27 marzo 2019

Letture: La festa nera, di Violetta Bellocchio


Terza parte del discorso sugli strani incroci tra letteratura di genere, fantascientifica in particolare, e mainstream nell’editoria nostrana. Ecco qualche nota su La festa nera, di Violetta Bellocchio.

Se Un attimo prima era indubbiamente fantascientifico e Un marito lo era solo tra le righe, La festa nera, di Violetta Bellocchio si colloca  piuttosto ai margini di quella che è la mia personale idea di “fantascienza”.
L’affermazione può forse apparire paradossale, dopotutto lo scenario in cui si muovono i protagonisti del romanzo è indubbiamente distopico, e la distopia è fantascienza. 
Ma se affrontiamo il testo di Bellocchio, ci rendiamo presto conto che lo scenario è puro palcoscenico, non ha sostanza e ha l’unica funzione di riverberare le vicende personali dei tre personaggi che vi si trovano immersi.

Facciamo un passo indietro con un accenno minimo alla trama: in un’Italia devastata da una crisi di sistema, una troupe di videomaker parte per un viaggio da Genova a Milano per visitare una serie di comunità che promettono rifugio e sopravvivenza a chi si adegua alle precipue regole con cui vengono gestite. Per i tre protagonisti questo reportage è l’unica possibilità di rifarsi un nome e una carriera dopo essere precipitati nel fango a causa di eventi che si scopriranno nel corso della lettura.

La cosa migliore de La festa nera è la voce che Bellocchio sceglie per narrare la vicenda:  Ali, la tecnica che accompagna Nicola, il regista-produttore, e Misha, la star del programma, è perfetta nel suo ruolo esterno-interno alla troupe (è molto più giovane degli altri, per quanto ferita non lo è quanto i due con cui lavora, ha un vissuto ben presente ma mai troppo ingombrante, è sufficientemente distante dagli avvenimenti, ma comunque sempre ricettiva e consapevole, ed è stanca e arrabbiata).

Ma se la voce di Ali è potente, ipnotica, meravigliosa, la visione che offre del contesto è terrificante nella sua inumanità: non c’è mai empatia nel confronto con gli altri, non c’è emozione diversa dal disprezzo, dalla rabbia o dalla rara tenerezza, che magari vira in pietà, ma mai mai mai in compassione. E la progressione del viaggio, gli incontri nelle comunità con tizi e tizie più o meno disperati, non racconta mai una realtà diversa da quella personale in cui è immersa la troupe e da cui i tre protagonisti non riescono mai a uscire. Tanto che, quando arriva la rivelazione dei motivi della loro situazione, non puoi fare a meno di chiederti se la tempesta di merda che li ha travolti non sia altro che il lato sbagliato della stessa moneta falsa con cui si son guadagnati da vivere fino a quel momento.

Da quel momento in poi - peraltro ottimamente reso e raccontato, vero e doloroso e intimo come deve essere - smetti di chiederti (come non hanno mai fatto i protagonisti del romanzo) se il mondo è davvero andato in rovina, e perché sia successo. A quel punto la narrazione del mondo là fuori diventa del tutto accessoria. L’unica cosa che conta è risalire la china, rifarsi una verginità, o almeno rimuovere quel che è successo. In fondo ad Ali, Misha e Nicola del mondo non importa poi molto, è il senso della loro esistenza l’unica cosa importante, l'unico enigma da risolvere.

E per me, lettore di fantascienza, inteso nel senso di lettore alla ricerca di nuove coordinate e punti di vista su un mondo che cambia, questa rimozione del rapporto di vicendevole scambio con la realtà è il limite de La festa nera. Arrivato a fine lettura non posso fare a meno di chiedermi quanto interessante possa essere indagare il disagio personale se non lo si mette a confronto con il disastro sociale, con l’apocalisse in fieri in cui siamo immersi. Ma forse per confrontarsi con il vuoto che ci circonda serve soprattutto umanità, che è l’unico dettaglio necessario che manca nel romanzo di Violetta Bellocchio.

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