27 aprile 2011

Tre su tre

E così, dopo River of Gods e Brazyl, Ian McDonald ha vinto ancora, per la terza volta di fila, il BSFA Award, vale a dire il principale premio della fantascienza britannica.

Io sto leggendo The Dervish House in questi giorni ed è, tanto per cambiare, un altro magnifico romanzo.
Ian McDonald ha un tocco straordinario nella creazione e nella descrizione dei luoghi e dei personaggi che mette in scena.
La Istanbul che emerge dalle sue pagine è più vera del vero e conferma la maestria dell'autore britannico nel confezionare storie che traggono la loro forza dall'incontro tra una formidabile visione fantascientifica e l'immersione totale nell'atmosfera locale, con un'attenzione al dettaglio e al contesto socio-politico che circonda gli attori della vicenda unica nel suo genere.

Ma ne riparliamo a fine lettura.
Nel frattempo, complimenti a Ian McDonald!

18 aprile 2011

L'uomo fiammifero


Incuriosito da questo post del Grande Marziano sabato ho riunito la famiglia e ci siamo visti L'uomo fiammifero.

Il film di Marco Chiarini è un piccolo gioiello che riporta a casa tutte le suggestioni dell'infanzia come da tempo il grande cinema fatica a fare con tale forza e intensità. Partendo da un contesto locale (la campagna abruzzese, i primi anni '80) L'uomo fiammifero scardina ben presto ogni gabbia che possa limitarne suggestioni e attrattive con una storia che in pochi attimi diventa universale.
Se gli adulti apprezzeranno la ricostruzione d'ambiente e la messa in scena, i più giovani rimarranno affascinati da una storia che ripropone in tutta la sua forza liberatoria le fantasie dell'infanzia, donandogli corpo e sostanza. Non è un caso se il film è piaciuto molto più a Jacopo, che ha dieci anni, che non a Francesco, che di anni ne ha tredici.

Alla base de L'uomo fiammifero c'è un'idea che è un classico e che miscela temi fondamentali della narrativa per ragazzi: la fine dell'infanzia, l'elaborazione del lutto, la scoperta del mondo fuori. Quel che colpisce e attrae è la scelta di portare in primo piano l'immaginazione libera e inconsapevolmente infelice del giovane protagonista della storia, rendendo vive le sue creazioni, che si tratti di amici immaginari, di quaderni fitti di oggetti, di mappe e ricordi. Simone, undicenne solo e solitario, reagisce nell'unico modo possibile al Problema della sua vita: inventando e raccontando, scappando ed esplorando.
L'uomo fiammifero è una pellicola che parte dalla provincia (in tutti i sensi) ma racconta una storia universale, lasciando all'infanzia il compito di raccontare se stessa: il giovane Simone è il motore narrante della vicenda, gli adulti son tutti accidenti di percorso (ì'unico altro esempio cinematografico recente, altrettanto forte e riuscito, seppur diverso per storia e sviluppo, è forse Nel paese delle creature selvagge).

Il cinema di questi ultimi anni c'ha abituato a considerare il pubblico giovane come ricettacolo di comicità e prodotti, come la fascia di audience più facilmente aggredibile con strategie di marketing che si muovono tra l'agghiacciante e il patetico. L'uomo fiammifero riporta un po' di rispetto e sincerità sulla scena, senza trattare gli spettatori come dei decerebrati (che siano bambini o adulti poco importa), invitandoli a partecipare e a sviluppare tutto quel che di non detto (e di non visto) capita sullo schermo, proponendo una storia che non è mai accondiscendente o accomodante, che si muove per territori fantastici mai fini a se stessi, che propone argomenti importanti con una leggerezza inusuale.

L'uomo fiammifero è anche un piccolo miracolo produttivo. È un esempio di quel che passione e volontà possono fare se accompagnati da dedizione e talento. L'uomo fiammifero è un film autoprodotto, realizzato in economia, che vive grazie all'interpretazione degli attori (i ragazzi fanno quel che possono, ma Francesco Pannofino è davvero spettacolare) e che deve moltissimo del suo fascino alle innumerevoli soluzioni tecniche che sopperiscono con grande inventiva ai limiti di budget. Ormai quando si parla di film fantastici siamo abituati ad attenderci CGI e meraviglia. L'uomo fiammifero non fa rimpiangere nemmeno per un attimo gli effetti speciali dei blockbuster hollywoodiani, con un approccio che ribalta il tavolo della creatività, rendendo credibile e tecnicamente memorabile ogni intervento (e sono centinaia) di post-produzione.
L'unico difetto percepibile durante la visione è il doppiaggio dei dialoghi, scelta che produce risultati non sempre all'altezza (specie nella seconda metà della pellicola, le parole messe in bocca ai giovani protagonisti soffrono di fastidiosi fuori sincrono), ma per il resto ogni altro aspetto è curatissimo: dalla colonna sonora sempre coerente, precisa ed evocativa, al montaggio che accompagna la storia in modo fluido e mai didascalico, dalla fotografia che si esalta nella campagna assolata e diventa intima ed emozionante negli interni, alla fedeltà delle ricostruzioni ambientali che riportano d'un fiato tutti gli spettatori intorno ai quarant'anni alla loro, di infanzia.

L'uomo fiammifero è un film di Marco Chiarini cui va tributata una standing ovation per l'enorme lavoro svolto e per essere riuscito a coinvolgere tutte quelle persone che con le loro competenze hanno contribuito alla riuscita di questo progetto condiviso.

Guardatelo e meravigliatevi.

17 aprile 2011

Winter is coming

Stasera i telespettatori americani si potranno godere la prima puntata di A Games of Thrones, serie di dieci episodi che propone al pubblico televisivo il primo volume della Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin.
Non so se e quando la serie arriverà in Itaia. Io conto sui sottotitolatori nostrani per godermela nelle prossime settimane, perché a vedere il materiale disponibile su youtube sembra che abbiano fatto un gran bel lavoro.

13 aprile 2011

Letture: La breve estate dell'anarchia / In Patagonia

Come anticipato ormai qualche settimana fa, ecco qualche nota su un altro paio di volumi letti negli ultimi tempi. Stavolta si parla di due testi che provengono dritti dritti dagli anni '70 dello scorso secolo. Non sono romanzi, ma hanno entrambi nel racconto della Storia (e delle storie di contorno) il loro nucleo fondante.

Hans Magnus Enzensberger - La breve estate dell'anarchia


Picture by anarchosyn.

La politica e le bandiere, gli attentati e le riunioni, gli scioperi e le rivoluzioni. Il Socialismo, il Comunismo.
L'Anarchia.
C'è stato un tempo un cui il mondo stava per esplodere, un momento così ricco di potenzialità e sconvolgimenti che al confronto questi ultimi decenni sono paragonabili a un encefalogramma piatto (almeno per noi, europei. occidentali. bianchi e democratici), una manciata di anni in cui i poveracci di queste terre hanno alzato la testa e osato sperare in una vita migliore.
La disperazione e la speranza, il sogno e la violenza, la lotta, la resistenza, il compromesso, il tradimento e la sconfitta. Questa è stata l'anarchia spagnola, e Buenaventura Durruti, il simbolo perfetto di un movimento costretto alla resa dall'inconciliabilità tra principi ideali e pratica quotidiana, tra le istanze individuali e la loro dimensione sociale.
Il racconto della vita di Durruti narrato dalle voci dei suoi contemporanei è appassionante e tragico. L'uomo Buenaventura scompare, sovrastato com'è dal simbolo e dall'esempio. Puoi solo immaginarlo Durruti, che a raccontarla, una vita come la sua, è tanto immensa e incredibile che diventa per forza leggenda.

La scelta di Hans Magnus Enzensberger di raccontare Buenaventura Durruti con le testimonianze di chi quegli anni li ha vissuti, lasciando quindi filtrare pregiudizi, necessità politiche e innamoramenti, è forse l'unico modo obiettivo per affrontare una storia che di obiettivo non ha nulla, tanto è intrecciata alle passioni politiche e alle trame segrete, ai tradimenti e alle rivolte, tanto è lontana dalla Storia ufficiale delle cronache, dei governi e degli eserciti, intessuta com'è delle vite di quel tipo di persone che di solito la Storia dimentica e ignora.
La figura di Buenaventura Durruti che emerge dalle pagine de La breve estate dell'anarchia è quella di un eroe popolare. Un eroe cui nemmeno una morte inconcepibile, allo stesso tempo ridicola e così umana, ha ridimensionato gesta e figura.
Ed è incredibile la distanza che separa la nostra vita da quella dei protagonisti di quella porzione di storia. Non è passato nemmeno un secolo, ma la vicenda di Buenaventura Durruti vista da qui, ora, sembra quella di un personaggio fantastico e quella dell'anarchia un sogno sognato tanto tempo fa, nel cuore della notte, che al risveglio si fatica a ricordare, con un misto di rimpianto e nostalgia.



Bruce Chatwin - In Patagonia


Picture by Fer.Cipriani.

Ma davvero a qualcuno è venuta voglia di partire per la Patagonia dopo aver letto questo libro? E se davvero è successo, mi spiegate in che modo Bruce Chatwin è riuscito ad affascinarvi con il suo racconto di quelle terre? Se c'è un posto dove NON vorrei andare dopo averne sentito parlare in termini tanto poco lusinghieri è proprio la Patagonia, Un luogo dove la gente sembra non perda occasione per litigare o sparlare del vicino, e quando non litiga sembra davvero triste e depressa, e dove nemmeno il panorama sembra essere un granché…
(A scanso di equivoci, io sono convinto che la Patagonia sia un luogo meraviglioso, solo che nulla delle sue meraviglie traspare da questo volume, salvo forse in una pagina o due.)

Erano anni che mi ripromettevo di leggere qualcosa di Chatwin. Per me il viaggio è sempre stata un'esperienza fondamentale e a guardarsi intorno pare proprio che Bruce Chatwin sia l'esempio perfetto del viaggiatore moderno: è stato ovunque, ha scritto una manciata di libri che godono di ottime recensioni e continuano ad essere letti e venduti a più di trent'anni dalla loro pubblicazione.
Eppure nulla della magia del viaggio sembra emergere dalle pagine dedicate alla Patagonia, nulla del fascino della strada, o della meraviglia dell'incontro con un'altra terra e altri popoli. Le cose migliori di In Patagonia sono i racconti delle persone (e dei personaggi) che dalla Patagonia son anche passati ma le cui vite superano abbondantemente i confini di quelle terre (Butch Cassidy su tutti, ma anche lo zio navigatore, o l'anarchico ungherese).
Quel che invece emerge prepotente dalle pagine di In Patagonia sono lo snobismo britannico del suo autore, l'accondiscendenza che riserva ai locali e il continuo sottolineare le differenze in termini di progresso e civiltà delle stirpi nordiche rispetto a quelle indie o latine.
Bruce Chatwin sembra essere immune a quel genere di umiltà che permette al viaggiatore di diventare parte del mondo che attraversa, ed è troppo pronto a giudicare per riuscire ad appassionare il lettore con il racconto del suo viaggio.
In Patagonia nel complesso si legge comunque volentieri, se non per il gusto del viaggio, almeno per la somma di aneddoti e curiosità che indubbiamente contiene. È semmai il personaggio Chatwin ad essere davvero deludente.
Tocca trovarsi nuovi miti…

05 aprile 2011

Realizza i tuoi desideri

Le banche sono il Male. Ma a volte riescono a sorprenderti.

L'altra mattina sono passato dalla banca per un paio di faccende. Mentre attendevo paziente il mio turno sono rimasto folgorato dalla campagna pubblicitaria che incombeva tentatrice su noi clienti. Il prodotto promosso è Avvera, un prestito al consumo che offre al cliente condizioni vantaggiosissime e irrinunciabili.
Ovviamente.

Dopo qualche tentennamento (parlare di una banca? qui? mai!) ho deciso di condividere sul blog il rapimento provato di fronte all'improvvisa illuminazione che mi ha colto di fronte al manifesto di Avvera e rendere quindi i dovuti meriti all'ufficio marketing e all'agenzia responsabili della creazione dell'immagine dei poster e dei pieghevoli che accompagnano la campagna.
Sapete bene che non perdo occasione per dare addosso alle suddette categorie di onesti lavoratori. Stavolta è diverso, stavolta hanno conquistato il mio rispetto.
È quindi con gioia che condivido con voi l'improvviso anelito di trasparenza e onestà che accompagna la promozione del prestito Avvera offerto da Credem.

Cosa c'è di più chiaro, diretto e immediato - per quanto professionalmente sottile - del suggerire il paragone tra il prestito proposto dalla banca e quel chiodo arrugginito che inchioda la farfalla dei tuoi desideri alle manine dolci di un bambino?



Bravi.
Complimenti!

01 aprile 2011

Kill Me Please


Disordine e distruzione, cinismo e anarchia, violenza e risate.
Mah…
Kill Me Please è un film per cui mi mancano i necessari strumenti critici per poterne parlare compiutamente (O Elvezio, Where Art Thou?), ma voglio comunque buttar giù qualche nota, che se poi qualche visitatore lo avesse visto e volesse condividere la sua opinione, beh… sarebbe più che benvenuto.

Kill Me Please è un film curioso e sorprendente, un film in perenne bilico tra furbizia e arte, un film in cui le risate si alternano alle smorfie, in cui non si lesinano i colpi bassi (che poi così bassi non sono mai), in cui con la scusa del film scomodo per situazioni e argomenti si mettono in scena la solita (ma non meno efficace) galleria di personaggi strampalati, ma che ciò nonostante riesce anche a far dire cose interessanti ai suoi protagonisti.
Kill Me Please è un film ambientato in una clinica dove si pratica il suicidio assistito. Una clinica il cui primario, il Dr. Kruger, si dimostra subito personaggio tra i più umani del film: subissato com'è da richieste di suicidio, mantiene dritta e coerente la sua missione etica. Il Dr. Kruger parla di vita più che di morte e, tolto un momento di comprensibile esasperazione, il suo agire è specchio rigoroso di solidi principi. Anche quando le cose gli sfuggono di mano cerca in ogni modo di ripristinare un minimo di civiltà e decenza.
Il Dr. Kruger è insomma l'antitesi della raffigurazione corrente del medico dedito a pratiche eutanasiche, e il suo ruolo è il cardine su cui ruotano tutte le schizofreniche dinamiche del fim.

Kill Me Please è un film che si svolge al di fuori di un contesto riconoscibile. In un certo senso è un film che narra di un assedio, di un isola di quiete (la clinica) circondata dal nulla entropico (i boschi innevati e i loro misteriosi abitanti), in cui si rifugiano una serie di personaggi evidentemente disadattati e inabili al vivere comune. È un film disordinato, divertente e dislessico (quante volte muore l'autista? che razza di fucili usano da quelle parti? e vogliamo parlare del tiratore scelto?), un film la cui improvvisa virata da certe atmosfere autoriali verso l'esplosione di violenza gratuita e spettacolare della seconda metà della pellicola si giustifica per l'efficacia della messa in scena che mescola abilmente istanti di puro dramma ad altri di irrefrenabile divertimento. Un film capace di turbare più per quello che non dice, che per quello che mostra.

Il difetto principale di Kill Me Please, almeno dal mio parzialissimo punto di vista, è la scelta di proporlo al pubblico in bianco e nero. Bianco e nero scelto probabilmente per enfatizzare il taglio crudo e i contrasti della pellicola, ma che nel suo virare sui toni bluastri di una conversione mal riuscita mi ha lasciato un retrogusto di cinema amatoriale che no, non sono riuscito ad apprezzare. Difetti cromatici esclusi, bisogna però riconoscere che la fotografia, specie quella dei primi piani degli attori, è davvero efficace nel mostrare questi volti persi e confusi e tesi al decadimento finale.

Kill Me Please è un film che lascia molte questioni senza risposta, da quelle più profonde (il potenziale problematico dell'eutanasia è abilmente disinnescato con la scelta di un praticante assolutamente rigoroso e trasparente del mestiere di suicidatore) a quelle più terra terra (l'incendio? l'assalto?), che costringono lo spettatore interessato a portarsi il film a casa. La qual cosa non è poi 'sto gran difetto, in questi tempi anche troppo generosi di facili spiegoni e di dubbi rimossi, che guai a porsi troppe domande.

Abbiamo visto il film ieri sera, la visione deve quindi forse ancora sedimentare compiutamente. Ma dei quattro che eravamo, tutti siamo rimasti insieme colpiti e perplessi da quanto visto. Chiedendoci se lo spiazzamento cognitivo con cui si esce dal cinema sia da considerarsi tra i meriti del film o se non sia invece frutto della furbizia di Olias Barco, autore francese di questa sorprendente pellicola.

Come dicevo più sopra, ogni contributo che mi possa aiutare a decifrare la visione è più che benvenuto.