29 agosto 2013

Berlino: i ragazzi, il viaggio, la città

© giorgio raffaelli
Per esercitare la difficile arte del compromesso non c'è nulla di meglio di un bel viaggio con i figli. Quest'anno, per la prima volta, abbiamo deciso di trascorrere le nostre vacanze in una grande città. Niente campagna, agriturismi o campeggi sui monti, ma Berlino prima e Praga poi.
Il compromesso tra quello che vorresti fare tu e quello che non vogliono fare loro lo dai per scontato ancor prima di partire. Ma i dubbi e le discussioni che accompagnano ogni scelta, seppur forieri di frustrazioni varie, possono rappresentare anche uno stimolo a interrogarsi su cosa rappresenti l'esperienza del viaggio, più ancora che quella di una vacanza, per te e per le persone che ti circondano.

Perché andare a Berlino? Per noi che abitiamo in provincia, e che ci sentiamo dei campagnoli anche quando passiamo per Milano, la risposta è facile. Tra le città che ci possiamo permettere di visitare, Berlino rappresenta la meta più distante dalla nostra esperienza urbana quotidiana. Una metropoli senza un centro storico, ma che trasuda storia da ogni angolo, una città in perenne mutazione, in cui i cantieri si contendono lo spazio con strade e palazzi, uno dei pochi luoghi europei teso verso il futuro piuttosto che fermo a rimuginare, a riciclare, a celebrare il proprio passato (anche perché, diciamocelo, non è che ci sia poi molto di cui gloriarsi nella storia recente di Berlino).
E poi ci sono i motivi personali, che nessun posto è cambiato tanto negli ultimi 25 anni come la capitale tedesca, e confrontare l'esperienza del viaggio fatto nel 1987 con l'impatto odierno della città sul visitatore è davvero stupefacente.

Alla ricerca di qualche coordinata che potesse aiutare ad orientarci nel nostro vagabondare per la città, il Muro è stata la prima tappa, Alexander Platz la seconda, il Pergamon Museum la terza. E poi Kreuzberg, che forse è il luogo rimasto più simile a sé stesso tra quelli che ricordavo.

© giorgio raffaelli
Il Muro, presente come traccia sospesa in tutto la città, l'abbiamo visitato nel tratto conservato e illustrato della East Side Gallery. Il Muro trasformato in supporto per espressione politica e artistica (non che non lo fosse prima, ma era anche ben altro) perde la sua essenza angosciosa e futile, ma rimane pur sempre un importante memento della storia recente della città. (L'aspetto minaccioso del Muro lo si percepisce comunque sul'altro lato della passeggiata, con un esposizione di gigantografie che tracciano la mappa dei muri ancora presenti ai quattro angoli del mondo ed è visione significativa e terrificante).
Alexander Platz è un cantiere e un mercato, con la Fernsehturm a fare da perno e da bussola nel carosello umano in perenne rotazione tra giardini e treni e negozi. Nel mio ricordo Alexander Platz era un luogo freddo, spazzato dal vento, deserto, esempio perfetto del trionfo effimero del socialismo reale. Ora s'è trasformata nel suo esatto opposto: un non luogo frequentato da turisti e clienti, con le bancarelle del solito mercato pseudoalternativo al centro di un quadrilatero dominato da palazzi convertiti in centri commerciali, la fila per salire in cima alla torre e la stazione della metropolitana a dividere come un solco i due lati della stessa medaglia.
La visita al Pergamon Museum, praticamente un dovere per tutti i turisti in città, s'è risolta senza troppe conseguenze familiari, che nonostante i figli abbiano dimostrato un'immediata insofferenza per 'sti vecchi sassi, qualcosa li deve aver comunque colpiti (le miniature e i volumi della collezione islamica, da quel che ho capito). Da parte mia dovevo andare in questo museo, che all'epoca della mia prima visita mi colpì tantissimo (il confronto con la realtà fuori museo era straniante). Soprattutto dovevo verificare dove fosse collocato, che per qualche strano scherzo della memoria mi pareva fosse in tutt'altra parte della città.

Una volta stabilito un minimo di punti di riferimento, girare Berlino diventa piuttosto semplice nonostante le dimensioni della città. Non che noi si sia diventati particolarmente esperti, più che altro ti rendi conto che in cinque giorni hai appena scalfito la superficie di quel che la città è in grado di offrire al visitatore. Siamo usciti poco fuori dal quartiere centrale, giusto la passeggiata esplorativa a Kreuzberg, con la scoperta di qualche ricordo che credevo scomparso, un assaggio di cucina turca e la constatazione che dalla prima visita - nel 1987 eravamo ospiti di un indigeno del posto -  il quartiere è rimasto apparentemente uguale, magari solo un po' più benestante.
Per il resto siamo rimasti impressionati dalla Hauptbahnhof, abbiamo apprezzato il museo d'arte contemporanea e il silenzio del labirinto di cemento del memoriale dell'olocausto. Siamo rimasti stupefatti dalla quantità di cibo reperibile lungo la via, dal senso di tolleranza e possibilità che si respira per strada, dalle facce mediamente contente delle persone e dal fatto che, nonostante la quantità di turisti presenti, questi non spiccassero - almeno non tutti - come mosche bianche nel corpo della città.

Nonostante le discussioni, credo che anche i figli abbiano apprezzato Berlino. Dopotutto ci han trovato molte cose con cui hanno una qualche dimestichezza, se non di prima mano almeno per sentito dire, che la città è piena di segni che rimandano a quelle culture di strada che sono ormai tra i loro riferimenti principi (penso a hip-hop e grafittari, ma anche a fast food e tizi strani).

© giorgio raffaelli
In effetti credo che l'assenza di punti di riferimento culturali, se non propriamente fisici, sia l'aspetto che rende più difficile la visita di una città straniera con i figli al seguito. Per loro Berlino non significa niente, e l'approccio che abbiamo comunemente io e Annalisa al cospetto di un luogo sconosciuto, che consiste nel perdersi, e girare quasi a caso, toccando magari i siti turistici istituzionali, che è quasi doveroso visitare in caso di vacanza, ma privilegiando gli aspetti più quotidiani e quindi più lontani dall'esperienza del visitatore straniero, metta decisamente in difficoltà chi invece è alla disperata ricerca di conferme e di segni riconoscibili. Paradossalmente la presenza dei graffiti che colorano/sporcano/adornano ogni angolo libero della città è stata forse la nostra salvezza (insieme alle visite ai centri commerciali di turno) nel rapporto tra noi genitori, i figli, e la città.
La bellezza di palazzi e musei aiuta, ma ai pargoli non basta, che per crearsi una propria narrazione della visita, che è la maniera più immediata per riconciliarsi con il viaggio, servono parole, segni, panorami che possano essere ricondotti alla propria esperienza, e che esperienza vuoi che abbiano due ragazzi di 12 e 15 anni?

A riprova di questo aspetto della vacanza ecco la nostra tappa praghese, che i figli hanno detestato dal primo all'ultimo minuto, proprio per l'assenza totale di agganci alla loro realtà e alla contemporanea sovrabbondante presenza di turisti che, al contrario di quel che accade a Berlino, rimangono un variopinto e rumoroso corpo estraneo nel contesto della città. A Praga non siamo riusciti a trovare nulla capace di attrarre l'attenzione della figliolanza, e l'unico approccio per smuoverli è stato sottolineare il confronto tra le realtà differenti da cui proveniamo, tra il nostro modo di intendere l'esplorazione della città e quello dei turisti che ci circondavano. Un po' poco per lasciare un gran ricordo della visita, ma forse l'unico in grado di piantare qualche piccolo seme di dubbio e curiosità. Sperando che cresca nel tempo.

09 agosto 2013

Back to Berlin

© giorgio raffaelli

Anche pe quest'anno si parte. Stavolta la nostra destinazione sarà Berlino.
Se penso a tutte le foto della città viste negli ultimi anni grazie ai contatti di flickr, mi pare quasi di conoscerla già. E dire che a Berlino ci sono pure stato, ma è stato una vita fa, in un altro mondo.

Era l'inverno del 1987 e fu un viaggio molto istruttivo fin dall'inizio, con l'interminabile tragitto notturno lungo le autostrade della DDR, con multa obbligatoria a interrompere la monotonia del cemento sotto le ruote. E poi Kreuzberg, dove eravamo ospiti di uno dei pochi tedeschi che allora ci vivevano. E naturalmente il Muro.

© giorgio raffaelli
Ma i ricordi più profondi riguardano quella giornata trascorsa dall'altra parte del muro, passata dalla magnificenza del Pergamon Museum e dalla grandeur triste di Alexander Platz (e il pranzo al ristorante del Rotes Rathaus, uno dei migliori della mia vita, pagato un niente) fino a quel giro in periferia, consigliatoci sottovoce da un residente, partito con la metropolitana - meravigliosa, tutta legno e luci soffuse - e finito tra palazzoni con ancora ben visibili i segni della guerra, con i negozi vuoti e la gente grigia. E noi a guardarci intorno, un po' vergognosi per il nostro turismo in quello squallore, con quel sacco di patate comprato per dovere, che ci siam trascinati oltre checkpoint Charlie, che non abbiamo avuto idee migliori.

© giorgio raffaelli
Ma di quel viaggio ricordo anche i parchi e la campagna che circondava la città (e il Muro sempre all'orizzonte), il freddo fuori e il calore di tutti i centri sociali visitati giusto per un pranzo, una birra o un caffé.
Gli amici che mi accomagnavano li ho persi di vista, ma le serate passate a discutere, la disponibilità dei nostri ospiti e quella cena a base di polenta e ragù, sono ancora tra quei momenti cui torno sempre ben volentieri guardando indietro a quegli anni.

La Berlino che ci aspetta sarà una sorpresa: lei è un'altra città, io sono un'altra persona.
La curiosità è tanta. Ci si sente al ritorno.

07 agosto 2013

Letture: Rugby quantistico, di Jonny Wilkinson, Étienne Klein & Jean Iliopoulus

"Per tutta la vita sono stato ossessionato dall’idea di raggiungere la perfezione e sono rimasto deluso. Finché un giorno mi sono messo alla ricerca di un altro modo per arrivare a un’altra percezione del mondo e del mio lavoro. Prima di tutto mi sono rivolto al buddismo (…). E poco dopo ho scoperto che c’erano legami tra il mio lavoro e la fisica quantistica."

© giorgio raffaelli
 
Rugby quantistico è la trascrizione di una conversazione pubblica tra due fisici quantistici, Étienne Klein e Jean Iliopoulus, con il rugbista Jonny Wilkinson, campione inglese in forza da qualche anno alla squadra di Tolone.

Per chi frequenta il mondo della palla ovale l'uomo non ha bisogno di presentazioni. Per tutti gli altri basti sapere che l'apertura inglese è il giocatore europeo che ha marcato più punti nella storia di questo sport, che ha all'attivo innumerevoli titoli nazionali e internazionali, che ha fatto vincere all'Inghilterra il suo unico mondiale all'ultimo secondo, in Australia, contro la nazionale locale. Ma  la fama e il rispetto di cui Jonny Wilkinson gode tra gli appassionati va ben oltre i successi sportivi raggiunti nella sua più che decennale carriera. Si basa piuttosto sul suo impegno, sul suo rigore e sul suo entusiasmo. Jonny Wilkinson è quello che arriva per primo agli allenamenti e se ne va per ultimo, quello che non importa se si gioca per il campionato del mondo o contro l'ultima in classifica, l'importante è metterci tutto quello che hai, sempre.

Queste caratteristiche emergono prepotenti nel libretto in questione. Rugby quantistico racconta l'ossessione per la perfezione di un uomo e le sue strategie di sopravvivenza - e la fisica quantistica, insieme al buddismo, fa la sua parte - per trovare le giuste motivazioni e rimanere ai massimi livelli della sua professione nonostante  i successi, gli infortuni e gli inevitabili errori.

Seppur focalizzato sul racconto dell'approccio di Wilkinson alla sua attività sportiva, Rugby quantistico è una lettura sorprendente per il rapporto che non ti aspetti tra due mondi apparentemente agli antipodi. Leggere l'evidente curiosità degli scienziati per una materia affascinante ma sconosciuta come il rugby, la disponibilità e l'umiltà di Wilkinson a raccontarsi, lo sforzo di rendere comprensibili concetti complessi come quelli che sottendono la ricerca scientifica in un settore come la fisica quantistica che non brilla certo per immediatezza e comprensibilità: in questo incontro rugby e scienza fanno entrambi una gran bella figura.  

Per concludere questo post in bellezza uno speciale dedicato a Jonny Wilkinson (è in francese, non si può avere tutto…).

05 agosto 2013

Letture: Gibuti, di Elmore Leonard

© giorgio raffaelli

C'è questa questa documentarista d'assalto che decide di fare un giro a Gibuti col suo socio vecchio, grosso e nero. Non ha le idee molto chiare, ma di sicuro vuol riprendere e raccontare la pirateria del Corno d'Africa. Non ci mette molto a incappare in pirati di successo e trafficanti d'armi. Del resto a Gibuti gira un sacco di gente interessante, tra ricchi turisti americani, le loro amichette, spie e militari, terroristi in libera uscita e minacce globali. Tutti in perenne movimento tra ville principesche e la varia umanità della città, su un sacco di toyota (bianche o nere), navi da trasporto e d'assalto e barche a vela, alle prese con sparatorie e inseguimenti.
Gli ingredienti di Gibuti son tutti qui. Mescolate - senza shakerare, potrebbe esplodere - e servite freddo. Buon divertimento.

Peggio di così 'sto romanzo di Elmore Leonard non potrebbe partire. I primi capitoli di Gibuti sono pressoché incomprensibili e non so se la responsabilità del disastro siano dell'autore o del solitamente ineccepibile Luca Conti, che si è occupato della traduzione del volume. Se non fosse stato per il nome in copertina avrei mollato la lettura, ma Leonard è Leonard, e una possibilità in più gliela si concede volentieri.

In effetti superato lo scoglio iniziale Gibuti scorre che è una meraviglia. Personaggi furbi e azzeccati, per quanto sopra le righe, plot avvincente e buon ritratto d'ambiente confluiscono in una storia il cui miglior pregio sta probabilmente nell'insolito montaggio della vicenda che combina abilmente flashback, cronaca in tempo reale, scorci di avvenimenti a venire e punti di vista alternati. L'impressione è di trovarsi alle prese con la sceneggiatura romanzata di un film d'azione. Un'opera in cui realismo e credibilità di personaggi e situazioni diventano concetti malleabili, tesi più alla soddisfazione dello spettatore, ops… lettore, che non a offrire un ritratto veritiero o - sia mai! - a indurre qualche riflessione sulla realtà socio-politica del Corno d'Africa.
La lettura di Gibuti non è certo un'esperienza memorabile, ma se ci si limita alle sue qualità di buon intrattenimento non si rimane delusi.

(A chi fosse interessato alla percezione che si ha negli Stati Uniti della situazione particolare di quel pezzo di mondo, consiglio di leggere Pirati della costa somala contenuto in Vennero dal futuro, recente Millemondi dedicato al meglio della produzione fantascientifica del 2007. Ambientato nello stesso contesto, e per certi versi complementare a Gibuti, il racconto di Terry Bisson offre uno scorcio piuttosto interessante sul confronto tra realtà e spettacolo e natura umana ai tempi della pirateria nel terzo millennio.)

01 agosto 2013

Visioni: 7 psicopatici

 Marty: Friends don't make their friends die Hans.
Hans: Psychopathic friends do. You're the one thought psychopaths were so interesting, but they're kinda tiresome after awhile don't you think?








Spacciato come l'ennesimo clone post-tarantiniano (avete presente quel calibrato mix di violenza, innocua ironia, dialoghi forsennati e personaggi eccessivi? Roba che di solito esplode in mano a chi è convinto che la formula sia sufficiente a creare il blockbuster del caso), 7 psicopatici, scritto e diretto da Martin McDonagh, è invece un ambizioso quanto riuscito pezzo di equilibrismo cinematografico.

7 psicopatici è un film cannibale e spericolato, in cui ogni scena tenta di sabotare quella immediatamente precedente. Nella costruzione complessa deIla storia, nell'accumularsi sfrenato di temi e personaggi e storie è evidente il tentativo di distruggere consapevolmente le aspettative dello spettatore, offrendogli un'alternativa solitamente più beffarda, intelligente, e spiazzante del cliché messo in scena. Un lavoro simile rischia ad ogni passo di collassare sotto il peso delle sue stesse ambizioni. E invece 7 psicopatici tiene botta in maniera brillante fino alla conclusione, grazie alla prestazione entusiasmante di tutto il cast, al controllo ferreo dei tempi e degli spazi e, soprattutto, alla leggerezza dell'impianto, che sfrutta le caratteristiche ormai canoniche del genere per portare lo spettatore in territori solitamente poco battuti da queste operazioni.
Ed è notevole come Martin McDonagh sfugga alle trappole parodistiche in cui la messa in scena di 7 psicopatici rischia di cadere ad ogni passo, eviti ogni deriva citazionista - che ormai, oh… che palle! -  giochi con il livello metacinematografico della pellicola in maniera seria ma controllata, senza mai travolgere il nucleo narrativo della vicenda.

Avevo già apprezzato il lavoro che McDonagh aveva fatto per destrutturare il genere dall'interno con quel piccolo gioiello di In Bruges. 7 psicopatici alza ulteriormente l'asticella per chi volesse ancora riproporre la solita miscela di violenza scanzonata (see…) e demenza seriale. E se è vero che operazioni come questa rischiano la schizofrenia narrativa e la dispersione in mille rivoli del cumulo di suggestioni che si accalcano e si sovrappongono alla disperata di ricerca di un po' d'attenzione, è anche vero che il percorso scelto dall'autore è forse l'unico che offra una via d'uscita dalle secche citazionistico-derivative in cui è sprofondato il cinema in questi decenni. Con il rischio di cadere ad ogni ulteriore passo lungo il filo sottile teso tra le sabbie mobili dell'autorialità masturbatoria e la rassicurante certezza del già visto e sentito. Ma con la possibilità di assistere, lungo il percorso, a qualche altro salto mortale, e rimanere col fiato sospeso sperando che l'acrobata non finisca spappolato al suolo.

Non so quale sarà il prossimo progetto di Martin McDonagh, ma mi metto in fila, in paziente attesa, che mi piace come 'sto tizio vede le cose.