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© giorgio raffaelli |
L'assenza più evidente - il volumetto risale agli anni '80 dello scorso secolo - è la mancanza di qualsiasi considerazione sull'evoluzione digitale della fotografia, sul cambiamento nell'uso e nella distribuzione delle immagini, sull'accesso globale a strumenti di elaborazione che hanno eroso poco a poco la visione della fotografia come riproduzione oggettiva della realtà. Se quest'aspetto potrebbe aver fatto invecchiare anzitempo La camera chiara, ciò non avviene perché buona parte delle note sulla fotografia del pensatore francese si riferiscono alla modalità di percezione della foto, alla possibilità insita nel medium di veicolare messaggi personali e interpretazioni generali, al suo ruolo sociale e al riflesso individuale della sua fruizione, tutti aspetti del rapporto tra fotografia e individuo e società ancora attuali e stimolanti.
Quel che secondo me manca nelle note di Roland Barthes è il passaggio successivo nella riflessione sull'ìnterazione tra osservatore, fotografia, fotografo, che nel testo è sì fondamentale, ma che rimane ferma alla sua dimensione statica, istantanea. Ne La camera chiara non si fa alcun cenno a quel che a me pare uno dei fattori fondamentali nel rapporto tra osservatore e fotografia, ovvero le potenzialità narrative che caratterizza l'immagine fotografica, capace di evocare storie e stimolare l'immaginazione, proprio a causa del suo essere focalizzata su aspetti sempre parziali, e dunque inevitabilmente soggettivi, della realtà. Perché se è vero - come dice Barthes - che le immagini bloccate dallo scatto fotografico sono riflessi di morte, e i soggetti fotografati sono destinati a diventare fantasmi del passato, è anche vero che l'atto di osservare riporta in vita e rigenera quell'istante e offre a chi guarda la fotografia una possibilità di invenzione che nessun altro media è capace di offrire in modo così istantaneo. Non succede sempre, ma quando capita è un bel momento.
A me pare che in nessun altro tipo di rappresentazione del reale il potere catalizzatore dell'oggetto osservato sia così evidente come quando si osserva una fotografia (l'unico altro medium che si avvicina a ottenere gli stessi risultati è il cinema). Un'immagine fotografata è (quasi) incapace di comunicare all'osservatore altro da quel che quest'ultimo trasmette all'immagine stessa, in un circuito di feedback - positivo o negativo che sia - che è tanto potente quanto elementare. Non se se Roland Barthes sarebbe d'accordo con questo punto di vista, ma mi pare che nell'impossibilità di definire un canone estetico univoco che riguardi tutta l'arte fotografica ci sia più di un legame con la sua eccessiva immediatezza e popolarità, intesa come accessibilità generalizzata al mezzo e ai suoi risultati: oggi siamo tutti fotografi.
Ma se siamo tutti fotografi, allora la fotografia si riduce al riflesso morto di una realtà disfatta, che preferiamo osservare, condividere e ricordare con il filtro di una macchina fotografica davanti agli occhi, piuttosto che viverla e quindi modificarla in prima persona. Immagini forti per retorica spicciola, ma comode per concludere queste note su La camera chiara e tornare in maniera circolare a Roland Barthes che riflette, lui ormai anziano, sull'immagine della madre giovane, paradossalmente sconosciuta nella foto scattata prima della nascita dell'autore. Un momento commovente, in un testo peraltro piuttosto complesso, ma anche istante rivelatore, in cui si giunge a chiedersi quanto in quelle vecchie stampe sia davvero reale, quanto sia immaginazione, quanto ricordo. Con il Tempo, e la Storia, a separarci dal momento indimenticabile dello scatto.
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