona dal suo protagonista, che ripercorre le tracce della sua vita grazia alla prodigiosa memoria di cui è dotato, Il Libro del Nuovo Sole è insieme la cronaca di un percorso iniziatico, un'esperimento metanarrativo, un meraviglioso viaggio ai confini del tempo.
Nonostante tutte le apparenze portino a catalogare il romanzo come fantasy, Il Libro del Nuovo Sole è fantascienza, straordinaria e piena d'inventiva.
Leggetelo, che al momento in libreria è difficile trovare libri migliori di questo.

26 marzo 2012

Hypernext

Foto di Giorgio Raffaelli
Ultima segnalazione fantascientifica del mese.
In colpevole ritardo segnalo la (ri)nascita di Hypernext, blog di riferimento del movimento connettivista che ha ricominciato a trasmettere con continuità,  proponendo un sacco di contenuti interessanti su fantascienza e dintorni.
Da Philip K. Dick a Anne McCaffrey, dall'arte alla politica, dalla rete al sociale, non c'è ambito che gli amici di Hypernext non affrontino con occhio fantascientifico ma piedi ben piantati nel nostro tempo, in questa realtà.

Leggete e condividetene tutti!


20 marzo 2012

Il futuro è tornato

Foto di Giorgio Raffaelli
Per continuare questo marzo all'insegna della fantascienza vi segnalo Il futuro è tornato, un nuovo progetto che si prefigge di diventare un punto di riferimento per la fantascienza in Italia.
 Qui di seguito copio/incollo il programma di massima della blogzine.
Non fa venire l'acquolina in bocca anche a voi?

Lunedì, la presentazione della settimana e una sorta di editoriale per suggerire dei temi su cui ragionare tutti insieme, sempre a sfondo SF;

Martedì, viene recensito un libro  e questa settimana avremo due diversi punti di vista su un romanzo di Glen Cook, “Passage at arms”, molto interessante;
 

Mercoledì, un’intervista e questa settimana riproponiamo la conversazione che il nostro Nocturniano ha avuto con Dunyach, autore francese di spicco;
 

Giovedì, viene recensito un film, questa volta tocca a “Moon” ovvero al lungometraggio di esordio di Duncan Jones con un Sam Rockwell in grande forma;
 

Venerdì, si torna a parlare di libri ma per tenere d’occhio i titoli in arrivo sul nostro mercato;
 

Sabato, si parla di generi e sottegeneri della SF. Questa settimana parliamo di “planetary romance” grazie al nostro Davide;
 

Domenica, proponiamo una ricognizione sulla SF in televisione sui canali nazionali e proponiamo alla vostra attenzione dei link ad altri progetti in Rete.

Il futuro è tornato è partito questa settimana. In cabina di regia c'è una posse di appassionati cultori del nostro genere preferito.
Gli auguro la migliore delle fortune.

16 marzo 2012

Cyberpunk Redux

foto di Giorgio Raffaelli
Come un reduce da infinite discussioni ritorno, ancora una volta, a parlare di cyberpunk. L'occasione è data da un improvviso ritorno di fiamma di quella critica che tende a ridimensionare una delle pietre angolari su cui si fonda il sottogenere.

Ha cominciato Gianluca Santini con un post di apprezzamento su Neuromante di William Gibson, subito rintuzzato da Davide Mana, da sempre critico nei confronti dell'autore canadese, che ha proposto una lista di letture alternative ai soliti nomi tirati in ballo quando si parla di cyberpunk.

Su Strategie evolutive ho espresso qualche dubbio sulla bontà di alcuni dei titoli elencati e ho rimarcato i meriti di Gibson, ma per mancanza di tempo non sono riuscito ad articolare meglio il mio punto di vista. Ci riprovo ora.

Davide rimprovera due cose a Neuromante: l'essere il discendente brutto e noioso di un sacco di bella letteratura precedente, l'essere stato di moda.
Non posso contestare nessuna delle due affermazioni, la prima, per quando possa non condividerla, è del tutto legittima; la seconda, per quando io gli dia un segno positivo, non posso che riconoscerla come vera.

Quel che posso fare è cercare di riaffermare come mai, a me, Neuromante ha cambiato la vita (si fa per dire) e perché il cyberpunk, lungi dall'essere stato devastante, ha invece salvato la fantascienza.



Si era nella seconda metà degli anni '80. Dopo la scorpacciata adolescenziale avevo praticamente smesso di leggere fantascienza. In quelle storie piene di meraviglie, divertenti e magari pure intellettualmente stimolanti non mi ci trovavo più, o meglio, nelle pagine di quei volumi non riconoscevo il mondo che iniziavo ad esplorare in quegli anni. In Neuromante ho ritrovato, per la prima volta in un romanzo di  genere, le stesse suggestioni che mi regalavano romanzi che con la fantascienza avevano poco a che fare. Il romanzo di Gibson è stato forse il primo libro in cui sono riuscito a scorgere uno sprazzo di futuro che non pareva del tutto ipotetico o letterario, uno dei pochi testi in sintonia con la realtà extraletteraria di quegli anni (per come la percepivo io perlomeno).

Davide ha un bel da citarmi il nugolo di precursori che con tutti i loro meriti hanno spianato la strada al cyberpunk. Nel 1984 nessuno di quegli autori era ancora riuscito a creare quel mix perfetto di atmosfera, scrittura, visione e prospettiva che William Gibson ha messo in piedi nel suo primo romanzo. Prendiamo due nomi su tutti, due autori che ho apprezzato anch'io, uno più, uno meno, nel corso del tempo: Raymond Chandler e John Brunner.

Raymond Chandler è solitamente il primo nome a venir citato parlando di cyberpunk. Atmosfere e personaggi del noir hard-boiled rieccheggiano ripetutamente nelle pagine di Neuromante: il cavaliere con più di una macchia a sporcargli il soprabito ma col cuore immacolato, la fanciulla bella e letale, il potere corrotto e il male diffuso, la strada e la città al centro dell'azione. Appropriarsi di certi stilemi e riproporli in un contesto altro non è certo un crimine, soprattutto se all'adattamento logistico si somma una scrittura che oltre a far risuonare il cuore pulp del romanzo, non disdegna incursioni in territori parecchio diverso, tanto che all'epoca azzardai addirittura accostare la scrittura visionaria di William Gibson alla prosa beat di Jack Kerouac. Con il suo testo sfuggevole e obliquo, con il privilegiare atmosfera e invenzione e sensibilità, anche a dispetto della linearità della trama Neuromante ha dato una bella scossa a una fantascienza che, dal mio angolo di mondo, sembrava attraversare una decisa crisi creativa.

Se William Gibson si deve confrontare con il creatore di Marlowe sul piano stilistico, con John Brunner il confronto avviene sui contenuti.
Un decennio prima di Neuromante l'autore inglese aveva pubblicato The Shockwave Rider (intitolato in italiano Codice 4GH nell'edizione del 1979, Rete globale nel 1996), conquistandosi di diritto un posto nella storia per aver anticipato l'avvento di internet con tutti gli annessi e connessi del caso (connessioni, hacker, virus, etc etc). A prescindere da ogni considerazione sul valore predittivo della letteratura (ma davvero credete che sia compito della fantascienza quello di prevedere il futuro?), a me pare che sia a livello empatico che si notano tutte le differenze tra i due romanzi. Il mondo tratteggiato da Gibson mi appariva vero, vivo e vitale sia dalle prime battute, mentre il panorama di Brunner non riesce mai a sganciarsi dalla pagina scritta e intergrarsi con la realtà che mi circondava. Le problematiche personali e sociali che si agitano tra le righe di Neuromante non hanno un corrispettivo altrettanto credibile e profondo in Rete globale e per quanto l'approccio politico di Brunner sia apprezzabile, non regge in alcun modo il confronto con l'overload sensoriale cui Gibson costringe il lettore.  Neuromante riesce a reinventare il presente narrandone un futuro prossimo possibile, The Shockwave Rider, pur con tutta la buona volontà del suo autore non riesce a esser altro che un buon romanzo di fantascienza.

I motivi per cui Neuromante è diventato una sorta di spartiacque per la fantascienza dello scorso secolo non si limitano alle sue qualità letterarie. Neuromante è diventata la bandiera per tutta una nuova generazione di autori, che ne han fatto il simbolo di un approccio al genere più proletario e tecno-artistico (in teoria!), cercando di ottenere, sotto l'etichetta "cyberpunk", una visibilità che andasse oltre gli angusti corridoi della fantascienza tradizionalmente intesa. Se da un lato è innegabile che un pugno di autori sia riuscito nell'intento e abbia poi continuato a sfornare opere più o meno ricollegabili alle caratteristiche programmatiche del genere, è anche vero che la qualità delle stesse non sia stata, nella maggior parte dei casi, altrettanto memorabile, e che molti autori, nati come cyberpunker, si siano poi progressivamente distaccati da quello che è diventato una sorta di canone per rientrare in un ambito indistinguibile dalla fantascienza più tradizionale. Tanto che, se dovessi nominare oggi qualche titolo imprescindibile per tornare a immergersi nelle atmosfere cyberpunk, quelli che mi paiono tuttora tra i più significativi - penso in particolare a titoli come Snow Crash di Neal Stephenson o Necroville di Ian McDonald - appartengono alla decade successiva al fiorire del sottogenere e affrontano i temi e le situazioni care a Gibson e soci con una consapevolezza e una maturità che non apparteneva agli originali fautori del movimento.

A quasi trent'anni  di distanza da Neuromante non sono molti gli autori cyberpunk rimasti impressi nella memoria. Oltre a William Gibson e Bruce Sterling (di cui ho comunque apprezzato molto più i racconti dei romanzi), rimangono i nomi di Rudy Rucker e Pat Cadigan (anche se di quest'ultima non sono ancora riuscito a leggere alcun romanzo, i racconti letti mi son sembrati tutti decisamente sopra la media), mentre altri autori arrivati alla fama in quegli anni hanno abbandonato - se mai ne hanno fatto davvero parte - quel genere di fantascienza (penso a Lewis Shiner o a Lucius Shepard), hanno perso nel tempo parecchio del loro fascino (un nome su tutti penso possa essere quello di John Shirley) o hanno fatto perdere le loro tracce letterarie (Marc Laidlaw scrive per i giochi, Tom Maddox inegna).
Dalle ceneri del cyberpunk non sono emersi solo autori di genere, Ci sono due grandissimi scrittori, ormai del tutto avulsi da ogni connotazione di genere, che partendo da un substrato cyberpunk sono riusciti a produrre grande letteratura andando oltre ogni etichetta. Mi riferisco a Jonathan Lethem e Murakami Haruki: il cyberpunk non poteva lasciare eredità migliore.

13 marzo 2012

Anarres

Esco dal letargo (ma il pezzo promesso sul cyberpunk sta arrivando…) per segnalare la nascita di Anarres, rivista di studi critici sulla fantascienza.

Della mancanza in Italia di una critica al contempo approfondita e fruibile al pubblico della rete se n'era parlato anche qui dentro qualche tempo fa. Credo che la nascita di questo nuovo soggetto  non possa che far bene alla fantascienza tutta.
L'approccio di Anarres è quello scientifico-accademico, con lo sguardo, almeno in questi primo numero,  rivolto alla storia del genere piuttosto che ai suoi sviluppi più recenti.
Ma non manca - lo segnalo soprattutto a Davide Mana, che so esserne un grande estimatore - un corposo contributo sulla trilogia marziana di Kim Stanley Robinson.

Allo staff di Anarres vanno i miei migliori auguri di lunga vita e prosperità.