12 ottobre 2007

Pulp'n'Roll


Originally uploaded by wnick87.
Non mi capita spesso di parlare di musica qui dentro. Probabilmente non ne ascolto più nemmeno tanta come una volta. Oltretutto, essendo parecchio schizofrenico in fatto di gusti musicali, mi capita sempre più spesso di spizzicare qua e là tra i dischi e i generi piuttosto che approfondire la conoscenza di uno specifico artista.
Però a volte trovi il disco che devi ascoltare fino in fondo, che riesce a catturare la tua attenzione, che grazie a una strana alchimia tra immediatezza e profondità, tra ricchezza di suoni e abbondanza di suggestioni sembra essere stato prodotto proprio per le tue orecchie.

Questo piccolo miracolo è successo con Icky Thump dei White Stripes.
Gli ex coniugi White ne sanno a pacchi, questa è la premessa fondamentale per parlare del loro ultimo disco. Per ognuna delle 13 canzoni che lo compongono scatta immediatamente l'identificazione con un suono del passato, che sia un vecchio blues o il rumore in puro stile garage, gli strascichi dei Led Zeppelin o un pizzico di tex-mex, una puntata nel folk o nella grandeur hollywoodiana, il bello dei White Stripes sta proprio nell'aver macinato tutte queste sonorità per creare un suono coerente, perfettamente riconoscibile e incredibilmente ricco.

Del resto capire da dove arrivano le sonorità che rendono Icky Thump una perfetta sintesi di radici popolari e rock'n'roll postmoderno è ormai del tutto impossibile, almeno per il sottoscritto: troppe le stratificazioni, troppe gli imbastardimenti mediatici, troppe le contaminazioni per riuscire ad arrivare all'origine del suono White Stripes. Ma il bello del duo americano è proprio quello di non prendere per nulla sul serio il peso della tradizione, di giocare con la capacità evocativa di certi suoni contando unicamente sulla loro capacità di fare musica al contempo immediatamente fruibile e attentamente meditata. E dando l'idea di divertirsi un mondo lungo la strada.

Ah… per la cronaca, non riesco a smettere di ascoltare Conquest, che secondo me sarebbe la colonna sonora ideale per un musical diretto da Quentin Tarantino. Io l'ho detto, chissà mai che non capiti di vedere un film simile…

08 ottobre 2007

Sunshine

Picture by Iguana Jo.

Non so se Danny Boyle e Alex Garland ci sono o se ci fanno, non so se sono due cacasotto, due semplice tecnici cinematografici, magari bravi ma certo poco immaginifici o due prestanome europei della famigerata ditta fantascientifica Spielberg & Zemeckis. Non so nemmeno se la responsabilità sia tutta loro, però mi piacerebbe capire come si possa scrivere e sviluppare e poi massacrare una storia in siffatta maniera.

La storia in questione è quella raccontata in Sunshine, l'ultimo film del dinamico duo. Come sempre per i loro film le premesse ci sono tutte, l'inizio è folgorante, le scelte tecniche magistrali: visivamente Sunshine è splendido. Anche la storia sembra partire col piede giusto: personaggi interessanti, atmosfera tesa e credibile, dialoghi intelligenti e plot avvincente. Non importa se siamo già abituati a situazioni analoghe, nonostante il deja-vù la pellicola sembra essere sufficientemente originale da appassionare anche il più restio degli spettatori fantascientifici.

Poi verso metà film, quando ti sei ormai illuso che siano riusciti finalmente a fare un film di fantascienza che non fa rimpiangere i suoi predecessori più ovvi (da 2001 ad Alien, da Silent Running a Solaris) ecco che le cose si frantumano sotto i tuoi occhi. Dal momento del fatidico incontro con la nave scomparsa (yuppie! una cosa nuova! ma per favore…) le cose si fanno da incredibili a totalmente idiote. Tu sei lì che dici, no, non farlo, dai, per favore, non farlo! E invece eccoti il mostro, eccoti l'inseguimento e la distruzione… Ecco la scontata retorica mistico/scientifica/consolatoria ed eccoti anche l'inevitabile happy-end.
Tutte le risposte personali dei vari personaggi alla responsabilità della missione, la tensione generata dai diversi approcci e dai dubbi etico/morali di fronte alla crisi, l'ottima gestione degli effetti speciali in grado di mostraci tutta la claustrofobica inquietudine di un viaggio nello spazio, in breve tutto quello di buono che la prima metà del film aveva lasciato presagire, tutto infilato nel cesso…

Ma perché mi domando e chiedo??? Le premesse per un ottimo film c'erano tutte! Perché distruggere così impunemente l'ottima costruzione iniziale?
Io temo che il magico duo abbia messo su tutto il baraccone senza sapere davvero cosa voler raccontare, imbastendo un plot ricco di profonde suggestioni senza poi essere in grado di offrire una qualche risposta che non fosse la più ovvia: uccidi il cattivo e salva il mondo.

Il mondo sarà anche salvo, io però di 'sti film insulsi ne ho avuto abbastanza.

02 ottobre 2007

Sensawonda!


Picture by Iguana Jo.
Voglio un romanzo esagerato, voglio un romanzo come quelli di Banks!

Ci sono libri che acquisti quasi per dovere, che di quell'autore vuoi leggere proprio tutto. Li prendi anche se già immagini che non sarà all'altezza dei suoi capolavori, che è impossibile ripetere in altri territori quello che lo scrittore ha compiuto con la serie di romanzi per cui è diventato famoso.
Ti capita quindi di prendere il determinato volume e di lasciarlo parcheggiato nello scaffale dei libri che prima o poi leggerai per un sacco di tempo, a volte per degli anni.

Con The Algebraist è successo esattamente questo. L'ultimo romanzo di fantascienza di Iain Banks non è un romanzo della Cultura, il ciclo che me lo ha fatto adorare. Quindi, mi son detto, sarà un romanzo nella media, probabilmente buono ma non certo indimenticabile.

Beh… mi sbagliavo.

The Algebraist è formidabile.

Mai la definizione di sense of wonder è stata più azzeccata di quando si riferisce a un romanzo di Iain M. Banks. In The Algebraist c'è tutto quel che ci si aspetta di trovare in un romanzo di Banks: scenari esagerati, immagini straordinarie, meraviglie inenarrabili, personaggi tridimensionali. Di diverso rispetto alle storie della Cultura probabilmente c'è solo la razza aliena più incredibile, divertente e invidiabile dell'universo (che in fondo i Dwellers sono decisamente un'altra cultura rimarchevole!) , e poi quello che probabilmente è il cattivo più cattivo tra tutti i personaggi banksiani.
E anche se la struttura del romanzo è piuttosto semplice, basandosi di fatto sul classico meccanismo della quest, inframezzato dal ritorno di qualche fantasma dal passato mentre sullo sfondo si prepara una guerra galattica, la tensione e le sorprese non mancano, come non manca la capacità di Banks di riflettere sul nostro presente, di coniugare la meraviglia all'intelligenza, la leggerezza alla profondità.
Insomma con The Algebraist ritorna un Banks in forma smagliante. Chissà se e quando verrà proposto anche al pubblico italiano.