04 novembre 2011

Storia e storie

Nell'attesa di trovare un po' di tempo libero per organizzare qualche post come si deve, ecco un brano di Neal Stepehenson che trovo stimolante per più di un motivo.
Buona lettura:

"[…] Migliaia di anni prima il lavoro era stato parcellizzato in compiti sempre uguali, in organizzazioni in cui le persone erano parti intercambiabili. Doveva essere così: era la base di un'economia produttiva. Ma era facile individuare una volontà all'opera dietro tutto questo: non esattamente una volontà maligna, ma di certo egoista. Chi aveva creato il sistema era geloso, non dei soldi e non del potere, ma delle storie. Se i dipendenti rientravano a casa alla fine della giornata con storie interessanti da raccontare, significava che qualcosa non aveva funzionato: un blackout, uno sciopero, una strage. Le Autorità Costituite non tolleravano che altri comparissero in storie personali, a meno che non si trattasse di storie false inventate per motivarli. Chi non riusciva a vivere senza storie era finito nei concenti o faceva lavori come quello di Yul. Tutti gli altri dovevano cercare qualcosa al di fuori del lavoro per sentirsi parte di una storia, e immaginai che fosse quello il motivo per cui i secolari erano così assorbiti dallo sport e dalla religione. Altrimenti come avrebbero potuto sentirsi parte di un'avventura? Qualcosa con un inizio, uno svolgimento e una fine, in cui giocare un ruolo importante? Noi avout avevamo l'avventura già pronta per noi, perché nei concenti si fa parte del progetto di imparare cose nuove. […]"
(Neal Stepehenson, Anathem - Il Pellegrino, pag. 437)

5 commenti:

  1. Mah. Mi sembra una situazione drammaticamente attuale. proviamo a chiedere alle centinaia di migliaia di operai ed impiegati che sensazioni provano al ritorno dal lavoro e poi ne riparliamo.;)

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  2. Questo pezzo mi ha dato da pensare per un insieme di cose difficili da distinguere tanto sono intrecciate le une con le altre. La prima considerazione è che nonostante il brano non sia stilisticamente proprio "bello" (non so se per demerito dell'autore o del traduttore) mi ha colpito per come da per scontata quella che per me è un'idea molto affascinante, ovvero l'importanza delle storie che ci raccontiamo nella costruzione dell'idea che abbiamo di noi stessi.

    Mi piace poi per la sua semplicità, ma al contempo mi lascia un po' perplesso per l'eccessivo schematismo, la descrizione che Stephenson fa dei meccanismi che separano Potere e cittadini.
    Non sono mica sicuro di condividere in toto quel che Stephenson fa pensare al suo protagonista. Dopotutto, oltre allo sport e alla religione, anche tutto l'intrattenimento mediatico è teso allo stesso risultato. Così come dall'altra parte mi pare venga sottovalutato il ruolo del Potere nella creazione e nella diffusione delle narrazioni sportive e religiose (per rimanere legato al testo) che influenzano i cittadini.
    Però questo estratto è anche un buon esempio della densità e della complessità dei temi affrontati dall'autore in Anathem e visto che non credo riuscirò a parlare più compiutamente del romanzo ancora per parecchio tempo, mi piaceva condividere almeno qualche spunto di riflessione.

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  3. "Noi siamo ciò che ci raccontiamo"... affascinante, si.
    Nel romanzo la cosa ancora più sorprendente, a mio iper-modestissimo parere, è che questo "Potere secolare" è sempre in secondo piano e Stephenson lo descrive (poco, comunque) come qualcosa di estremamente lontano dal cittadino. Forse è questa la chiave di lettura: i cittadini, nonostante tutto, hanno il potere di scegliere tra la falsità del potere o la conoscenza dei concenti.

    Mi sa che questa è la vera fantascienza... ;)

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  4. Ciao, mi viene da riflettere su questa frase:
    "Se i dipendenti rientravano a casa alla fine della giornata con storie interessanti da raccontare, significava che qualcosa non aveva funzionato: un blackout, uno sciopero, una strage."
    Se pensiamo allo spazio mediatico di cui gode oggi la tv del dolore, con la sua pornografia dei sentimenti (veri o falsi che siano), viene da pensare che la vera distrazione di massa funzioni proprio per questo...perché tutti hanno storie da raccontare, non necessariamente vere e non necessariamente le proprie.
    Ma tutte danno una colorazione di sostanza e di realtà. Tutte queste storie creano l'illusione dei buoni sentimenti in un mondo generalmente egoista e competitivo, un po' come quando viene simulato il sapore di vera frutta in bibite che vengono fatte esclusivamente di acqua, zucchero e aromi. Alla fine ci si abitua talmente tanto a questo sapore da credere che siano genuine.
    Queste storie sono un inganno dei sensi, e chi si rifiuta di farsi ingannare ne paga le conseguenze come minimo con tanta tanta fatica in più per rimanere consapevole.
    Ciao.

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  5. @ Eddy: sono all'inizio del secondo volume, quindi prendi questo mio commento con le molle.
    A me pare che la differenza sostanziale tra secolari e avout stia nelle regole (intese come convenzioni) che seguono. I rispettivi rapporti con le gerarchie del potere sono i medesimi.
    Del resto Stephenson è un americano della stirpe degli Heinlein, sul tema "politica" non va giù troppo fine, è molto meglio nelle trattazioni scientifico/filosofiche.

    @ mitvisier: non so se "tutti hanno storie da raccontare", ma sono abbastanza convinto che tutti abbiamo bisogno di storie per raccontarci la realtà, e in mancanza d'altro (di consapevolezza, di curiosità, ma a volte - purtroppo - anche di tempo ) siamo pronti ad affidarci ai narratori più mediocri…

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